giovedì 28 giugno 2018

Il welfare aziendale è una iattura

Fonte: Il Fatto Quotidiano Lavoro & Precari | 28 giugno 2018 

Il titolo di questo post riprende quello, fra il provocatorio e l’ironico, di un librino appunto sul welfare aziendale. Che è l’espressione usata per un coacervo di beni e servizi (buoni pasto, sanità integrativa, trasporti casa-lavoro ecc.) che dovrebbero accrescere il benessere del lavoratore.
A sentire certuni è una meraviglia. Vedi il Rapporto welfare di Repubblica del 18 giugno dove leggiamo che il premio di risultato diventa leva di business e ci guadagnano tutti e in particolare che “la polizza conviene” riguardo alla sanità integrativa cui è stato anche dedicato il Welfare day del 6 giugno 2018, che ha certo aiutato i bilanci dei giornali, vista la massiccia campagna pubblicitaria. In particolare per Metasalute, dei lavoratori metalmeccanici, rimando a un mio articolo sul Il Fatto quotidiano.
In realtà il welfare aziendale è spesso una trappola: viene sbandierato un vantaggio fiscale e contributivo, nascondendo che nel complesso la scelta è economicamente in perdita. L’autore del libretto (61 pagine) è Alberto Perfumo. Responsabile di un’azienda di consulenza proprio sul welfare aziendale, è ragionevole supporre che miri a portare acqua al proprio mulino. Di fatto però riferisce correttamente anche dati e informazioni negativi per il welfare.
Merita concentrarsi sui premi di produttività, di risultato ecc. nel settore privato, anche per le pressioni di molte aziende perché i lavoratori li destinino al welfare, anziché riceverli in busta paga. Con essi la legge appare molto generosa. Fino a 3mila o anche 4mila euro l’anno, chi li incassa direttamente paga 9,19% di contributi previdenziali e solo il 10% d’imposta anziché un’Irpef dal 23% al 43%. Chi li destina al welfare, evita addirittura ogni contributo o imposta. Ecco perché questa seconda opzione pare convenire (e per carità di patria non infieriremo su una terza possibilità, ovvero la destinazione alla sciagurata previdenza integrativa).
In realtà la faccenda è più complessa a causa di una normativa criticabilissima. Col premio di produzione nel welfare, il datore di lavoro non versa più la sua parte di contributi previdenziali. Come scrive Perfumo, mille euro di welfare al lavoratore, costano mille euro all’impresa con un risparmio di circa il 30% in contributi. Quindi i dipendenti risparmiano circa il 19% fra imposte e contributi, ma perdono versamenti previdenziali dell’azienda a loro favore in misura superiore.
Con un orizzonte di lungo termine appare dunque preferibile incassare il premio in busta paga. I contributi previdenziali non sono mica soldi persi. Fanno maturare una pensione più alta. Perfumo cita uno studio secondo cui mille euro l’anno in welfare per 37 anni conducano a una decurtazione della pensione di 873 euro l’anno. Ma anche nella stessa ottica dei “pochi, maledetti e subito”, può convenire il premio in busta paga, perché spesso i soldi nel welfare non si recuperano subito; e può diventare difficile utilizzarli tutti.
Lavoro & Precari | 28 giugno 2018

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