Il governo della Francia prevede per l’anno prossimo un taglio delle tasse pari a 24,8 miliardi di euro, nel tentativo di dare impulso all’economia e creare più posti di lavoro. Per finanziare la misura, il deficit pubblico del Paese dovrebbe aumentare dal 2,6 per cento del Pil di quest’anno al 2,8 per cento l’anno prossimo, comunque sotto al 3 per cento. Le misure per il 2019 sono basate su una previsione di crescita stimata all’1,7 per cento. Nel dettaglio, le tasse sulle famiglie saranno ridotte di 6 miliardi di euro, quelle alle aziende di 18,8 miliardi. Sono tutte cifre presentate dai due ministri competenti, quello del Bilancio Gérald Darmanin e quello delle Finanze Bruno Le Maire. La prosperità, sottolinea Le Maire, “non deve basarsi su maggiore spesa pubblica, più debito e più imposte”. L’alleggerimento fiscale, infatti, ha rivendicato il presidente della Repubblica Emmanuel Macron, pur in presenza di un aumento del prezzo dei carburanti, sarà “il più consistente” degli ultimi dieci anni.
Un’iniziativa che ha suscitato, dopo pochi minuti, la reazione del vicepresidente del Consiglio italiano Luigi Di Maio. “La Francia – twitta il ministro per lo Sviluppo – per finanziare la sua manovra economica farà un deficit del 2,8 per cento. Siamo un Paese sovrano esattamente come la Francia. I soldi ci sono e si possono finalmente spendere a favore dei cittadini. In Italia come in Francia”. E’ la linea già annunciata e ripetuta più volte dal ministro M5s, fino a stamani, in un’intervista al Fatto Quotidiano: “Reddito di cittadinanza facendo deficit”. Vale la pena ricordare, peraltro, che le “cartelle cliniche” di Francia e Italia sono diverse: il rapporto tra deficit e Pil, per esempio, in Italia è al 133 per cento, mentre in Francia è al 97; lo spread tra buoni del tesoro francesi e tedeschi è poco sopra quota 30 contro l’indice di circa 240 del differenziale italiano.
Per i Cinquestelle, tuttavia, “da Monti in poi le manovre di austerity hanno fatto aumentare il debito pubblico italiano di 300 miliardi di euro, esattamente quello che non voleva l’Europa” come dice il capogruppo al Senato Stefano Patuanelli. Ecco perché serve quella che il parlamentare grillino definisce “Manovra del popolo” per utilizzare “anche le spese in deficit, non certo per violare i parametri Ue, ma per dare una boccata d’ossigeno ai cittadini più in difficoltà”.
In questa battaglia il governo italiano è unito, nonostante una “guerra di numeri”. Più precisamente, di uno solo, quello del rapporto deficit-Pil: Di Maio punta al 2 per cento, il ministro dell’Economia Giovanni Tria vorrebbe fermarsi all’1,6. Ma questa cifra, sottolinea il presidente della commissione Bilancio della Camera Claudio Borghi (leghista) non è mai uscito dalle labbra di Tria: “Io non ho mai sentito dire a Tria il numero 1,6” dice Borghi a Circo Massimo, su Radio Capital.
Quel numero, secondo Borghi, dovrebbe salire al 2,5: “Stiamo confondendo il numero del Def con la legge di bilancio, l’ex post con l’ex ante. Secondo me, ex ante, un numero vicino al 2,5 porterà come risultato una percentuale più bassa”, spiega Borghi. “Se mettendo un po’ di denaro in circolo aumenterà la crescita, e quindi il Pil, ex post il rapporto deficit-Pil sarà più basso. Con il 2,5 e una credibile politica di crescita, i mercati resteranno tranquilli”. Il resposabile economico della Lega poi nega che con l’aumento del debito lo spread tornerebbe a 500 punti: “Secondo me non c’è alcuna relazione fra debito e spread. I primi paesi che ebbero a che fare con lo spread nel 2011, come Irlanda e Spagna, non avevano debito”.
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