dal blog
cambiare il mondo
di G.Z. Karl
Dopo alcuni mesi di battaglia, la guerra in Ucraina è finalmente
conclusa. È dunque giunto il momento di un’analisi su ciò che è
successo, in particolare di un’analisi sulla sconfitta delle forze
governative ucraine e sugli scenari internazionali che si aprono
inevitabilmente a seguito di questo successo delle forze filorusse.
Le ragioni della sconfitta militare ucraina
Riguardo
alla sconfitta delle forze ucraine, perché di ciò si deve parlare, è
doveroso premettere che un’analisi militare è oltremodo difficile. I
fatti sono stati oscurati dalla propaganda di guerra proveniente da
entrambi i lati e, inoltre, non esistono documenti seri e certi
relativi alle forze in campo, ai loro movimenti, alla loro
organizzazione e così via. Bisognerà, cioè, rifarsi ai fatti per come
sono accaduti e per come sono stati riportati (in occidente, al solito,
molto malamente dalla nostra stampa).
Partiamo dalla situazione
antecedente al conflitto. Col referendum dei mesi scorsi, la Crimea
passa alla Russia, che fa sentire il peso della sua forza militare
scacciando le truppe ucraine dal territorio della Crimea, sia pure
senza sparare praticamente un colpo. Dopodiché è la volta delle
province russofone del Donbass a tenere referendum per l’indipendenza e
la successiva adesione alla Federazione Russa, che però non ha luogo
poiché la Russia preferisce una strategia gradualistica e di guerra a
bassa intensità. All’inizio di giugno scatta così l’operazione
antiterrorista del governo ucraino. Con l’inizio delle attività
belliche il 4 giugno scorso, Poroshenko presume di poter riconquistare
in un mese e poco più di tempo il Donbass, regione strategica per
l’Ucraina specialmente dal punto di vista economico trattandosi a
tutt’oggi di un notevole bacino carbonifero, le cui risorse sono
indispensabili alla dissestata economia ucraina.
Perché in un mese
e poco più? Perché la storia ci insegna, da ultimo con l’offensiva
tedesca del 1941 in URSS e i rovesci che poi ne seguirono, che il tempo
dei combattimenti in quella regione del mondo è solo l’estate. Già in
ottobre, infatti, con i primi acquitrini, le truppe di terra finiscono
inevitabilmente per impantanarsi. Ecco perché Poroshenko scatena il
prima possibile l’offensiva. Perché sa che deve chiuderla al più
presto, non disponendo di una finestra temporale lunga prima
dell’arrivo delle piogge. Peraltro, egli sa bene che attaccare subito
gli offre il vantaggio di contare sull’impreparazione dei filorussi.
Questi
sono gli elementi a favore di Poroshenko. In più, almeno stando a
quanto riportato in occidente, egli dispone di una forza militare di
gran lunga superiore a quella male armata, male organizzata e
improvvisata dei filorussi, giacché le forze armate ucraine dovrebbero
comprendere almeno 800.000 uomini (ma ripetiamo che non esistono cifre
ufficiali verificabili).
Questo è il calcolo che spinge Poroshenko
all’offensiva. Senonché, sarà proprio questo calcolo la sua tomba
militare. Le forze armate ucraine spingono sull’acceleratore nel corso
del mese di giugno e nella prima metà di luglio i giornali occidentali,
tra cui quelli italiani, annunciano trionfalmente che la guerra sta
per finire perché gli ucraini ormai stanno per accerchiare e prendere
definitivamente Donetsk e Lugansk. Dopo l’intermezzo dell’abbattimento
del volo malesiano i combattimenti riprendono furiosi, ma questa volta
sono i filorussi a passare alla controffensiva e a sbaragliare le forze
di Kiev. Cos’è successo e soprattutto cos’è accaduto che i giornali
(anche italiani) non ci hanno spiegato o voluto spiegare?
Innanzitutto,
occorre ricordarsi sempre che, come insegnava von Clausewitz, ogni
guerra ha un suo punto “culminante”, il momento cioè in cui i rapporti
di forza si rovesciano. Per intendersi e restare in “zona”, la
battaglia di Stalingrado fu il punto culminante della seconda guerra
mondiale. Ora, il punto culminante non si verifica per mera casualità,
bensì per ragioni ben precise e tutte razionali (anche se agli occhi
della stampa occidentale queste o si producono perché esistono le
streghe che gettano il malocchio o perché il russo è un orco brutto e
cattivo).
Vediamo, allora, cosa può essere successo. Sicuramente,
le forze militari ucraine, benché preponderanti rispetto alle forze
filorusse (godendo peraltro del supporto delle forze aeree), non erano
in realtà così numerose e ben armate come la propaganda voleva far
intendere. Stando a stime un po’ più realistiche, le truppe
effettivamente pronte al combattimento erano, molto probabilmente, pari
solo a 40.000 uomini. Come si vede, non certo un gran numero, specie
in rapporto a una regione estesa come il Donbass e soprattutto in
relazione alla sua conformazione geografica. Di qui l’invio di truppe
volontarie e anche di forze paramilitari riconducibili ai partiti
Svoboda e Settore Destro, vale a dire forze politiche di chiaro
orientamento di estrema destra. Qui veramente ormai non stupisce più la
doppia morale dell’occidente. A Poroshenko si permette di inviare
forze paramilitari di questo tipo per riconquistare il Donbass, quando
Milosevic, a suo tempo dipinto come un nazista, non ha mai impiegato in
Kosovo forze paramilitari usando per la repressione le forze del
Ministero dell’Interno jugoslavo (e poi serbo). Le truppe irregolari
serbe, specie di Arkan, operavano infatti in Croazia e Bosnia, tra il
1992 e il 1995, e non in Kosovo, e oltretutto non si trovavano sotto il
comando del Governo di Belgrado, come riconosciuto dalla Corte
Internazionale di Giustizia nella sua sentenza nel caso Bosnia contro
Serbia.
Già l’impiego di forze paramilitari, e quindi di fanatici
ma non certo di professionisti, rivela lo stato di difficoltà in cui
versavano e versano le forze armate ucraine.
Queste forze che
disponevano comunque della superiorità aerea arrivano alle porte delle
due città menzionate prima, ma non riescono a quanto sembra né a
chiudere mai l’accerchiamento né tantomeno a entrare nelle città.
Difatti, per alcune settimane non faranno altro che colpirle da lontano
con l’artiglieria.
Perché ciò? Qui la ragione è da un lato
direttamente militare e dall’altro lato è logistica. Direttamente
militare perché evidentemente, dopo un mese e mezzo di combattimenti
condotti da truppe scarse e malarmate, gli assedianti di Donetsk e
Lugansk non ce la fanno più fisicamente. D’altronde, se questi erano
gli effettivi, in assenza di turnover è del tutto ovvio che esse
iniziassero a dare, come hanno dato, segnali di cedimento. Il problema
era poi aggravato da altri fattori: 1) la lontananza dal centro
dell’Ucraina; 2) il dover combattere su due fianchi; 3) un sistema
economico fragile.
Detto sinteticamente, premesso ancora una volta
che il turnover delle truppe ucraine doveva essere praticamente
assente date peraltro le distanze tra il Donbass e i quartieri centrali
di comando ucraino, la lontananza dal cuore del paese ha tagliato le
gambe alle scarse forze armate ucraine dal momento che ne ha reso
viepiù difficile, a mano a mano che ci si allontanava verso est, i
rifornimenti logistici. L’Ucraina infatti è un territorio vastissimo,
in special modo quando le truppe messe in campo sono poche e malarmate.
Queste
forze, poi, non hanno dovuto combattere una guerra su due fronti.
Questa presuppone, per esempio, un confronto militare
contemporaneamente a est e a ovest. Ma di certo esse si sono trovate in
una situazione assimilabile, dovendo combattere su due fianchi lontani
l’uno dall’altro (Donetsk e Lugansk), con ciò disperdendo forze ed
energie, già assai poco ampie e logorate progressivamente, che non
potevano essere concentrate su un obiettivo solo (come avviene per
l’appunto anche nella guerra su due fronti).
A ciò va sommata la
fragilità dell’economia ucraina in questo momento che non permette
affatto uno sforzo bellico prolungato con la crisi economica in corso.
Ogni sforzo militare di questo tipo richiede, oggi, una economia
preparata alla guerra e quella ucraina era ben lungi dal potersi dire
pronta ad affrontarne una.
Come si vede, quindi, le condizioni
militari di partenza erano, per Poroshenko, solo all’apparenza
favorevoli. Esse potevano, in altri termini, dirsi favorevoli, per di
più in assenza di rifornimenti da parte occidentale, solo a patto di
concludere nel giro di pochissimo tempo il conflitto.
Dall’altro
lato, le forze militari di Novarussia erano sicuramente messe ancora
peggio delle forze ucraine, non disponevano di aerei ed erano
improvvisate. Ma avevano alcuni fattori a loro vantaggio: 1) giocavano
in “casa”; 2) non avevano nulla da perdere giacché per loro la
repressione ucraina significava solo oppressione e perdita di libertà;
3) guerreggiavano su un fronte per loro più compatto; 4) erano
vicinissime alla linea di rifornimento rappresentata dal confine russo;
5) potevano giocare col turnover delle truppe, perché da quanto si è
capito, sebbene numericamente inferiori, le truppe filorusse venivano
mandate aldilà del confine a riposare per poi rientrare a combattere e,
in questo modo, potevano avere la meglio su truppe superiori in uomini
ma molto più stanche; 6) avevano un apparato economico e bellico di
rifornimento come quello russo alle spalle.
È chiaro, in ogni
modo, che i russi sono scesi in campo a combattere a fianco di
Novarussia. Ma va detto che ciò non hanno fatto in modo scomposto,
bensì mimetizzandosi e con numeri limitati ma bastevoli a fronteggiare
paritariamente gli ucraini, in maniera tale da evitare l’accusa di
un’aggressione diretta. Di più, i russi hanno fornito, è evidente, il
supporto necessario a neutralizzare l’aviazione militare ucraina,
offrendo per un verso l’armamento antiaereo necessario alle truppe
filorusse sul terreno e, per altro verso, guidando da poco di là del
confine, dai propri centri radar, le forze della difesa antiaerea di
Novarussia nell’individuazione e nell’abbattimento dei caccia militari
ucraini.
Bisogna altresì aggiungere un dettaglio molto
significativo dal punto di vista strategico militare. Il conflitto si è
giocato dovendosi tenere a mente quattro punti: Donetsk, Lugansk, la
Crimea e il territorio ucraino che dalla Crimea si spinge al confine
russo verso est, con in mezzo Azov. In questo quadrilatero, ovverosia
tra i due fianchi del combattimento in cui le truppe ucraine erano
impegnate si è aperto, con ogni evidenza, un buco enorme (per loro) in
cui le truppe filorusse si sono buttate per arrivare fino al Mare di
Azov, creando così una sorta di “testa di ponte” tra la Crimea e il
resto del territorio russo e chiudendo definitivamente agli ucraini
ogni possibilità di vittoria, tanto da finire, a propria volta,
accerchiati.
Non a caso, infatti, subito dopo Poroshenko ha chiuso
un accordo per la tregua militare e la cessazione delle ostilità, ben
cosciente della propria disfatta militare (e di riflesso politica).
I prossimi scenari
Dietro
la sconfitta di Poroshenko si staglia la figura di Vladimir Putin,
assieme al suo staff e al suo Stato Maggiore militare. Del resto, non
v’erano dubbi attorno al fatto che Putin e i suoi fossero persone dal
sangue freddo, preparate, pazienti e tenaci e soprattutto dotate di
orgoglio nazionale e di desiderio di rivincita dopo la disfatta russa
degli anni ’90 del secolo scorso. Ciò avevano già dimostrato in
occasione della crisi siriana del 2013, a seguito della quale gli
occidentali avevano voluto prendersi la loro rivincita facendo
esplodere, in nome dell’europeismo, la crisi ucraina.
Quest’ultima
crisi ha rivelato, da una parte, lo stato di prostrazione delle
“potenze occidentali” e, dall’altro, la capacità della Russia di
giocare un ruolo sullo scenario internazionale anche in termini di
“confrontation”. Certo, la Russia e Putin hanno sfruttato tutti i
margini concessi dalla situazione politica internazionale: 1) lo stato
di acuta difficoltà economica in occidente; 2) il continuo delle
tensioni in Medio Oriente che obbliga la marina degli USA a tenere una
parte delle proprie forze bloccate nel Golfo Persico; 3) il progressivo
aumentare delle tensioni in Asia che ha costretto buona parte della
flotta USA a concentrarsi nelle acque tra le Filippine e il Giappone in
virtù degli obblighi militari che gli USA hanno con i paesi della zona
in caso di minaccia cinese o nordcoreana; 4) il tutto mentre sempre gli
USA sono costretti a parcheggiare una propria parte della flotta a
presidio della costa occidentale e della costa orientale del paese onde
prevenire nuovi attacchi in stile 11 settembre.
Di qui, con ogni
evidenza, l’impossibilità principalmente per gli USA di muoversi a
sostegno di Poroshenko, per via del fatto di essere ormai allo stremo
delle forze militari e nell’impossibilità in questa fase di puntare a
una guerra con un sistema economico in pessime condizioni.
Questo è
il contesto mondiale in cui si è inserita la crisi ucraina. È
interessante ora vedere quali riflessi avrà l’esito del conflitto. La
situazione immaginata da Putin, a quanto sembra, pare assimilabile, a
prima vista, a quella del Kosovo. Un conflitto non troppo prolungato,
seguito da una fase di stabilizzazione sul terreno che, col tempo, porti
poi al distacco formale delle regioni russofone in vista della loro
definitiva adesione alla Federazione Russa (in fondo, neanche per il
Kosovo è tuttora preclusa questa strada, ovvero della “riunificazione”
con la madre terra albanese, il che rischierebbe di portare a un nuovo
conflitto balcanico, ma questa volta provocato dal nazionalismo
albanese).
Il calcolo di Putin è evidente: a) appropriarsi delle
terre nazionali russe localizzate nei confini ucraini; b) impossessarsi
delle risorse carbonifere del Donbass; c) spingere ciò che resterebbe
dell’Ucraina occidentale verso le fauci dell’occidente. Quest’ultimo
aspetto può sembrare paradossale. Eppure, è lecito sospettare che
proprio questo fosse e sia tuttora il calcolo politico di Putin. Si
potrebbe obiettare che, così facendo, l’Ucraina occidentale entrerebbe
nella NATO e i russi si ritroverebbero col nemico alle porte. Questa
posizione è apparentemente logica ma non tiene conto di alcuni fattori,
segnatamente del fatto che, una volta amputata di un pezzo (peraltro
economicamente rilevante), l’Ucraina occidentale si ritroverebbe non a
chiedere l’ingresso nella NATO e nella UE, bensì si ritroverebbe alla
loro mercé. Per di più, l’amputazione dell’Ucraina ben potrebbe
risvegliare, se non ha già risvegliato, gli appetiti nazionalistici di
Polonia, Ungheria e Romania.
Con l’esplodere della crisi ucraina,
difatti, sono tornati fuori nomi che sembravano scomparsi dai radar
internazionali, vale a dire Galizia, Bucovina, Bessarabia, Rutenia
subcarpatica. Si tratta di regioni, tutte queste, che hanno formato
oggetto di un lungo contenzioso sulla sistemazione dei confini
nell’Europa centrale e orientale almeno fino alla seconda guerra
mondiale.
Già il partito di estrema destra ungherese, Jobbik, che
alle elezioni nazionali è riuscito ad arrivare al 20% dei voti è
tornato a sollevare la questione della minoranza ungherese nella
Rutenia subcarpatica. Più sopite sono state, invece, le reazioni
polacche e rumene e ciò per comprensibili ragioni. Perché la Polonia,
tuttora, confina direttamente con la Russia (nell’exclave di
Kaliningrad) e, perciò, tra la minaccia dell’orso russo e la volontà di
espansione territoriale verso la Galizia deve necessariamente avere
come priorità il contenimento dei russi. Perché nella stessa situazione
si trova, in pratica, la Romania che confina con la Moldova, mentre le
truppe russe si trovano nella provincia separatista della Transnistria
(appunto in Bessarabia).
In questo quadro, traspira dalle mosse
di Putin un’idea di fondo, vale a dire quella di puntare a risvegliare i
nazionalismi ormai sempre meno latenti e sempre più evidenti in quelle
regioni per provocare, di conseguenza, una dissoluzione del quadro
europeo. Dissoluzione che, d’altro canto, potrebbe essere favorita
dalla rottura della zona euro, elemento, questo, che Putin avrà, con
ogni probabilità, considerato all’interno della sua cornice strategica
di azione.
Anche questo elemento, aldilà delle apparenze, può
contribuire a spiegare la reticenza con cui l’Unione Europea ha accolto
l’idea di un’integrazione rapida dell’Ucraina al suo interno, essendo
del tutto palese che un simile processo potrebbe segnare l’inizio della
fine dell’Unione specialmente nell’Europa orientale attraverso la
riapertura di discussioni che soltanto all’apparenza sono chiuse, ossia
le discussioni sui confini in Europa che, come dimostra la guerra in
Ucraina, non sono intangibili.
Ciò posto, appare più che mai
complicato rimettere assieme i cocci delle relazioni con la Russia. Non
vi sono dubbi in ordine al fatto che, giocoforza, una parte di questi
cocci vada ricomposta, tenuto conto dell’ampiezza delle relazioni
commerciali con la Russia e dell’importanza strategica delle sue
forniture energetiche all’Europa. Ciò non toglie, però, che le
relazioni UE-Russia siano andate peggiorando in maniera duratura a
causa del carattere fortemente antirusso delle attuali elite europee,
che vedono in Putin, e nel suo governo, una sorta di mostro bifronte
zarista-stalinista a carattere tipicamente autocratico e illiberale.
In
conclusione, è appena il caso di rilevare che da questa crisi potrebbe
scaturire una stasi nei rapporti tra Russia e UE molto duratura nel
tempo, parallelamente a quella che sarà la fase di congelamento della
crisi ucraina e fintantoché essa non avrà termine con la definitiva
separazione delle province “ribelli” e la loro adesione alla Russia.
Frattanto, però, la Russia non starà affatto ferma, rivolgendo lo
sguardo verso oriente e cercando di diventare sempre più protagonista
sullo scacchiere asiatico, venendosi così ad aggiungere un ulteriore
elemento di tensione in una polveriera. Il tutto mentre l’Europa, crisi
dell’euro o meno, diventerà ancor meno rilevante di prima.
p.s.
l'analisi
è puntuale.... ma aggiungo solo che è molto probabile che ci sia stato
uno scambio, non dichiarato, fra putin e obama: il primo si prende la
parte est dell'ucraina il secondo fa quello che vuole in iraq e siria
anche perchè gli estremisti li ha finanziati lui o chi per esso quando
si doveva combattere Assad