Di
Mauro Bottarelli , il
22 agosto 2016 dal blog
Rischio Calcolato

A Ventotene, Matteo Renzi, Francois Hollande e Angela Merkel si
incontrano per parlare di Europa e del suo futuro, evocando lo spirito
del manifesto di Altiero Spinelli dopo lo shock del Brexit. Cazzate.
Renzi ha bisogno di flessibilità a tutti i costi, perché non può
permettersi che la crisi economica si tramuti in un elemento
determinante nel voto al referendum costituzionale di novembre, quindi
blinderà i due leader su una nave della Marina militare e gli dirà
quanto segue: voi non ostacolatemi in sede di Commissione Ue nelle
richieste che avanzo e io faccio in modo che i profughi restino in
Italia. Insomma, Renzi versione Erdogan. Perché Francia, Svizzera e
Austria avranno anche sigillato i confini ma se dal lato italiano la
polizia comincia a guardare dall’altra parte, state tranquilli che ci
vuole poco a far fiorire il business degli spalloni di uomini. Si chiama
realpolitik, fa schifo ma c’è sempre stata.
Il problema vero è che per quanto Renzi cerchi di fare i salti
mortali, ora evocando attraverso il ministro Del Rio la panacea
keynesiana dei mitologici investimenti pubblici, il destino del Paese è
segnato. Di più, è l’Europa stessa ad aver quasi raggiunto il punto di
non ritorno. “Tra due mesi o tra due anni ma quel che è certo è che
siamo alla vigilia di una nuova grave crisi stile 2008 o peggio”, ha
dichiarato in un’ intervista pubblicata ieri del quotidiano belga “Le
Soir” Carlo De Benedetti, uno che parla poco ma quando lo fa, è per
mandare messaggi in codice. Dichiaratosi “sorpreso” dalla Brexit,
definita “l’inizio di un ripiegarsi su di sé come lo sarà il voto per
Trump”, il presidente del Gruppo L’ Espresso ha inoltre affermato che
nella Ue “oggi non abbiamo dirigenti all’ altezza, Merkel è la sola
leader in Europa”.

Insomma, l’Ingegnere ha scaricato Renzi: vuoi vedere che quel “comunque
vada si vota nel 2018” era solo la spacconata di chi sa che i poteri
forti gli hanno detto addio e gioca la carta del tutto per tutto? Ma
sempre ieri, un altro giornale ha lanciato un attacco molto netto contro
l’Italia, per l’esattezza contro le sue banche. Il “New York Times” ha
infatti messo nel mirino i prestiti concessi alle imprese che,
nonostante le iniezioni di liquidità, faticano a tenere i conti in
ordine. Tra gli esempi, il quotidiano cita Feltrinelli, la quale dal
2012 a oggi ha totalizzato quasi 11 milioni di perdite eppure ha
continuato a essere sostenuta da Unicredit e Intesa Sanpaolo. L’analisi
parte da un report del Center for economic policy research e punta il
dito contro gli istituti di credito che, nell’ ultimo anno, in Borsa
hanno perso il 70%.

Oltre alla casa editrice, finiscono nella lista dei cattivi anche i
Benetton. Ma a preoccupare sono soprattutto le migliaia di piccole
imprese che sono state colpite duramente dalla recessione: stando ai
calcoli del centro ricerche, il 17% dei prestiti è finito a chi non lo
meritava. “Una situazione che ricorda quella greca”, chiosa il
quotidiano statunitense.
Insomma, De Benedetti è certo che un’altra violenta crisi finanziaria sia alle porte. Non è il solo. Questo grafico

è relativo all’ultimo sondaggio di Bank of America tra i fund manager
relativamente al “tail risk” che temono maggiormente. Come vedete, gli
attacchi di Nizza e Monaco hanno fatto aumentare la percezione di
rischio legato al terrorismo, assente a luglio ma la preoccupazione
maggiore, non presente un mese fa, è quella relativa alla
disintegrazione dell’Ue. Eppure grazie agli acquisti della Bce gli
spread sovrani sono calmi e le aziende si finanziano attraverso
emissioni obbligazionarie a pioggia: perché questa paura? Perché il
mondo annega nel debito ed è in condizioni macro molto peggiori di
quelle del 2008, quindi è naturale che prima o poi anche la droga delle
Banche centrali non basti più e le bolle esplodano. Guardate questo
grafico

relativo ai default corporate: da inizio anno siamo a 113, pari al
totale dell’intero 2015 e il 57% di più rispetto ai primi otto mesi
dell’anno scorso. Per trovare un tasso di fallimenti simile, dobbiamo
andare indietro al 2009. Ma come ci mostra questo altro grafico,

grazie all’operato onnivoro della Banche centrali, gli spread sull’alto
rendimento Usa non solo non si ampliano ma calano, nonostante l’aumento
dei default. Può durare in eterno una dinamica simile? Chiedetelo a chi
nega l’esistenza della Scuola austriaca e vediamo cosa risponde. E senza
scomodare i multipli di utile per azione da manicomio degli indici Usa,
è la realtà macro a dirci che se la Fed si azzarda ad alzare i tassi a
settembre, si ballerà sul Titanic. E guardate questo altro grafico,

il quale ci mostra come a Vancouver il prezzo medio di un’abitazione sia
di 1,1 milioni di dollari, in calo del 20,7% rispetto a soli 28 giorni
fa e giù del 24,5% negli ultimi tre mesi. Bolla in piena regola, mercato
devastato, oltretutto con l’industria dello shale oil che non
garantisce più l’effetto ammortizzatore sull’economia reale. Eppure per i
fund manager interpellati da Bank of America il rischio è l’Ue. Forse
perché gli Usa hanno tutto da guadagnarci a far esplodere una crisi del
debito o bancaria lontano dai loro mercati, patendo quindi meno
l’effetto contagio diretto e garantendosi l’effetto collaterale positivo
di poter riattivare le presse dello stimolo a causa della nuova
emergenza esterna.
E come potrebbe accadere? Questo grafico

ci mostra come le banche portoghesi, già di per sé debolissime, abbiano
quasi raggiunto quelle italiane nella non invidiabile classifica del
cosiddetto doom loop, ovvero il circolo vizioso tra debito sovrano e
detenzioni bancarie. La logica è chiara e semplice: più uno Stato emette
debito, stimolato dagli acquisti della Banca centrale che garantisce
rendimenti sotto zero in molti casi, più le banche commerciali comprano
quel debito, certe della garanzia governativa sullo stesso, implicita o
esplicita che sia. Ma se i bilanci delle banche peggiorano a causa delle
sofferenze, questo di fatto porta a un impairment della garanzia
governativa finale sul quel debito. Insomma, basta uno shock sugli
spread e boom.

Oggi le banche lusitane detengono debito sovrano pari al 10% degli
assets totali, in aumento dal 7% di soli due anni fa: avanti di questo
passo, nel 2018 arriveranno al nostro livello di esposizione. Il
problema è che il Portogallo ha un ratio debito/Pil del 129% e ha
mancato, insieme alla Spagna, i propri obiettivi di deficit per il terzo
anno di fila. Inoltre, il debito portoghese è acquistabile della Bce
solo perché ritenuto ancora investment grade dall’agenzia canadese DBRS,
mentre per le “tre sorelle” è junk. Se si arrivasse a un downgrade,
sarebbe la catastrofe: senza il backstop di Francoforte, lo spread
portoghese volerebbe alle stelle e contagerebbe immediatamente quello
spagnolo. Per capirci, un calo del 15% nel prezzo dei bond sovrani
eroderebbe il 35% del capitale delle banche italiane, il 22% di quelle
portoghesi e il 18% di quelle spagnole. E questo grafico

ci mostra come lo spread dei bond portoghesi sia cominciato a salire
negli ultimi giorni in contemporanea con i rumors che vedono il proprio
quel rating investment grade sempre più a rischio. Il capo dei rating
sovrani della DBRS, Fergus McCormick, interpellato dalla Reuters
riguardo lo stato di salute dell’economia portoghese, ha parlato chiaro:
“Il dato sul Pil del secondo trimestre, un misero +0,2%, ha fatto
aumentare le nostre preoccupazioni riguardo le prospettive di crescita
del Paese, il quale ci appare nettamente in rallentamento nel trimestre
in atto”. Ad oggi la valutazione di Lisbona ha outlook stabile ma andrà
in revisione il 21 ottobre prossimo, soltanto una settimana dopo che il
Portogallo sarà chiamato a fornire alla Commissione una lista di nuovi
tagli ritenuti necessari per rispedire il deficit di budget sotto il 3%
del Pil.

L’incertezza
relativa al come ottenere queste misure unita al contraccolpo politico
che nuova austerità potrebbe avere sulla già fragile coalizione di
centrosinistra fa crescere i timori in McCormick, a detta del quale non è
affatto escluso che “si debba operare un salvataggio di alcune banche,
tra cui Caixa Geral de Depositos e BCP, attraverso soldi pubblici”. O,
peggio, con il meccanismo del bail-in.
Ma c’è dell’altro. E di peggio. Perché per la prima volta dalla fine
della Guerra Fredda, il ministero dell’Interno tedesco ha emanato un
piano di emergenza in base al quale i cittadini dovranno
obbligatoriamente creare scorte di acqua e vivere per almeno dieci
giorni di sussistenza. Il motivo? Ufficialmente, un enorme attentato o
una catastrofe. La notizia è stata rivelata dal Frankfurter Allgemeine
Sonntagszeitung, il quale rende noto che il piano – denominato “Concetto
per la difesa civile” – è stato commissionato a un comitato apposito
nel 2012: ovvero, dopo la crisi dei debiti sovrani del 2011 che sembrava
poter distruggere l’eurozona. Smentite dal governo? Nessuna, anzi il
portavoce del ministero dell’Interno ha confermato che il piano è stato
discusso dall’esecutivo mercoledì scorso ma ha rifiutato di offrire
altri dettagli.

Nel report si cita la necessità di “prepararsi appropriatamente per uno
sviluppo che potrebbe minacciare la nostra esistenza e che non può
essere categoricamente escluso”. Un’altra priorità sarebbe aumentare il
supporto della popolazione nei confronti delle forze armate: le stesse
che, dopo gli attentati di luglio, sempre più politici vorrebbero nelle
strade al fianco della polizia per prevenire le minacce terroristiche.
Ora la domanda da farsi è semplice: politici e intelligence tedeschi
sanno qualcosa che noi non sappiamo o sta proseguendo la politica in
base alla quale un popolo spaventato può essere influenzato e
controllato meglio? Magari per affrontare un’altra emergenza, quella di
una Ue che crolla.
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