29/04/2016 di
triskel182

Ieri
un’amica economista, per divertirsi, ha calcolato che, per guadagnare
quello che Marchionne prende in un anno, un voucherista italiano
dovrebbe lavorare 2.500 anni tutti i 365 giorni dell’anno. Un rapporto 1
a 2.500, pertanto, ipotizzando generosamente che anche Marchionne non
riposi nemmeno un giorno.
Diceva Adriano Olivetti che «nessun
dirigente, neanche il più alto in grado, deve guadagnare più di dieci
volte l’ammontare del salario minimo». Il capitalismo italiano è
insomma passato in mezzo secolo dalla teorizzazione di un rapporto 1 a
10 alla pratica di un rapporto 1 a 2.500.
Quella che vedete qui sopra è una delle tabelle più note del
libro
con cui Thomas Piketty, nel 2013, ha preso d’assalto tre decenni di
egemonia culturale, politica e fattuale della destra economica. Mostra
la quota di reddito in percentuale del 10 per cento più ricco
nell’ultimo secolo e illustra in modo immediato quello che è successo in
Europa e negli Stati Uniti.
Ci sono diverse cose, in questo grafico.
Ad
esempio c’è la rappresentazione plastica della parola “neoliberismo”,
su cui alcuni ironizzano come se fosse un’invenzione dietrologica, una
proiezione da complottisti, invece qui si palesa in tutta la sua
chiarezza: è, semplicemente, quella cosa che ha iniziato a far
schizzare in su le due linee, dopo che i vari new deal, patti sociali,
socialdemocrazie o altre forme di mediazione tra alto e basso le
avevano fatte gradualmente scendere, per mezzo secolo abbondante. Ad
esempio a quelli del Foglio, che si baloccano con la rubrichetta “Tutta
colpa del neoliberismo”, bisognerebbe ogni volta sbattergli in faccia
questa tabella: magari, con un disegnino, capiscono.
Curiosamente –
e questa è un’altra cosa che emerge dal grafico qui sopra – il mezzo
secolo in cui diminuiva il distacco tra più ricchi e più poveri ha
coinciso con il periodo di maggior avanzamento complessivo delle
società.
Forse non è un caso: una buona parte della letteratura
economica, negli ultimi tempi, sta avanzando seriamente l’ipotesi che
oltre un certo livello le disuguaglianze producano danni per tutti. Lo
ha fatto Robert Reich, in un
libro già citato in questo blog. Lo fanno ora anche Maurizio Franzini e Mario Pianta nel loro ultimo saggio, “
Diseguaglianze“, da poco uscito per Laterza.
La
loro analisi su questo punto – basata soprattutto su dati Fmi e Ocse
(quindi non proprio fonti di estrema sinistra) – è prettamente di
carattere economico, cioè relativa agli effetti sulla
crescita di un Paese. Qualche anno fa, Richard Wilkinson e Kate Pickett – in un
libro
che andrebbe fatto studiare in tutte le scuole – mostrarono dati alla
mano come una forbice sociale eccessiva genera anche più violenza, più
ignoranza e maggiore disagio psichico. È di questi ultimi mesi invece
l’evidenza che, oltre a tutto questo, l’eccesso di disparità sociali
si ripercuote in crescenti espressioni politiche di tipo nazionalista e neofascista, dagli Stati Uniti all’Europa.
A
proposito di Europa: oggi nel Vecchio continente, scrivono Franzini e
Pianta, «il 20 per cento delle persone ha un patrimonio pari a zero (o
debiti che superano i risparmi), mentre il secondo quintile possiede
una ricchezza media di 29.400 euro, il terzo di 111.900 euro, il quarto
di 235 mila euro: fino al quinto degli europei, che ha ricchezze per
780.700 euro, possedendo così il 68 per cento della ricchezza totale.
Il tutto in un quadro di capitalismo sempre più
oligarchico, cioè riservato a pochi, e sempre più
dinastico, cioè con un ascensore sociale quasi fermo.
Quest’ultimo
è un problema di cui in Italia si parla poco. Anche a sinistra, devo
dire. Ed è un po’ uno scandalo: tra l’altro, dopo la riforma Berlusconi
appena ritoccata da Monti, siamo e restiamo uno dei paesi al mondo con
le tasse di successione di basse. E, come si vede dalla tabella sotto,
siamo secondi tra i Paesi sviluppati nella pessima classifica di
trasmissione generazionale delle disuguaglianze (grafico tratto dal
libro di Franzini e Pianta).

Insomma
“la famiglia conta”, come nel titolo di uno dei capitoli del saggio in
questione. Conta per eredità, ma anche per istruzione (tasse
universitarie comprese) e rete di relazioni. E questa realtà, oltre a
essere un fattore chiave del capitalismo oligarchico, fa un po’ di
chiarezza sulle tante balle che si sentono in giro relative alle “uguali
opportunità” come forma che rende accettabili, se non giuste, le
disuguaglianze.
Le posizioni di rendita invece sono il primo tratto caratterizzante dell’economia contemporanea e del capitalismo oligarchico.
Accanto
al quale, s’intende, ci sono anche altri motori di diseguaglianza,
spiegano Franzini e Pianta: ad esempio, la maggiore rilevanza nella
produzione di redditi assunta dal capitale rispetto al lavoro,
soprattutto per via finanziaria e per trasformazioni tecnologiche (tema
su cui in questo blog ho rotto le scatole spesso); ma anche, terzo
punto, l’individualizzazione delle condizioni economiche, cioè la fine
delle classi organizzate, delle loro categorie, dei loro sindacati:
con la riduzione del lavoratore a monade solitaria e disperata che ogni giorno mette insieme pezzettini di reddito molecolare.
Il
quarto motore delle troppe disuguaglianze contemporanee individuato da
Franzini e Pianta è l’arretramento della politica: che interviene
sempre meno con politiche redistributive (e quanto ha contato, in
questo, la sbornia trentennale contro i “lacci e laccioli”!) e taglia
sempre di più i servizi universali o destinati ai ceti più poveri
(salute, istruzione, etc), sempre con l’altro mantra liberista del
“bisogna ridurre la spesa pubblica”.
Naturalmente poi, come
sempre, anche quella della disuguaglianza e dell’uguaglianza è
questione di misura, di punto in cui fissa l’asticella.
In
genere, chi parla di diseguaglianze viene accusato di essere utopista,
perché nessuna società realizza mai un’uguaglianza assoluta: il che è
evidente, ma diventa quasi sempre un alibi per non fare alcun passo
verso una riduzione della forbice sociale, anzi per andare nella
direzione opposta.
Che è quella delle diseguaglianze crescenti.
Delle società più arrabbiate, infelici, conflittuali, atomizzate,
instabili. Dei Paesi in cui per rabbia confusa dilagano quindi i
neofascismi, i nazionalismi, i razzismi, i Trump e Le Pen.
Del neoliberismo, insomma.
Da gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it
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sempre a proposito di "ricordare" .... nel giorno della Festa del Lavoro; e per sapere quale mostro abbiamo davanti!!!