Fonte:
Il Fatto Quotidiano di
Mauro Del Corno | 22 Maggio 2019
Siamo alla vigila di un
nuovo ordine finanziario globale di impronta cinese, con un maggiore e più selettivo
controllo sui movimenti di capitali? È la domanda finale a cui prova a rispondere il documentatissimo libro di David Lubin
Dance of the trillions. L’autore è responsabile della ricerca economica sui paesi emergenti di
Citi, e il saggio ripercorre la storia dei controversi effetti che la piena mobilità di capitali ha avuto sui
paesi in via di sviluppo nell’ultimo mezzo secolo. Si tratta di un contributo importante e prezioso, in un’epoca di diffusi ripensamenti sulla
globalizzazione e di “limbo” per quanto riguarda le politiche economiche. La stagione di adesione quasi incondizionata al
dogma neo liberista implementato nella pratica da
Margareth Thatcher e
Ronald Reagan sembra
al tramonto ma ancora stenta a prendere forma una nuova visione
sostitutiva. Molto probabilmente, argomenta Lubin, arriverà da Oriente.

Le
130 pagine del libro si aprono con il racconto di quella che fu la
prima grande ondata di afflusso di capitali nei mercati emergenti.
Negli anni ’70 i
paesi produttori di petrolio
iniziarono ad accumulare immense ricchezze nelle banche occidentali. La
corsa delle quotazioni del greggio aveva spinto a livelli stratosferici
gli
avanzi di bilancio dei paesi Opec. Nel 1974 l’
Arabia Saudita raggiunse un surplus pari al 51% del suo Pil.
Negli Stati Uniti però l’
inflazione
era alta e i tassi relativamente bassi, addirittura negativi in termini
reali. Il denaro proveniente dai produttori di petrolio venne quindi
investiti in larga parte in titoli di Stato dei paesi emergenti, dove i
rendimenti erano maggiori e la crescita economica sostenuta.
Brasile,
Argentina e altri sperimentarono così la pericolosa seduzione del “plata dulce”, il
denaro facile che affluivano nelle casse dei governi finanziando spese pubbliche allegre. Nel 1979 però tutto cambia. La
Federal Reserve, guidata da
Paul Volcker, avvia una politica di vigorosa lotta all’inflazione, i tassi Usa salgono, i rendimenti tornano positivi e i
soldi “tornano a casa”,
interrompendo il flusso verso i mercati emergenti provocando forti
sofferenze ai bilanci pubblici locali. Fu la prima testimonianza del
fortissimo influsso che la Federal Reserve aveva, e continua ad avere,
sui mercati emergenti. La “tirannia della Fed”, che sovraintende al
sistema dollaro, mostrerà i suoi effetti in numerose altre occasioni, a
cominciare dalla
crisi delle “tigri asiatiche” nella metà degli anni ’90 e nelle crisi di Brasile e Argentina agli inizi degli anni 2000.
Alla sbornia di capitali degli anni 70 segue così un decennio di crisi. In America Latina sarà ricordato come la
decade perduta con il
reddito pro capite che, tra il 1980 e il 1990,
crolla dal 40% al 28% di quello delle economia avanzate.
Tra il 1976 e il 1982, ricorda Lubin, nei 14 più grandi mercati
emergenti affluirono 83 miliardi di dollari, nei 7 anni successivi
fuoriuscirono 134 miliardi.
Ad essere colpiti sono anche paesi europei come Polonia prima e
Romania poi. Nel 1989 Nicolae Ceausescu dichiarava che il paese era
riuscito finalmente a ripagare il suo debito estero di 10 miliardi di
dollari, “grazie al lavoro del nostro popolo”, eufemismo per descrivere
feroci
privazioni inflitte alla popolazione, senza
riscaldamento e a corto di beni di prima necessità. L’ipotesi alternativa di una
ristrutturazione del debito era stata respinta dalle banche creditrici.
Grecia 2009, vent’anni prima.
L’
Unione Sovietica collassa, il
muro di Berlino
crolla, per il denaro non esistono più confini. Il genio della
globalizzazione è ormai uscito dalla lampada. Prima il flusso di
capitali era principalmente da governi a governi attraverso l’hub delle
banche. Ora a muoversi sono soprattutto soldi privati. Ancora di più,
ancora più affamati di rendimenti, ancora più veloci. Denaro bollente. E
si scotteranno in tanti: Messico, Thailandia, Russia, Turchia,
Brasile, Corea, Indonesia, Filippine, Indonesia per citare solo le
crisi più gravi. Colpiti direttamente e nei loro sistemi bancari. Dopo
la crisi del 1997
l’Indonesia spenderà una cifra pari al 57% del suo pil
per salvare le proprie banche. La Thailandia il 44% del Pil, la Corea
il 32%. Nel 2001 la Turchia staccherà un assegno per le sue banche pari
al 32% del suo Pil.
I paesi coinvolti iniziano a imparare la
lezione: le loro economie non sono adeguatamente equipaggiate per far
fronte alla volatilità dei flussi di capitali internazionali. Devono
imparare a proteggersi, a “wrapping up warmly”, coprirsi bene per stare
al caldo anche nel mezzo delle tempeste finanziarie. Il punto di
maggiore vulnerabilità sono bilanci pubblici traballanti e
riserve di valuta
insufficienti. In queste condizioni la combinazione tra tassi di cambio
fissi, o in qualche modo ancorati al dollaro, e la totale mobilità di
capitale si dimostra tossica. Studi dettagliati non rivelano nessuna
particolare relazione positiva tra integrazione nei mercati finanziari
internazionale e tassi di crescita dell’economia. Si corre ai ripari, le
riserve in valuta estera dei paesi in via di sviluppo, esclusa la
Cina, passano dai 325 miliardi di dollari del 1997 ai 2mila 500
miliardi del 2017, un valore pari al 350% del loro debito estero a
breve scadenza. Nel 2002 il rapporto debito/pil di questi paesi era in
media del 62%. Nel 2008 era sceso al 34%.
Si inizia comincia a
distinguere tra diversi investimenti esteri
e a filtrarli. Quelli “buoni” sono gli investimenti diretti esteri (per
esempio una multinazionale che costruisce una filiale), più stabili e
che portano con se tecnologie. Quelli cattivi sono gli investimenti di
natura più
speculativa, gli “hot money” che vanno e vengono in un batter di ciglio. Paesi come il
Cile alzano barriere per filtrare i capitali in entrata, altri come la
Malaysia per contenere quelli in uscita. Qui David Lubin ricorda anche l’equivoco che si è creato nel corso degli anni sul cosiddetto “
Washington Consensus”.
L’idea originaria era quella dell’eliminazione delle barriere per gli
investimenti diretti, ma non per tutti i tipi di flussi di capitale.
Sotto la pressione di banche e istituzioni finanziarie nel corso degli
anni si è invece sviluppata una versione impura di questa dottrina,
orientata ad una
liberalizzazione totale.
Arriviamo quindi ai giorni nostri e al ruolo crescente di Pechino. Tra il 2002 e il 2011 le
materie prime
iniziano uno dei periodi di crescita dei prezzi più lungo della storia.
Il 43% di questa produzione è assorbito dalla Cina, la cui crescita
tumultuosa trascina con se molti paesi emergenti produttori di
commodities rinsaldando i legami con gli Stati coinvolti. A titolo di
esempio l’export del Cile verso la Cina valeva l’1% del Pil nel 2001 e
l’8% nel 2011. La Cina ha sempre applicato la versione pura del
“Washington Consensus”: nessuna o poche barriere per gli investimenti
esteri, controlli rigidi sugli altri movimenti di capitale. Tra il 1993 e
il 2005 sono affluiti nel paese investimenti stranieri pari in media
al 3% del Pil cinese. Nel 2005 il 58% dell’export cinese era
riconducibile a imprese a proprietà straniera. Dal 1981 ad oggi non c’è
mai stato un solo anno in cui il debito in valuta estera del paese
abbia superato il valore delle riserve in valuta straniera. Una
garanzia di solidità. La Cina ha potuto permettersi di scegliere grazie
alla disponibilità di risparmi privati domestici, contando quindi
sulle proprie risorse per fornire carburante alla crescita economica.
Non tutti i paesi emergenti possono fare lo stesso.
È chiaro che il “
Beijing Consensus”
prevede una gerarchia tra diversi tipi di capitali. Alcuni possono
entrare, alcuni solo a determinate condizioni, altri no. L’altro
gigante emergente, l’India, sembra sostanzialmente condividere questa
impostazione. Man mano che i due paesi aumentano la loro influenza, il
sistema finanziario globale prenderà la forma che essi prediligono.
Esattamente come è stato per gli Usa nell’ultimo mezzo secolo.
Controllare i capitali è difficile ma non impossibile. Nuove regole
internazionali, una struttura simile al WTO ma destinata a
regolamentare e vigilare capitali e non merci, non sono più ipotesi
fantascenifiche. Il libro si chiude ricordando le parole di
Keynes, pronunciate alla Camera dei Lord nel 1944 sugli
accordi di Bretton Woods:
“Non semplicemente per una fase di transizione, ma in modo permanente,
gli accordi attribuiscono ad ogni paese membro il diritto esplicito di
controllare qualsiasi movimento di capitali. Quello che prima era
eresia, ora è ortodossia”. Quello che era un’eresia nel sistema
finanziario disegnato dagli Stati Uniti, conclude Lubin, si appresta a
diventare l’ortodossia del nuovo ordine finanziario cinese.
@maurodelcorno