di Loretta Napoleoni | 12 giugno 2016 dal Fatto Quotidiano
Chi ha paura della Brexit? Viene spontaneo rispondere: gli stessi che hanno paura di Virginia Woolf
– la celeberrima rappresentazione teatrale riguardo alla fine del
matrimonio di una coppia di mezza età – e cioè chi, semplicemente,
temendo il cambiamento per motivi di conformità, sarebbe disposto a
rimanere dentro un matrimonio che non funziona. Certamente non gli
inglesi che, nonostante i decenni di europeismo, mantengono la loro storica flemma anche di fronte ai crolli in borsa legati alle aspettative del divorzio da Bruxelles.
La notizia bomba, lanciata dall’Independent alla fine di questa settimana, secondo cui il fronte della Brexit è a 10 punti di vantaggio rispetto a quello europeista, ha fatto affondare le borse europee.
E fin qui non c’è nulla da dire, tutti sanno che l’uscita della
seconda economia dell’Unione Europea – poiché ormai il Regno Unito de facto ha superato la Francia di Hollande – avrà ripercussioni disastrose sugli equilibri finanziari dell’Ue. Ma un’attenta analisi degli indici di borsa ci dice che la piazza affari che è scesa meno delle altre è proprio quella di Londra. Ed
ecco i dati: Londra, – 1,7 per cento; Madrid – 2,6 per cento,
Francoforte – 2,3 per cento; Parigi – 2 per cento; e come al solito il
crollo massimo si è registrato a Milano – 3,6 per cento.
I blog finanziari londinesi, quelli riservati ai pochi eletti, come
pure le riunioni a porte chiuse dei big della finanza britannica, anche
loro sempre a porte chiuse, sono da mesi concentrati sugli effetti della Brexit, e tutti concordano che la catastrofe finanziaria, seguita a ruota da quella economica, sarà maggiore nel “continente” che nelle isole britanniche. E questo spiega il coro internazionale di voci “che contano” che si è levato a favore della permanenza
nell’Unione. Mai nella storia contemporanea ci eravamo trovati di
fronte ad una gamma così vasta di opinioni identiche: il Regno Unito
deve rimanere nell’Unione a tutti i costi, anche contro la volontà dei propri cittadini, per il bene del mondo intero, dell’economia mondiale ecc. ecc.
Certo, nella City, pochi auspicano l’avvento
di uno scenario apocalittico à la Brexit; i mercati e chi li governa
vogliono la stabilità, ma pochi ormai considerano quella attuale una
situazione stabile, un sentimento, questo, che è condiviso dalla maggior
parte della popolazione britannica. L’opinione dominante è infatti che nei prossimi anni l’Unione si spaccherà, imploderà, perché è ormai un’istituzione anacronistica. Quindi, istintivamente il popolo inglese vuole uscirne. Non è poi detto che la Brexit si riveli una catastrofe. Potrebbe invece mettere in moto un meccanismo di revisione dell’Ue, benefico
nel lungo periodo, e salvare l’Europa ed il mondo dall’implosione
‘naturale’ di questa istituzione nei prossimi anni. Ma agli inglesi
tutto ciò importa poco, il popolo di sua maestà è solo concentrato sul
futuro del proprio paese.
E’ possibile, anzi è probabile, che il 23 giugno la maggioranza degli
inglesi voterà con il cuore, ascoltando il proprio istinto, invece che
usando la testa. Matteo Renzi, che parla l’inglese come Alberto Sordi nel celeberrimo film Un Americano a Roma, pensa il contrario: “Alla fine prevarrà il buon senso”. Una frase che conferma la sua scarsa conoscenza del popolo britannico. Il buon senso britannico, infatti, non ha nulla a che vedere con quello europeo ed in particolare con quello italiano. Lo spirito indipendentista,
isolazionista e nazionalista britannico non ha nulla di razionale, e
certamente non può essere definito un esempio di buon senso, al
contrario il concetto di “non mi piego finché non mi spezzo”, sul quale Churchill costruì tutta la sua retorica bellica, rasenta l’assurdo.
L’interazione
con l’Unione Europea non ha tanto fiaccato questo spirito, anche se
nei giovani è meno forte. Ed infatti le proiezioni mostrano che man
mano che sale l’età, aumenta l’appoggio alla Brexit. Il divario generazionale ha ben poco a che vedere con la campagna elettorale a favore o contro la Brexit, anche perché è condotta male, con grande dispiego di bugie propagandistiche
e dati inventati. Alla radice delle due visioni c’è un’opinione
costruita negli ultimi decenni, non in base alle parole dei politici o
alle previsioni di mercato, ma dei fatti. E questi ultimi non sono a
favore di un’Unione forte e duratura. Sulla base di queste caratteristiche sui generis della popolazione britannica, pochi vorranno restare in Europa, perché temono la catastrofe.
Ciò che gli europei non comprendono è che questo tipo di slogan ha l’effetto opposto.
Se infatti fosse vero che l’uscita danneggerebbe l’Ue ed il Regno
Unito, allora per molti inglesi l’Unione è stata un errore, perché le
condizioni secondo le quali la nazione vi è entrata erano ben diverse, e
cioè movimento libero di merci e persone e nulla più, e vorrebbe dire che non sono state rispettate. Il consiglio, di chi vive da più di quaranta anni nel Regno Unito, ai vari politici e burocrati internazionali è il seguente: non vi preoccupate del Regno Unito, il popolo di sua maestà sa badare a se stesso, piuttosto preoccupatevi dei vostri cittadini e della catastrofe che si potrebbe abbattere sulle vostre finanze. Fossi in Renzi, invece di fare comizi anti Brexit, lavorerei alacremente al piano B di salvataggio delle banche italiane, non dimentichiamoci che la Banca d’Inghilterra è uno degli azionisti di maggioranza della Bce.
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