13/10/2017 di triskel182

IL
MINISTRO della Giustizia Andrea Orlando ha sollecitato il governo
tedesco ad eseguire la sentenza nei confronti dei vertici Thyssen
responsabili del rogo di Torino del 6 dicembre 2007, della morte di
sette dipendenti tra atroci sofferenze e della loro agonia durata
settimane. Il fatto che anche Harald Espenhahn e Gerald Priegnitz
scontino la pena in carcere, come stanno facendo i loro colleghi
italiani condannati in via definitiva diciassette mesi fa, è un
principio di civiltà. Un atto di giustizia non solo nei confronti dei
familiari delle vittime ma anche, e forse soprattutto, nei riguardi
degli italiani e dell’idea stessa che esista un’Europa unica, uniforme
nei diritti e nei doveri.
Senza
colpevoli di serie A, che rimangono a casa anche dopo una condanna a
nove anni di reclusione, come sta accadendo ad Espenhahn, e colpevoli
di serie B che dal giorno successivo alla condanna definitiva
trascorrono le notti nelle carceri della Penisola.
Per
il momento il passo del ministro italiano è una semplice
raccomandazione. Non ci sono ragioni, si faceva osservare ieri negli
ambienti di via Arenula, per ritenere che il governo di Berlino non
intenda eseguire la sentenza nei confronti dei cittadini tedeschi. Ma
quello di Andrea Orlando è, al tempo stesso, un avvertimento. L’Italia
non può accettare che di fronte a una tragedia dal forte impatto
sull’opinione pubblica, come fu il rogo di Torino, possa prevalere e
vincere l’ambiguità. Ancora ieri, a dieci anni dal dramma, la madre di
una delle vittime, Giuseppe Demasi, quasi implorava che «tutti i
condannati paghino per quel che è accaduto. Ce lo chiedono i nostri
figli morti, la giustizia è per loro».
Demasi
fu l’ultimo ad andarsene. Aveva 26 anni. Furono due mesi di calvario,
uno stillicidio di drammi familiari con i funerali che percorrevano le
vie del centro cittadino a cadenza settimanale. Chi ha vissuto quei
giorni e chi ha partecipato anche da lontano a quel dramma collettivo
non può accettare oggi che i principali colpevoli escogitino furbizie
levantine, sperino nella lentezza della burocrazia, tentino di farla
franca aggrappandosi alle lungaggini di una traduzione dall’italiano al
tedesco. Gli stereotipi sono sempre da rifuggire ma è un fatto che nel
caso della Thyssen la giustizia di Roma è stata più rapida e
inflessibile di quella di Berlino. Per ridare forza all’idea di Europa,
oggi non certo in salute, serve che queste ambiguità vengano spazzate
via in fretta.
Articolo intero su La Repubblica del 13/10/2017.
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