da il Fatto Quotidiano di domenica 9 febbraio 2014
di Marco Travaglio | 9 febbraio 2014
L’intervista si riferisce alle rivelazioni diffuse il 20 giugno 2013 dal sito di Panorama: intercettando Nicola Mancino, i pm di Palermo sono incappati non solo in 9 sue conversazioni col consigliere Loris D’Ambrosio,
ma anche in alcune con Napolitano in persona. Notizia rilanciata il 21
giugno dal Fatto e da altre testate. Il 22 giugno Repubblica
intervista Di Matteo, il quale spiega che, negli atti appena depositati
ai 12 indagati per la trattativa Stato-mafia, “non c’è traccia di
conversazioni del capo dello Stato e questo significa che non sono
minimamente rilevanti”. L’intervistatrice domanda se le intercettazioni
non depositate saranno distrutte, Di Matteo risponde – riferendosi a tutto il materiale non depositato e non solo alle telefonate Mancino-Napolitano:
“Noi applicheremo la legge in vigore. Quelle che dovranno essere
distrutte con l’instaurazione di un procedimento davanti al gip saranno
distrutte, quelle che riguardano altri fatti da sviluppare saranno
utilizzate in altri procedimenti”.
È ovvio che, fra quelle da distruggere, ci siano anche le intercettazioni indirette del Presidente,
visto che sono “irrilevanti” (almeno sul piano penale),mentre quelle
ancora da approfondire riguardano altri soggetti. Ma, anzichè
ringraziare Di Matteo per aver dissipato ogni possibile sospetto su sue
condotte illecite, Napolitano scatena la guerra termonucleare alla Procura di Palermo, esternando a tutto spiano e mobilitando prima l’Avvocatura dello Stato, poi il Pg della Cassazione e infine la Corte costituzionale.
L’Avvocato dello Stato, Ignazio Caramazza, viene attivato subito dopo
l’intervista dal segretario generale Marra, perché chieda a Messineo
“una conferma o una smentita di quanto risulta dall’intervista,
acciocché la Presidenza della Repubblica possa valutare la adozione
delle iniziative del caso”. Il 27 giugno Caramazza scrive a Messineo per
sapere come si sia permesso Di Matteo di svelare a Repubblica che sono
“state intercettate conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, allo stato considerate irrilevanti, ma che la Procura si riserverebbe di utilizzare”.
Il
procuratore risponde con due lettere: una firmata da Di Matteo,
l’altra da lui. Entrambe chiariscono ciò che è già chiarissimo
dall’intervista: “La Procura, avendo già valutato come irrilevante ai
fini del procedimento qualsivoglia eventuale comunicazione telefonica
diretta al Capo dello Stato, non ne prevede alcuna utilizzazione investigativa o processuale,
ma esclusivamente la distruzione da effettuare con l’osservanza delle
formalità di legge”: cioè con richiesta al gip, previa udienza camerale
con l’ascolto dei nastri – previsto espressamente dal Codice di
procedura penale – da parte degli avvocati. Tutto chiaro? Sì, in
condizioni normali. Ma qui c’è il Quirinale che preme, minacciando“le
iniziative del caso”. Allora una normale intervista che spiega come la
Procura abbia rispettato e intenda rispettare la legge diventa un caso di Stato. Il 16 luglio Napolitano solleva il conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato contro la Procura di Palermo, accusandola di aver attentato alle sue “prerogative”.
A fine luglio Ciani apre su Messineo e Di Matteo un “procedimento paradisciplinare”,
cioè un’istruttoria preliminare. È lo stesso Ciani che tre mesi prima,
su richiesta scritta di Mancino e Napolitano (tramite il solito
Marra), ha convocato il Pna Piero Grasso per parlare di come “avocare”
da Palermo l’inchiesta sulla Trattativa o almeno di “coordinarla” con
quelle sulle stragi a Firenze e Caltanissetta: ricevendo da Grasso un
sonoro rifiuto. Il primo agosto un sostituto di Ciani scrive al Pg di
Palermo per sapere se Messineo avesse autorizzato Di Matteo a rilasciare
l’intervista e perchè non l’avesse denunciato al Csm per averla
rilasciata. Il Fatto lancia una petizione e raccoglie 150 mila firme in un mese: lo vede anche un bambino che il processo disciplinare è fondato sul nulla.
Il 10 agosto il Pg di Palermo risponde a Ciani: l’intervista di Di Matteo non richiedeva alcuna autorizzazione e non violava alcuna norma deontologica
perché non svelava alcun segreto, visto che la notizia delle telefonate
Napolitano-Mancino l’avevano già diffusa Panorama e poi decine di
testate. Tutto chiaro? Sì, in condizioni normali. Ma qui c’è il
Quirinale che preme. Il Pg Ciani ci dorme su sette mesi. Poi il 19 marzo
2013 promuove l’azione disciplinare contro Messineo e Di Matteo. Il
secondo è accusato di aver “mancato ai doveri di diligenza e riserbo” e
“leso indebitamente il diritto di riservatezza del Presidente della
Repubblica”; il primo, di non averlo denunciato al Csm. Messineo e Di
Matteo vengono interrogati il 18 giugno e il 7 luglio, ripetendo quel
che avevano sempre scritto e detto. La Procura generale ci dorme sopra
altri cinque mesi e mezzo. Poi finalmente, alla vigilia di Natale,
deposita le richieste di proscioglimento, scoprendo l’acqua calda: la
notizia delle telefonate Mancino-Napolitano non la svelò Di Matteo, ma
Panorama, in un articolo “presente nella rassegna stampa del Csm del
21.6.2012”. Quindi “con apprezzabile probabilità occorre assumere che la
notizia… fosse oggetto di diffusione da parte dei mass media in tempo
antecedente” a quello dell’intervista incriminata” del giorno 22. Ma
va? Ergo “è del tutto verosimile” che Di Matteo tenne “un atteggiamento di sostanziale cautela”
e “non pare potersi dire consapevole autore di condotte
intenzionalmente funzionali a ledere diritti dell’Istituzione Presidenza
della Repubblica”, semmai “intenzionato a rappresentare la correttezza
procedurale dell’indagine”.
Quindi “la condotta del dr. Di
Matteo non si è verosimilmente consumata nei termini illustrati nel
capo d’incolpazione, tanto che nessun rimprovero disciplinare si ritiene di poter articolare nei suoi confronti”, né in quelli di Messineo. Così scrivono Galanella e Ciani
il 16 e 19 dicembre 2013 nella richiesta di proscioglimento che ora
dovrà essere esaminata dal Csm. Ma così avrebbero potuto scrivere –
risparmiando a Di Matteo e Messineo un anno e mezzo di calvario – già
nel giugno 2012, quando tutti sapevano già tutto. Compreso il Quirinale,
che sciaguratamente innescò questo processo kafkiano al nemico
pubblico numero uno del Capo dei Capi. E di tanti altri capi.
p.s.
probabilmente
finisce tutto in una bolla di sapone.. nel fratempo una servitore della
legalità e dello Stato, quello ideale, è rimasto scoperto ed è entrato
nel mirino delle mafie e.... dei loro sodali. Che paese che siamo:
avvengono cose del genere e nessuno fa finta, almeno, di accorgersene
..... salvo, poi, fare le lacrime di coccodrillo quando scopriamo
l'ennesimo politico, funzionario o altro che si è fatto corrompere: il
sentimento generale è quello quasi giustificatorio nel secondo caso di
vile disattenzione nel caso del Magistrato Di Matteo.
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