da punto informatico, serissimo giornale del mondo web, vi propongo questo articolo, pubblicato oggi, a firma di Paolo De Andreis
che accende un riflettore sul "democratico" mondo dell'informazione
italico.. sempre più vicino alla cina (ira, korea del nord, ecc. fate
voi) che ai paesi civili.
Buona lettura
Roma - In Cina,
chiunque voglia pubblicare un sito web deve essere registrato presso
l'ufficio governativo competente. In Italia, da oggi, chiunque voglia
pubblicare informazioni su un sito deve ottemperare a certe
disposizioni e se lo fa periodicamente deve ottenere persino una serie
di registrazioni ufficiali. E, proprio come in Cina, chi pubblica senza
registrarsi incorre nel reato di stampa clandestina, che in Italia è
punito con una sanzione variabile tra il mezzo milione di multa e i due
anni di carcere (oggi depenalizzato).
Questo accade da oggi grazie alla nuova legge sull'editoria,
varata il 21 febbraio da quello stesso Parlamento che era sul punto di
approvare il DDL sui domini, in un testo ispirato al decreto Passigli e
bocciato da tutti gli operatori del settore.
Anche in questo caso
le critiche, gli avvertimenti e gli altolà non sono serviti a granché:
il Parlamento in extremis prima dello scioglimento delle Camere ha dato
il via libera ad una legge che non ha riscontro in Europa e che oggi
entra formalmente in vigore (vedi anche quanto pubblicato da Interlex).La
nuova legge (62/2001) ridefinisce il concetto di sito Internet che fa
informazione, quindi praticamente ogni sito Internet, che viene ora
considerato "prodotto editoriale" e, come tale, rientrante nelle
disposizioni storicamente censorie della legge sulla stampa. Ogni "sito
informativo" italiano rientra da oggi nella classificazione di
"prodotto realizzato su supporto cartaceo, ivi compreso il libro, o su
supporto informatico, destinato alla pubblicazione o, comunque, alla
diffusione di informazioni presso il pubblico con ogni mezzo, anche
elettronico".
La nuova legge riguarda dunque non solo i siti che
pubblicano informazioni con cadenza periodica, che sono sottoposti ad
un regime più oppressivo, ma anche tutti i siti che pubblicano
informazioni e che, se non sono periodici, "se la possono cavare"
inserendo sulle proprie pagine il nome e il domicilio dell'editore e
l'indirizzo della locazione fisica del server.
I veri dolori sono riservati a quei siti che pubblicano contenuti periodicamente.
"Chiunque
intraprenda la pubblicazione di un giornale o altro periodico -
avverte infatti la legge sulla stampa - senza che sia stata eseguita la
registrazione prescritta dall'art. 5, è punito con la reclusione fino a
due anni o con la multa fino a lire 500.000. La stessa pena si applica
a chiunque pubblica uno stampato non periodico, dal quale non risulti
il nome dell'editore né quello dello stampatore o nel quale questi
siano indicati in modo non conforme al vero".
A scanso di equivoci,
la registrazione di cui parla la legge consiste
nell'assunzione/individuazione di un direttore responsabile che abbia i
requisiti per essere iscritto all'Ordine dei Giornalisti o agli elenchi
speciali per le testate specializzate e che "controfirmi" la
registrazione del sito presso il tribunale della città ove risiede
"l'editore".
Al di là delle pulsioni censorie da cui la legge nasce,
analizzate nelle pagine successive di questo Speciale, la nuova
normativa sferra un colpo al cuore di tutti i siti italiani, anche di
quelli nati dalla passione di chi li alimenta con un lavoro spesso mal o
non remunerato, a quelli che nascono dalla fornitura gratuita di
contenuti da parte dei lettori-contributori e a tutti quelli che, per
una ragione o l'altra, non possano designare un direttore responsabile.
Non
solo, i siti che fanno dell'informazione periodica un "contorno" alle
attività principali, come molti portali, sono costretti a trasformarsi
de facto in "testate registrate", anche se le informazioni pubblicate
sono in realtà prodotte, come spesso accade, da terze parti.Per tutti
coloro che non hanno già provveduto alla registrazione del "periodico",
da oggi scatta il reato di stampa clandestina. Starà alla magistratura
rendere efficace la legge provvedendo al sequestro dei siti e alla
comminazione delle sanzioni.
L'italiano che pensasse, vista la mala
parata, di spostare i suoi contenuti su un sito all'estero non avrebbe
sorte migliore. Il "prodotto editoriale", infatti, sarebbe comunque
considerato "italiano" se i contenuti vengono spediti sul server di
pubblicazione dall'Italia o se vengono "trasmessi" in Italia. La legge
dunque tende a penalizzare i siti italiani che devono vedersela con
concorrenti internazionali, siti che in Europa o negli Stati Uniti
prosperano senza queste limitazioni alla libertà di stampa.
Non
contento, il Parlamento ha anche imposto con questa legge una nuova
responsabilità ai provider, fornitori di hosting per i server che
ospitano i siti italiani.
Questi, infatti, sono da considerarsi
inclusi nella disposizione secondo cui "chiunque in qualsiasi modo
divulga stampe o stampati pubblicati senza l'osservanza delle
prescrizioni di legge sulla pubblicazione e diffusione della stampa
periodica e non periodica, è punito con la sanzione amministrativa da
lire duecentomila a un milione e duecentomila".
Ma perché il
Parlamento ha approvato tutto questo? In teoria, e il resto della nuova
legge lo conferma, per estendere alle imprese editoriali online (e non
si parla tanto di piccoli siti e associazioni quanto invece delle
grandi aziende che oggi online incontrano notevoli difficoltà
economiche) i contributi già previsti per le pubblicazioni stampate.Con
nuove forme e nuovi fondi, infatti, la legge prevede che una serie di
giornali online possano essere oggetto di contribuzioni pubbliche che
consentano loro di tenere in piedi attività che da sé in piedi non
starebbero, proprio come avviene da decenni nel mondo della carta
stampata. Il tutto sulle spalle del contribuente.
Da segnalare, per completezza, che questa legge non è stata approvata in Aula dal Senato ma direttamente
dalla Commissione Affari Costituzionali in sede deliberante. In quella
occasione, il 21 febbraio scorso, è stato registrato l'accordo
sostanziale di tutti i gruppi parlamentari. Con lo stesso appoggio
praticamente unanime, d'altro canto, doveva passare anche il DDL sui
domini, bloccato solo dallo scioglimento delle Camere.
In Italia
esiste una stampa clandestina, che viene così definita non perché
istigatrice alla violenza, all'omicidio o al ribaltamento delle
istituzioni repubblicane. No, la stampa clandestina oggi in Italia è
quella che non paga annualmente le gabelle di Stato all'Ordine dei
giornalisti, quella che non si iscrive all'Albo o non risulta dalle
liste dell'Autorità delle telecomunicazioni. Quella, insomma, che vive
di quanto sancito dall'art.21 della Costituzione della Repubblica che
recita con la massima chiarezza: "La stampa non può essere soggetta ad
autorizzazioni o censure".
Principi che sono stati disattesi in
questi decenni per compiacere la corporazione giornalistica, e
consentirle di rimanere tale, e per agevolare la commistione tra i
grandi interessi economici e la stampa. L'imposizione di un esame
per ottenere la qualifica di "giornalisti professionisti" è strumento
che da solo può garantire che i diritti speciali corporativi non cadano
in mani "sbagliate" e che nelle fila dell'Ordine entrino solo persone
che corrispondono a determinati parametri.
Le progressive pugnalate
alla libertà di stampa inflitte dalle leggi italiane sembrano uscite
dall'orwelliana "Fattoria degli Animali". Una fattoria dove i maiali al
potere riescono ad imporre agli altri animali il tradimento dei
principi su cui è sorta la loro comunità. Quando cioè al principio
"siamo tutti uguali" si aggiunge impunemente "ma alcuni sono più uguali
degli altri". Allo stesso modo i giornalisti che scelgono di aderire
all'Ordine sono - spesso loro malgrado - come i maiali orwelliani,
protetti da leggi speciali che li differenziano dalle oche e dagli altri
esseri minori che popolano la fattoria. Leggi che li rendono
inevitabilmente complici del soffocamento della libertà di stampa e di
espressione nei confronti del "cittadino semplice".
La nuova legge
sull'editoria sposta ulteriormente l'equilibrio fasullo su cui si è
finora retta la corporazione, portando il baricentro sulla Censura. Non
esiste un altro termine per descrivere una norma che impone a chiunque
si esprima liberamente sul Web di farsi riconoscere, più di quanto già
non faccia la presenza di un dominio Internet, con la sua
registrazione, o di un sito gratuito, con l'hosting da parte di un
provider.
Come non definire censura una legge che impone ai provider
di essere cani da guardia sulle attività dei siti ospitati, perché
rischiano di essere ritenuti corresponsabili di pubblicazioni
clandestine? Una misura che da sola basta a porre l'Italia al di fuori
del contesto internazionale, dove i provider, sostanzialmente, non
rispondono dei contenuti che girano sul proprio network e di cui non
hanno cognizione.
E così come è censura imporre ad un sito di
esporre certe informazioni, facilmente recuperabili altrove e con pochi
clic, o con qualche telefonata, è censura ancor più grave imporre ad
un sito di registrarsi come periodico telematico. Una registrazione che
contempla, sarà un caso?, una gabella da versare all'Ordine dei
giornalisti da parte dell'editore o del direttore responsabile, o
perché giornalista professionista, o perché pubblicista o perché
iscritto in un "elenco speciale".
E per non farci dimenticare da che
parte sta, e per chiarire a tutti cosa c'è in ballo, è arrivata ieri
pomeriggio anche una ennesima delirante dichiarazione del segretario
della Federazione nazionale della Stampa, il sindacato dei giornalisti
della corporazione. Paolo Serventi Longhi, riferendosi alla nuova legge
sull'editoria, ha esultato: "Finisce così, almeno in Italia, l'assurda
anarchia che consente a chiunque di fare informazione on line senza
regole e senza controlli e garantisce al cittadino-utente di avere
minimi standard di qualità di tutti i prodotti informativi, per la
prima volta anche quelli comunque diffusi su supporto informatico".
Non
una parola, naturalmente, sul fatto che proprio questo sistema di
censura, questa mostruosità giuridica oggi vomitata sulla Rete, abbia
fin qui prodotto un giornalismo sciatto, ignorante e arrogante ben
oltre il limite della volgarità.
Che tutto questo rappresenti una
censura è dunque evidente. Che lo sia non solo per principio ma anche
all'atto pratico ci vuole poco a dimostrarlo.
Provatevi, se non
l'avete ancora fatto, a pubblicare un vostro notiziario su carta e da
oggi anche online senza registrazioni ufficiali. Se la magistratura
farà il suo dovere, sarete inquisiti e condannati, il vostro giornale
sarà sequestrato, proprio come accade oggi in Cina e Malaysia.
Succede,
è successo. E ora potrà succedere anche online grazie ad un Parlamento
italiano che in Europa si è dimostrato in questi anni il più
colpevolmente ignorante di cose della Rete.
E tutto accadrà, ancora
una volta, alla faccia della Costituzione repubblicana e del principio
ivi sancito: "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio
pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione".
Viva l'Italia!
p.s.
...
che ne dite? Siamo davvero in pericolo, qui; e che dire dell'AGcom che
surettiziamente si è infilata nel vuoto di potere per decidere in via
amministrativa della vita e della morte del web? Per fare un esempio: ha
fatto levare, pensa sanzioni salatissime, l'annuncio della candidatura
di un prof universitario sardo dal sito della sua università, peggio di
così. Può anche essere che questo blog, chiuda... per la gioia dei
grandi e dei piccini.
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