Secondo le teorie complottiste, e non solo, il vero ponte di comando è il gruppo bilderberg e.. pesonalmente sono d'accordo ma a Davos allora cosa si tiene? La vetrina o la passerella dove alcuni amiconi decidono quale sarà il futuro della terra? Può darsi: la cosa più probabile è che forse le due realtà sono intrecciate: da un lato c'è il potere vero, quello dei soldi, dall'altro quello ufficiale che esegue: laddove i due poteri non coincidono. Definiti i parametri ora passiamo a vedere alcuni aspetti peculiari di questo felice consesso:
- ci si va su invito e si fa vetrina perchè si conta qualcosa; il nostro paese, ex quinta potenza mondiale (emerita posizione del bel tempo che fu), ora veleggia felicemente al 49° posto e la mia impressione che ci siamo più per glorie pasate che per meriti attuali;
- il trend lo fanno quei paesi cha fanno da guida e fotografano l'economia mondiale con la propria vitalità... noi non siamo fra questi ma c'è sicuramente la cina e gli BRICS;
- c'è un report di apertura sui quali si aprono incontri, focus group e discussioni
- le tematiche affrontate sono varie (vanno dal clima all'economia .... tutto quanto fa profitto) e per ognuna si tiene un report con economisti, politici, tecnici, ecc. dopo si tirano le conclusioni... qualcuno fallisce quanlcun'altro si arricchisce ma è il mercato bellezza;
- fanno beneficenza; è capitalismo compassionevole.... fanno la cartà e si lavano la coscienza.
Articolo del dott. Gugliemo Mazzarelli (Esperto di Politiche ambientali e cultore della materia “Politica economica europea” presso la LUISS Guido Carli)
E’ possibile un’economia diversa da quella cosiddetta “lineare”, che costituisce ancora il paradigma consolidato per la produzione e il consumo di beni e servizi nell’epoca della globalizzazione?
L’economia lineare si basa sul presupposto per il quale i beni dei quali usufruiamo debbano seguire un ciclo di vita che si apre con l’estrazione delle materie prime, prosegue con la loro trasformazione in semilavorati e prodotti finiti che vengono utilizzati dai consumatori (intermedi e finali), per concludersi con lo smaltimento e l’eliminazione degli “scarti” e dei prodotti stessi (ormai diventati “rifiuti”) dal processo economico.
Le motivazioni per tentare di superare il paradigma lineare sono molteplici, in un sistema che, proprio perché ispirato alla linearità di produzione, consumo e smaltimento, per essere sostenibile dovrebbe disporre di risorse illimitate. Come sappiamo bene, le risorse sono, invece, scarse per definizione, mentre le attività antropiche, soprattutto quelle connesse con la produzione, provocano o stanno accelerando processi talvolta irreversibili di inquinamento, perdita di biodiversità e di interi ecosistemi.
Secondo le proiezioni disponibili, la domanda globale di risorse aumenterà notevolmente nei prossimi 15-20 anni, quando sul Pianeta saranno presenti circa 8 miliardi di individui e 1,8 miliardi di consumatori in più rispetto ad oggi. Mentre la domanda umana sta crescendo a ritmo sostenuto e, a quanto sembra, inarrestabile, la bio-capacità (ossia, la capacità della Natura di rinnovare le proprie risorse) non riesce a tenere lo stesso passo: secondo un recente rapporto di Green Peace, per far fronte alla domanda umana e rinnovare le risorse consumate in un anno, al nostro Pianeta occorrono attualmente diciotto mesi (un anno e mezzo). Questo ci dice che non stiamo parlando di un problema di là da venire, perché già oggi viviamo oltre le capacità “biologiche”: un solo pianeta non riesce più a sostenere la domanda umana sulla Natura. Pensiamo, allora, a cosa succederà nel 2030 e, ancor più, nel 2050 (tra meno di quarant’anni), quando a vivere sulla Terra saranno oltre 9,3 miliardi di persone, in gran parte concentrate nelle megalopoli e nelle città medie e grandi: considerando l’attuale bio-capacità, se tutte quelle persone avranno lo stesso tenore di vita che ha oggi un cittadino medio degli Stati Uniti, non basterà l’equivalente di quel che potrebbero offrire sei pianeti come il nostro per soddisfare la loro domanda.
Pur non volendo spingerci troppo in là nel tempo, se fissiamo il 2030 quale anno di riferimento, l’insostenibilità del paradigma lineare emerge guardando alle stime elaborate dai migliori istituti di ricerca: nei prossimi diciassette anni, la domanda di energia aumenterà del 50%, nella stessa misura della domanda di cibo, mentre occorrerà il 30-40% in più di acqua per sostenere i nuovi livelli di produzione e consumo. Credo sia abbastanza per indurci a riconsiderare l’attuale modello di sviluppo e, con esso, l’insieme delle teorie economiche, formulate negli anni ’60 e seguite fino ai giorni nostri, quasi tutte ispirate dal presupposto dell’illimitatezza delle risorse o, almeno, della loro illimitata rigenerazione o riproducibilità.
Proviamo, allora, a riformulare il quesito di partenza: è possibile un’alternativa all’economia lineare, che possa conciliare le esigenze di una popolazione mondiale in crescita con la necessaria conservazione o rinnovabilità delle risorse? La risposta della cosiddetta “economia circolare” è che non soltanto ciò è possibile e necessario, ma che il nuovo paradigma economico è anche comparativamente più vantaggioso per le imprese e per i consumatori, oltre che per l’ambiente.
Perché? Tra i dati che si possono prendere in considerazione, si può utilmente partire dal seguente: la nostra economia globale – come ci ricorda un autorevole studio di Hunter Lovins, fondatore di “Natural Capitalism Solutions” – è così inefficiente che meno dell’ 1% di tutte le risorse estratte sono realmente impiegate nella realizzazione dei prodotti e continuano ad essere incorporate in essi sei mesi dopo la vendita”. Non vi fossero motivi sufficienti, la riduzione di questo elevatissimo grado di inefficienza potrebbe di per sé bastare a convincere le imprese del fatto che ben presto si troveranno costrette a fare i conti con un aumento non correttamente previsto dei costi, provocato dallo spreco di risorse e materiali.
Il passaggio ad un’economia circolare, per la quale ogni cosa è pensata ed ingegnerizzata per essere ripetutamente riciclata e riutilizzata (“from cradle to cradle”, ossia dalla nascita di un prodotto alla nascita di altri prodotti, tramite l’utilizzo e il riutilizzo dei materiali) consentirebbe all’Europa di risparmiare 630 miliardi di euro all’anno (vale a dire il 3,5% del PIL europeo), secondo il recente rapporto intitolato “Towards the circular economy”, pubblicato dalla fondazione Ellen Mac Arthur. Una valanga di soldi, dunque, che potrebbero trovare impieghi utilissimi soprattutto in quest’epoca di crisi profonda e apparentemente insuperabile.
Del resto, non si tratta soltanto di formulazioni teoriche, visto che non mancano né l’interesse da parte delle aziende, grandi e medie, ma anche piccole, a “circolarizzare” le proprie produzioni, né le applicazioni pratiche. Cento grandi imprese (tra le quali la Coca-Cola e l’IKEA) sono già riunite in una sorta di Club, facente capo alla Fondazione MacArthur, e si dicono pronte a gettarsi alle spalle la vecchia economia lineare. Sono spinte a farlo non solo e non tanto dall’amore che nutrono verso il pianeta Terra, ma perché hanno capito quali vantaggi l’economia circolare può offrire in termini di innovazione, miglioramento del prodotto e riduzione dei costi. L’hanno appreso nel corso degli ultimi vent’anni, guardando agli esempi della Ford e di decine di altre aziende che, grazie alle brillanti idee e all’assistenza di esperti quali Michael Braungart (autore del libro “Cradle to Cradle”, ossia “Dalla culla alla culla”), hanno progettato e realizzato aziende, prodotti e processi interamente eco-compatibili, spesso ispirati dalla Biomimetica (una disciplina così interessante e promettente da meritare un approfondimento a parte in un prossimo post o in un articolo). Nel caso della Ford, la sola realizzazione dei “tetti verdi”, una delle misure implementate seguendo i consigli e i progetti di Michael Braungart e dell’architetto William McDonough, nel principale stabilimento di produzione negli Stati Uniti ha consentito risparmi annuali pari a decine di milioni di dollari (consiglio, al riguardo, il lungo reportage “Waste = Food”, che contiene anche un’intervista all’amministratore delegato della Ford. Il documentario è visualizzabile al seguente link: http://vimeo.com/3237777).
Gli esempi sono tanti e i vantaggi economici e produttivi sembrano essere sempre ragguardevoli. Così, le aziende che producono magliette o scarpe possono scegliere di realizzare prodotti con materiali completamente naturali e interamente compostabili. Ecco, allora, che nell’economia circolare, i nostri vestiti si trasformano in fertilizzante e, quindi, in cibo (waste = food), in un ciclo che, copiando dalla stessa Natura, è potenzialmente orientato a non esaurirsi mai.
Ma siamo pronti per sterzare verso questo tipo di economia, per la quale la “sostenibilità”, intesa quale aspirazione a non compromettere la possibilità di soddisfare i fabbisogni dei posteri, rischia di apparire ormai soltanto come il “minimo fattibile”? Il momento sembra essere arrivato, dicono in molti, tra i quali anche la Fondazione Mac Arthur. Esistono le tecnologie e le metodologie necessarie, ad esempio per tracciare la vita dei materiali lungo la catena del valore. Le risorse scarse o addirittura in via di esaurimento e il prezzo elevato delle commodities possono fungere da pungolo. Inoltre, i consumatori, anche nei Paesi emergenti (giova ricordare che oltre il 60% della bio-capacità attuale è concentrato in soli 10 Paesi, dei quali 5 sono BRIICS), sembrano richiedere un nuovo approccio all’economia e alla produzione: per loro, ad esempio, il servizio può essere anche più interessante del semplice possesso di un prodotto. E poi, rimanendo soltanto ai beni di largo consumo, riprogettare i prodotti per minimizzare le risorse utilizzate, migliorarne il packaging, riutilizzare tutto ciò che può essere recuperato costituisce pur sempre soltanto una delle facce della medaglia: l’altra consiste, infatti, nella realizzazione di beni che durino più a lungo nel tempo, ai quali collegare l’erogazione di nuovi servizi, che possono anche essere più profittevoli rispetto all’infinita riproduzione degli attuali beni ad “obsolescenza programmata”.
La scintilla dell’economia circolare è ormai accesa. E tutto lascia pensare che a far da guida saranno proprio le industrie, che stanno accorgendosi di come gli “eco-costi” (la cui misurazione è un altro tema che meriterebbe un più ampio spazio rispetto a quello di un post o di un articolo) sono destinati necessariamente a crescere e a riflettersi sulla loro capacità di affrontare il mercato: non soltanto per effetto di possibili tasse ambientali, ma soprattutto per l’indiscriminato “spreco” dei materiali. Il consumo di materiali preziosi, produzione e consumo di energia, acqua e cibo sono le sfide che siamo tenuti ad affrontare, e la crisi attuale non fa altro che renderlo ancor più evidente. I costi, infatti, continuano a crescere e la pressione economica a cui le aziende saranno sottoposte crescerà fino a far scomparire interi settori economici. Per queste ragioni, il problema ambientale è già un problema economico. Si tratta solo di riconoscerlo e di cominciare ad elaborare le soluzioni.
P.S.
Spero che non sia troppo pesante ma questi una ne pensano e cento ne fanno: l'idea dello sviluppo sostenibile è una riedizione dell'altra detta dell'astronave che propugnava la teoria che questo pianeta fosse come un astronave quindi con spazio e risorse limitate.... dimostratasi fallimentare e pericolosamente di stampo eugenetico vero i ceti e i popoli meno abbienti.
Buon week end
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