Fonte: Il Fatto Quotidiano Ambiente & Veleni - 7 Gennaio 2020 Ugo Bardi
Come al solito, il problema è il petrolio. A prima vista non sembrerebbe che ci siano grossi rischi per l’Italia: non stiamo importando petrolio dall’Iran
e, nonostante tutto il rumore degli ultimi giorni, il prezzo del
petrolio rimane per ora entro limiti sopportabili, non oltre i 70
dollari al barile.
Però, ovviamente, non è solo questione dell’Iran. Nell’ipotesi peggiore, se scoppia una guerra in Medio Oriente entrano di mezzo alcuni dei principali fornitori di petrolio mondiali, incluso Iraq e Arabia Saudita.
Se poi ci si ricorda che l’Iran è in grado di bloccare lo stretto di
Hormuz al trasporto navale, allora è tutto il sistema che va in crisi:
dallo stretto passa oltre il 20% di tutta la produzione mondiale di
petrolio. Come minimo, ritorniamo sopra 100 dollari al barile, come era
successo nel 2008. E questo fa enormi danni a un’economia che dipende
dal petrolio, come quella italiana.
E qui siamo alla vecchia storia dei vasi di coccio e dei vasi di ferro. Comunque si voglia vedere l’azione di Donald Trump, lui sa di potersi permettere il rischio di una guerra. Negli ultimi 15 anni, gli Stati Uniti
si sono ricostruiti una capacità produttiva petrolifera investendo
enormi risorse nel “petrolio di scisto”, non tanto perché era
conveniente dal punto di vista economico, ma con l’idea di usarlo come
arma strategica. Come tale, sta funzionando benissimo. Non che gli Usa
siano veramente indipendenti in termini energetici:
tuttora importano più petrolio di quanto non ne esportino. Ma la
differenza è piccola e, anche in caso di una crisi di fornitura
petrolifera, la loro economia non rischia di andare a gambe all’aria.
Ma i vasi di coccio? Ovvero l’Italia e altri paesi europei? Certo, non è che l’Italia abbia ambizioni imperiali come gli Usa (ci aveva già provato Mussolini
a ricostruire l’Impero Romano, ai suoi tempi, ma non era stata una
buona idea). Si tratta però quantomeno di cercare di sopravvivere e, se
si va a una guerra, le cose si mettono male per noi.
La nostra
economia non potrebbe funzionare senza petrolio o con il petrolio a
oltre 100 dollari al barile. La produzione italiana di petrolio non ci
aiuta molto: ha raggiunto il suo picco negli anni ‘80 e da allora non è
più aumentata. Oggi, produciamo meno di 100mila barili al giorno, ma
ne consumiamo oltre un milione e quindi dipendiamo dalle importazioni.
Per fortuna, anche i consumi sono in declino, qualcosa di buono è stato fatto in termini di energia rinnovabile e efficienza energetica, ma non abbastanza.
Ci sono amministrazioni in Italia che con grande fanfara hanno dichiarato la “emergenza climatica”.
Bravi, ma se uno dichiara un’emergenza dovrebbe anche far qualcosa in
proposito. E non solo non stanno facendo nulla per il clima, ma nemmeno
per le altre emergenze che dobbiamo affrontare in questo pianeta
sovrasfruttato, sovrappopolato e governato da pazzi furiosi. C’è
un’emergenza energetica, un’emergenza di gestione rifiuti,
un’emergenza del collasso delle infrastrutture, un’emergenza del
degrado del territorio, un’emergenza di microplastiche, di
microparticelle, di metalli pesanti e molto altro ancora.
Quella che ora ci potrebbe arrivare addosso pesantemente con la crisi in Iran è l’emergenza energetica,
con il rischio di fare enormi danni all’economia italiana. Avremmo
dovuto pensarci prima e costruirci una capacità di resistenza
strategica. Ovviamente, qui in Italia non abbiamo scisti petroliferi
come ci sono negli Usa, e anche se li avessimo sarebbero solo un cerotto
temporaneo. Però abbiamo risorse energetiche in abbondanza in termini
di energia solare, con l’aggiunta dell’energia
geotermica, idroelettrica e eolica, per non parlare poi della
possibilità di un efficientamento energetico generalizzato e
dell’elettrificazione del trasporto su strada.
Se avessimo investito di più su queste risorse, potremmo gestirci meglio una nuova crisi petrolifera.
Senza contare che questo investimento ci avrebbe aiutato anche ad
affrontare le altre emergenze, in particolare quella climatica. Siamo
ancora in tempo a cambiare rotta e investire su risorse energetiche non
soggette a crisi politiche internazionali? Sarebbe stato meglio
cominciare prima ma, come si suol dire, “meglio tardi che mai.”
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