martedì 17 dicembre 2019

Trent’anni fa il primo episodio dei Simpson. E fu una rivoluzione

Fonte: Il Fatto Quotidiano Simone Vacatello  Televisione - 17 Dicembre 2019


“Quello che cerco di fare nel mio lavoro è ridurre la distanza tra l’intrattenimento artistico che vedevo in TV da bambino e quello che pensavo fosse vero, reale”. Sono le parole con cui Matt Groening stesso, nel documentario My wasted life, descrive l’obiettivo che si era posto nel momento in cui ha creato i Simpson.
Da allora sono passati trent’anni e quello che è avvenuto nel mentre è stata una rivoluzione dell’animazione seriale. Prima di Homer e congiunti, l’unica famiglia animata mai arrivata a dominare l’ora di cena nelle tv statunitensi era stata quella dei Flintstones, con la loro parodia innocua di una corporate America ancora primitiva, alle prese coi propri miti fondanti di famiglia e progresso.
La Springfield itterica di Groening, invece, si serviva proprio di quei miti fondanti per ridicolizzarne le ipocrisie, per introdurre un retrogusto amaro nella torta di mele tradizionale, e un sospetto di sofisticazione alimentare nel tacchino del Ringraziamento. Lo faceva innanzitutto cercando di ridurre appunto la distanza tra i paradossi surreali dell’animazione e un’eco che facesse risuonare come verosimile le tematiche affrontate dagli episodi.
Homer poteva cadere in un dirupo o prendere cannonate in pancia senza morire, proprio come avveniva a un Willy il Coyote qualsiasi, ma venendone comunque fuori con seri danni fisici, per quanto fittizi e richiesti appunto dalla narrazione. Soprattutto, alcuni personaggi potevano non fare più ritorno da un incidente (si veda la morte di Maude Flanders nell’undicesima stagione). La sospensione dell’incredulità, insomma, si faceva flessibile ma comunque ai fini di una opportuna imitazione del reale.
Questa imitazione non solo si è calata talmente tanto nella realtà popolare da sorpassare a destra la dimensione parodistica e anticipare eventi quali l’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti, ma ha soprattutto preso la forma di un microcosmo denso, sfaccettato e pittoresco di personaggi secondari, che al tempo della loro ideazione si disfacevano di vecchi stereotipi per crearne di nuovi, e mettere alla berlina le dinamiche di un’America che si preparava a lasciare i vecchi trucchi da ventesimo secolo della Fox, per entrare nel ventunesimo con maggiore familiarità rispetto alle proprie bruttezze.
L’alcolizzato e inaffidabile Homer non era meno mediocre come padre di famiglia di quanto non lo fosse come supervisore della sicurezza di una centrale nucleare responsabile dei disastri ambientali sul territorio. Allo stesso modo la moglie Marge incarnava alla perfezione le aspirazioni negate di migliaia di donne americane ancora sopraffatte da vecchie dinamiche patriarcali.
Le stesse dinamiche impedivano ai numerosi talenti della figlia Lisa di ricevere il riconoscimento che le spettava, mentre agevolavano lo scapestrato Bart nel passarla liscia dopo ogni nuovo atto vandalico. Intorno a loro, una Springfield animata dal suo folklore tipico: sindaci conniventi con la mala, forze dell’ordine inadatte, ottuse e compiacenti, figure religiose prive di empatia e ossessionate dal proprio status quo e, in generale, un tessuto urbano e sociale profondamente immerso in quell’eco di abbandono e di desiderio di rivalsa che separa New York da Los Angeles e si propaga attraverso cinquanta Stati.
Tuttavia, attraverso le maglie tenui di questa narrazione, nel corso degli anni sono innumerevoli i messaggi progressisti e di accettazione del prossimo che Groening e compagnia sono riusciti a indirizzare al pubblico: il tutto partendo da un ritratto di famiglia americano che doveva essere tutt’altro che edificante e costruttivo, almeno nelle intenzioni iniziali.
Il tentativo degli autori di connettere emotivamente il pubblico ai protagonisti, infatti, non solo si poté dire riuscito dopo una manciata di stagioni, ma riuscì a espandersi creando un tessuto connettivo pop che è diventato lessico famigliare di un’intera generazione, tanto da portare la tipica esclamazione di Homer (“D’oh!”) a essere inserita nell’Oxford English Dictionary.
Il desiderio di fornire in qualche modo un lieto fine, una lezione “positiva” al pubblico ogni qual volta fosse possibile, a fronte del cinismo del linguaggio e degli scenari, ha reso lo show un ponte tra l’Occidente letterario “proibito”, quello cioè che mette in discussione i suoi crismi fondamentali (famiglia, religione, Stato) e quello comunemente accettato come formativo. Solo questo basterebbe a fare dei Simpson uno dei massimi esempi di letteratura pop animata a cavallo del cambio di secolo.
L’accusa che è stata rivolta più spesso allo show nei tempi recenti è di avere perso, soprattutto nell’ultimo decennio, gran parte del suo smalto a scapito di serie che traggono palese ispirazione dai suoi schemi narrativi fondanti (Family Guy, Futurama, American Dad, lo stesso Rick e Morty).
Di sicuro ciò che si faceva parodia nei Simpson è diventato vera e propria decostruzione nei suoi “epigoni”, e non coinvolge più soltanto gli scenari fittizi degli Stati Uniti, ma nuove frontiere globali, in cui le caricature della disfunzionalità emotiva e sociale si fanno più anarchiche, in alcuni casi addirittura nichiliste, di certo più in linea con lo zeitgeist.
Si può dire perciò che Homer, Bart e co. siano invecchiati male, o piuttosto che gli scenari da loro parodizzati si siano fatti così amari e rapidi, nelle loro evoluzioni, da non riuscire più a ritrovarsi facilmente in quell’equazione che trent’anni fa si era rivelata rivoluzionaria: essa era sì scettica e controcorrente, ma col senno di poi decisamente ottimista. Questo perché i Simpson, in quanto show, avevano più di un problema con l’America in cui erano nati, ma è innegabile che, tra una sferzata e l’altra, si sforzassero anche di mostrarne un volto più conciliante.

giovedì 12 dicembre 2019

piazza fontana, 50 anni dopo: poche verità e molte bugie

Innanzitutto un suggerimento:

quando uscì fece parlare, e già questo è importante in un paese dove gli scheletri negli armadi sono maggiori dei cittadini che ci vivono, e discutere aspramente.... a riprova che chi allora ordinò e orchestrò le stragi ancora oggi NON vuole che luce sia fatta.
In secondo luogo avete notato che ieri l'unico speciale su Piazza Fontana lo ha fatto SkyTG24? Si altri han citato le date e/o poc'altro (Rai Storia) ma l'unico special serio l'ha fatto prorpio questo canale... e l'impressione che se ne ricava, oltre a quanto su detto, è che lo Stato ha depistato (...) a sinistra, prima, e verso gli anarchici, poi, per evitare che gli esecutori, e i mandanti (i secondi da ricercare in alcune divisioni del Minitern e del servizio segreto) venissero alla luce.
Come vogliamo sperare di risolevare un paese quando i suoi cittadini non si possono fidare delle istituzioni dello stesso?
Oggi saremmo diversi se la stagione stragista fosse stata fermata subito o addirittura non ci fosse stata?
E' vero che con i 'se' e i 'ma' la storia non si fa.. però, ormai, a danno fatto, e paese fottuto dai suoi stessi servitori, potremmo almeno disvelare e rendere pubblica la verità, del tutto parziale, giudiziaria!
Questo libro è da lì che è partito, ce ne sono altri sia chiaro, e da lì spiega antefatti e ambiti.
per approfondire senza leggere troppo (per qualcuno si sa che stanca la metne e svegia i neuroni.. meglio cullarsi nel sogno come gli aborigeni in attesi che 'qualcuno faccia qualcosa.. cosa purtroppo avvenuta nello stesso modo in cui hanno fregato gli stessi aborigeni') che si sa fa male c'è sempre Wikipedia:
Piazza Fontana; Strategia della tensione; il 'caso Pinelli' (e ne cito alcune, ma la lista è lunghissima); e tutte le voci correlate che trovate in basso a queste pagine... Giovanni Paolo II disse, cito a memoria naturalmente: Non abbiate paura..

mercoledì 11 dicembre 2019

Uk, i mercati iniziano a farsi piacere Boris Johnson e la Brexit: l’alternativa li terrorizza ancora di più

Fonte: Il Fatto Quotidiano Mondo - 8 Dicembre 2019 Loretta Napoleoni
Siamo arrivati alla dirittura d’arrivo delle elezioni nel Regno Unito, i sondaggi, per quello che valgono, danno i conservatori in testa ed infatti la sterlina è salita ed i mercati finanziari si sono concessi una modesta euforia. Sembra assurdo dal momento che una vittoria di Johnson porterebbe all’uscita della nazione dall’Unione Europea ed all’incubo della negoziazione e stesura di nuovo trattati con i paese membri dell’Unione e con il resto del mondo. Tutto ciò, bisogna aggiungere, deve essere fatto nel giro di 11 mesi, entro la fine del 2020. Un’impresa impossibile. Ma tutto ciò avverrà nel corso del 2020, nel lungo periodo quindi, ed i mercati sono estremamente miopi, guardano solo all’immediato.
E’ bene però domandarsi perché Johnson oggi piace ai mercati mentre mesi fa non era poi così gradito, e la risposta è facile, l’alternativa, cioè Jeremy Corbyn, è ben peggiore. Labour ha un programma socialista che propone, tra le altre cose, di nazionalizzare le ferrovie, le poste, l’industria idrica ed energetica. In parte i costi verranno coperti con un aumento del debito pubblico, bene per i guilts dunque, ma anche da una maggiore tassazione. In prima fila ci sono le multinazionali e gli evasori fiscali che verranno duramente penalizzati per non pagare quanto dovuto. Imposte ad hoc vorranno anche applicate ad una serie di industrie, quella del petrolio, ad esempio, pagherà di più ed i proventi verranno devoluti alla lotta contro i cambiamenti climatici. Imprese che sfruttano i dipendenti saranno punite con imposte maggiorate, tra queste Labour ha già individuato Amazon, Uber e Sport Direct. Infine il gruppo BT, la British Telecom, si vedrà nazionalizzare la banda larga che Labour vuole offrire gratis alla nazione.
Passando al settore finanziario nel mirino di Corbyn ci sono le banche. Labour ridurrà il loro potere ed il meccanismo attraverso il quale redistribuiscono la ricchezza, a favore dei ricchi sostengono i laburisti. In che modo? Aumenterà l’imposta sulle transazioni finanziarie, i bonus dei banchieri verranno limitati e le imprese quotate in borsa che non si adoperano abbastanza per contenere i cambiamenti climatici saranno radiate dagli indici. Infine Corbyn vorrebbe spostare parte del Tesoro nel nord dell’Inghilterra e parte della Bank of England, la banca centrale, a Birmingham, nelle Midlands.
Un programma ambizioso, innovativo, che l’occidente non vedeva da trent’anni e che molti economisti pensano potrebbe funzionare per rimettere in moto il paese. Un programma però che visto attraverso le lenti della finanza fa davvero paura. Sancirebbe la fine del neo liberismo, girerebbe pagina nella storia economica.
Tutto ciò potrebbe non succedere perché Corbyn, come Hillary Clinton negli Stati Uniti, polarizza l’elettorato, la gente lo ama o lo detesta a pelle e questo rende difficile una valutazione razionale delle sue politiche. Un altro leader molto probabilmente otterrebbe migliori risultati ma i laburisti non ce l’hanno. Non è però detto che Corbyn per governare abbia bisogno di una maggioranza assoluta in parlamento, potrebbe governare con una coalizione. Un governo di minoranza laburista, a detta di diversi esperti, potrebbe nel lungo periodo essere la migliore delle opzione perché i piccoli partiti, l’SNP (Scottish national party) ed i Liberal democrats, al suo interno frenerebbero le riforme più marxiste del governo.
Un governo di minoranza conservatore, invece, rinvigorirebbe i mercati nel breve periodo ma nel lungo, se fallisse nell’ottenere entro la fine dell’anno i trattati necessari farebbe precipitare il paese nell’incertezza della Brexit degli ultimi tre anni. Non ci rimane che aspettare giovedì sera per sapere quale nuovo scenario si aprirà per il travagliato Regno di sua maestà.

martedì 3 dicembre 2019

Trump minaccia Francia e Italia: “no a digital tax, altrimenti scatteranno dazi”

Fonte: W.S.I. 3 Dicembre 2019, di Mariangela Tessa

Ancora una volta il presidente Usa Donald Trump torna a minacciare gli alleati europei. Questa volta, nel mirino dell’inquilino della Casa Bianca finisce la digital tax, ovvero la tassa sui ricavi che colpisce i big Usa del web: da Google a Facebook, passando per Amazon, considerata discriminatoria nei confronti delle società americane.
Il messaggio è diretto in particolare alla Francia, dove la tassa già in vigore, prevede un’aliquota del 3% sulle entrate che le società tecnologiche americane incassano in Francia. Ma la Casa Bianca mette in guardia anche altri Paesi come l’Italia, l’Austria e la Turchia.
La comunicazione del governo a stelle e strisce arriva alla vigilia del vertice Nato e rende ancora più rovente del previsto il clima londinese nel quale in realtà si dovrebbero festeggiare i 70 anni dell’Alleanza Atlantica. Un clima reso già teso dalla questione dei finanziamenti alla Nato e dalle pressioni americane perché gli alleati mollino Huawei per lo sviluppo del 5G.
Francia: rischio dazi su $ 2,4 miliardi di merciIl rappresentante Usa al commercio, Robert Lighthizer, capo negoziatore in tutte le trattative commerciali ha quindi spiegato che gli Usa potrebbero imporre dazi del 100% su 2,4 miliardi di dollari importati dalla Francia, come formaggi, champagne, yogurt e trucchi.
Una proposta su cui Trump, appena arrivato a Londra per il vertice della Nato, deve ancora prendere una decisione e che minaccia di infiammare la due giorni del summit tra i leader dell’Alleanza Atlantica.
Giganti hi-tech sfruttano assenza digital tax, in Italia solo 64 milioni di tasseTrump vedrà il presidente francese Emmanuel Macron nelle prossime ore, così come dovrebbe incontrare a margine del vertice di Londra il presidente del consiglio Giuseppe Conte. E ripeterà loro che la digital tax viene considerata dagli Usa “discriminatoria” nei confronti delle società americane e che c’è ancora tempo per poter negoziare e trovare una soluzione in sede Ocse.
Ma i tempi sono stretti, perché una decisione definitiva è attesa entro il 14 gennaio. Poi, senza intesa, dovrebbero scattare contro Parigi.
La digital tax italiana al via dal 1 gennaio 2020L’imposta sui servizi digitali – digital tax entra in vigore dal 1° gennaio 2020. Lo prevede la legge di Bilancio 2020, modificando quanto era stato previsto dalla legge di Bilancio 2019. In particolare, viene ora circoscritto il perimetro applicativo della digital tax, identificando quelli che non si qualificano come servizi digitali ai fini dell’applicazione dell’imposta.
Quest’ultima si applicherà sul  3% dei ricavi generati nel Paese da aziende che offrono servizi digitali, al netto dell’Iva, alle imprese che a livello globale fatturano almeno 750 milioni, e che fanno almeno 5,5 milioni da servizi digitali. Si applicherà dal 2021 sui ricavi 2020.

martedì 26 novembre 2019

Fondo salva-Stati, cosa c’è e cosa no nella riforma

Fonte: Il Fatto Quotidiano Economia & Lobby - 26 Novembre 2019 Lavoce.info
Al momento della firma della riforma del Meccanismo europeo di stabilità, che sembra piombata dall’alto (ma così non è), l’arena politica si è infiammata. Utile quindi uscire dal fuoco incrociato per capire cosa prevede effettivamente e se gli allarmi sono fondati.
di Angelo Baglioni e Massimo Bordignon (Fonte: lavoce.info)
La riforma del cosiddetto Fondo salva-Stati, discussa dal governo Conte 1 con i partner europei e sulla quale il governo Conte 2 è chiamato ad apporre la sua firma nel prossimo vertice europeo di dicembre, sta suscitando preoccupazioni e polemiche nel dibattito politico di questi giorni. Cerchiamo di capire quanto esse siano fondate, rispondendo ad alcune domande.
Cos’è il Fondo salva-stati?
Il suo vero nome è in realtà Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Si tratta di un’istituzione europea, nata alla luce di un accordo intergovernativo tra i paesi che hanno adottato l’euro. Il Meccanismo eroga prestiti ai paesi che si trovino in difficoltà a finanziarsi sui mercati finanziari a tassi favorevoli. Lo ha fatto in passato con programmi di assistenza a favore di Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Cipro. Ha un capitale versato da tutti i paesi dell’Eurozona e si finanzia emettendo debito sul mercato.
Con la riforma sul tappeto, sarà più difficile accedere ai prestiti erogati dal Mes?
No. Il Mes ha due strumenti a sua disposizione: prestiti e linee di credito. I primi prevedono l’effettiva erogazione di soldi in prestito ai governi in difficoltà, il secondo fornisce una garanzia di intervento, che può essere attivata dal paese beneficiario in caso di necessità. Finora solo il primo strumento (il prestito) è stato utilizzato e su questo la riforma non prevede alcuna novità.
Per quanto riguarda le linee di credito, da un lato la riforma rende più precisa e cogente la cosiddetta “condizionalità ex-ante” per accedere a un primo tipo di linea di credito (Precautionary conditioned credit line – Pccl). Dovranno essere rispettati i paletti posti dalle regole europee di finanza pubblica, tra cui: rapporto deficit/Pil sotto il 3 per cento, rapporto debito/Pil sotto il 60 per cento o in avvicinamento a questo livello, saldo strutturale al di sopra di un minimo prestabilito.
D’altro canto, la riforma elimina la cosiddetta “condizionalità ex-post” su questa linea di credito: non sarà più necessario concordare un Memorandum of understanding (Mou) contenente condizioni di aggiustamento fiscale e macroeconomico per l’ottenimento dei prestiti (come avvenuto per esempio nel caso greco). Sarà sufficiente una lettera di intenti, nella quale il paese interessato dovrà indicare come intende soddisfare i criteri di ammissibilità; la coerenza di questa lettera con le regole e le procedure fiscali europee sarà valutata dalla Commissione europea.
In ogni caso, se anche un paese non soddisfi alcuni paletti posti dalle regole fiscali europee, potrà comunque accedere a un secondo tipo di linea di credito (Enhanced conditions credit line – Eccl), ma in questo caso occorrerà la firma di un Memorandum of understanding.
La riforma imporrà la ristrutturazione del debito pubblico?
No. Non si prevede alcun nesso automatico tra richiesta di assistenza finanziaria al Mes e ristrutturazione del debito pubblico. Quello che avverrà, ma è già previsto dalle regole attuali, è che vi sarà un’analisi di sostenibilità del debito del paese che fa richiesta di assistenza. In sostanza si valuta se, grazie agli aiuti europei e alle misure concordate, un paese sarà in grado di riportare il rapporto tra debito pubblico e Pil su una traiettoria discendente, tale da scongiurare una futura insolvenza. Se questa valutazione desse un esito negativo, prima di accordare il prestito si dovrebbe procedere a una ristrutturazione del debito, imponendo dunque dei costi ai detentori dei titoli: taglio del valore delle obbligazioni e/o degli interessi, allungamento delle scadenze di rimborso. La novità rispetto alla situazione attuale è un maggiore coinvolgimento del Mes nella analisi di sostenibilità, attualmente affidata alla Commissione e alla Banca centrale europea (ed eventualmente al Fondo monetario internazionale).
Qui potrebbe inserirsi un aspetto critico, dovuto alla diversa governance politica del Mes, che è una istituzione intergovernativa: nel suo Board of governors siedono i ministri delle finanze dei paesi membri. La preoccupazione è che la valutazione affidata ai paesi creditori possa essere più severa di quella della Commissione, che riflette invece un punto di vista europeo. Ma c’è da domandarsi quanto in pratica ci sia differenza. Le risorse del Mes sono soldi dei Paesi membri ed è già previsto che ciascuno di questi debba approvare il finanziamento perché questo avvenga, in qualche caso anche coinvolgendo i propri Parlamenti.
Cosa cambia per le Clausole di azione collettiva?
Un aspetto tecnico rilevante della proposta di riforma è l’introduzione delle cosiddette single-limb Cac (Clausole di azione collettiva) per i titoli di debito emessi in futuro. Per procedere alla ristrutturazione del debito tramite un accordo con i creditori privati (il cosiddetto private sector involvement) occorre avere il consenso di una maggioranza qualificata dei creditori. Una volta ottenuto, l’accordo vale per tutti. Attualmente questo principio viene applicato a ogni serie di debito emesso. Ciò permette a un singolo creditore, tipicamente un fondo d’investimento che detenga una quota significativa di una emissione, di bloccare la ristrutturazione del debito (o di una sua parte). La riforma prevede un meccanismo diverso, che misuri il quorum di consensi su base aggregata, cioè sull’insieme delle emissioni: in questo modo sarà più difficile per un singolo investitore detenere una quota tale da essere in grado di bloccare la ristrutturazione.
Come sempre, queste misure, se utili ex post, nel caso un paese avesse deciso di ristrutturare il proprio debito, possono essere pericolose ex ante, nel senso di poter spaventare gli eventuali futuri sottoscrittori, spingendo verso l’alto gli interessi da questi richiesti per detenere i titoli. C’è dunque la preoccupazione che l’introduzione del single limb possa creare un terremoto sui mercati finanziari. Tuttavia, l’introduzione delle attuali Cac nel 2013 aveva suscitato gli stessi timori che però sono stati disattesi; l’introduzione è avvenuta nella totale indifferenza dei mercati.
La riforma del Mes ha qualcosa a che fare con l’Unione bancaria?
Si. Essa prevede che il Mes possa erogare prestiti al Fondo europeo destinato a gestire le crisi bancarie: il Single Resolution Fund (Srf). Questa è una novità positiva e da tempo richiesta nel dibattito europeo da paesi come il nostro. Essa consentirà al Srf di disporre di una linea di sicurezza (common backstop) in caso esaurisca le sue risorse. Il fatto che questa linea di sicurezza sia fornita dal Mes è significativo: si tratta di una prima forma, seppure limitata, di condivisione dei rischi tra i paesi della zona euro. Finora, le risorse fiscali usate nelle crisi bancarie erano solo quelle nazionali. Certo è che il completamento dell’Unione bancaria richiede anche altre riforme, a cominciare dall’introduzione di una assicurazione europea dei depositi.
Su questo fronte, la recente proposta avanzata dal ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz è ancora molto deludente: non si tratta di una vera assicurazione, ma solo di un sistema di prestiti che interverrebbe in seconda battuta, una volta esaurite le risorse dei fondi di assicurazione nazionali. Ed è su questo fronte che il governo italiano dovrebbe dare battaglia.
*Massimo Bordignon è membro dello European Fiscal Board

lunedì 25 novembre 2019

Fondo salva-Stati, vi chiedete cosa sia il Mes? In breve un’evoluzione della Troika

Fonte: Il Fatto Quotidiano Zonaeuro - 22 Novembre 2019 Lidia Undiemi
Era il 2012 quando per la prima volta andai in Rai (a Linea Notte) a spiegare il Meccanismo europeo di stabilità (Mes) e le conseguenze di una sua approvazione.
Presentatore e ospiti erano visivamente spiazzati, perché l’argomento principale era l’insediamento – tra festeggiamenti e grande ottimismo – di Mario Monti. Io dissi chiaramente che Monti avrebbe fallito, e che noi avremmo pagato a caro prezzo le riforme volute dall’Europa. Così è stato.
Sebbene riuscii a sensibilizzare una discreta parte dell’opinione pubblica, una volta approvato dal Parlamento il Mes fu pian piano dimenticato. Destino diverso per il Fiscal Compact – approvato anch’esso nello stesso periodo –, evidentemente perché la sua comprensione era di gran lunga più intuitiva.
Oggi anche il presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, si preoccupa della sua approvazione.
Cos’è il Mes? In breve è l’evoluzione della Troika, un’organizzazione internazionale dotata di ampi poteri sanciti nel suo trattato fondamentale (appunto quello che è stato approvato dal Parlamento). Il suo obiettivo principale è quello di prestare denaro ai Paesi in difficoltà, ma solo se gli viene concesso di sostituirsi al governo democraticamente eletto per imporre le proprie riforme. La conseguenza è piuttosto ovvia, la democrazia cessa di funzionare, i cittadini possono votare chi vogliono, ma l’agenda politica è quella del Mes. Leggere il trattato per credere (sulla lettura del trattato nel 2013 ebbi un simpatico battibecco con il giornalista Massimo Giannini nel 2013 a Ballarò). Loro le chiamano condizionalità, con ciò imitando il Fondo Monetario internazionale, di cui il Mes, in special modo con la riforma, vuole assumere in Europa gli stessi compiti che il Fondo svolge in altre parti del mondo, come in America Latina.
Per il paese che non realizza le riforme del Mes-Troika sono guai, perché il prestito viene erogato in tranche, solo se (a parte concessioni discrezionali) lo Stato in difficoltà realizza le riforme.
Grecia docet. I prestiti ad Atene sono stati concessi solo con l’applicazione di politiche di austerità estremamente pesanti. Per esempio, l’approvazione della legge di bilancio per il 2014 fu condizionata dal fatto che la Troika decise di rinviare il suo ritorno ad Atene, da cui dipendeva l’erogazione dell’ulteriore tranche di prestito, perché aveva dettato 135 riforme e ne erano state attuate soltanto 60.
Non se l’è passata meglio Cipro, con il prelievo forzoso sui conti correnti, che il Parlamento cipriota aveva per la prima volta respinto, salvo poi essere costretto ad accettare per le pressioni dei mercati e delle istituzioni internazionali.
La riforma vuole andare oltre tutto questo. Perché se attualmente il Mes è progettato per funzionare principalmente in caso di gravi crisi finanziarie, con la riforma finirebbe per governare in via precauzionale tutti i paesi dell’Eurozona creando un sistema di gestione del debito pubblico e delle crisi bancarie dal quale nessuno potrebbe scappare.
Uno dei punti fondamentali della riforma è infatti il rafforzamento delle linee di credito precauzionale (leggasi commissariamenti permanenti anche per i Paesi con solide basi) e della possibilità per il Mes di imporre concretamente le condizionalità.
A questo punto però vi starete chiedendo chi c’è dietro al Mes. Anche qui, basta leggere il trattato per rendersene conto. I soci del Mes sono sostanzialmente i paesi dell’Eurozona, il cui potere di influenza all’interno dell’organizzazione dipende dalle quote di partecipazione possedute, che sono tutte diverse. In testa Germania e Francia, cui seguono Italia e Spagna e via via gli altri. Chi ha più potere finanziario conta di più, e tra l’altro se un paese aderente ha difficoltà a versare la propria di partecipazione allora viene privato del diritto di voto. A confronto una banca privata è più democratica.
Non solo Germania e Francia, perché anche investitori privati possono partecipare ai piani di finanziamento degli Stati, e non si capisce bene sino a che punto possono partecipare alla redazione delle riforme.
Altri aspetti decisivi della riforma sono il contributo che il Mes per le risoluzioni europee delle crisi bancarie ed una maggiore collaborazione tra Commissione Europea e il Mes stesso. Tralasciando in questo momento l’accavallamento di ruoli, ricordiamoci che l’Ue e il Mes sono soggetti distinti, e quindi potrebbero crearsi conflitti di governance, che in realtà ci sono già stati e che hanno portato allo scontro titanico tra Germania e Bce. La riforma del Mes altro non è che il compromesso tra Ue e Germania, perché probabilmente i tedeschi hanno intenzione di tenere in piedi la baracca solo se gli altri paesi accettano le condizionalità.
Questa è l’Europa che si sta consolidando con la riforma del Mes. Una Europa squilibrata e antidemocratica, che in quanto tale, comunque, non avrebbe lunga vita.

venerdì 22 novembre 2019

Internet: grazie alla rete siamo connessi al virtuale, ma disconnessi dal reale

Fonte: Il Fatto Quotidiano Società - 17 Novembre 2019 Diego Fusaro
Nell’apoteosi della rete dell’internet propria dell’evo della “scomparsa delle lucciole”, come la appellava Pasolini, la comunicazione ipertrofica sostituisce la relazione, sempre più latitante e rarefatta. Quelle disseminate per lo spazio cosmico del web, infatti, non sono mai vere relazioni: figurano, nella migliore delle ipotesi, come promesse di relazione, che, per attuarsi, necessitano del rapporto reale tra i “volti”, secondo la dinamica messa a tema da Lévinas.
Favoriscono, in altri termini, i processi di isolazionismo individualistico e di privatizzazione dell’immaginario collettivo degli “incantati dalla rete” (riprendendo il titolo del libro di Carlo Formenti). Confermano la tendenza generale di un’epoca connessionista che aspira al moltiplicarsi delle relazioni fluide e, insieme, opera affinché esse mai si condensino in forme stabili.
Nella pellicola del 2012 del regista Henry-Alex Rubin, intitolata Disconnect, è magistralmente tratteggiata l’aporeticità della nuova condicio virtuale a cui le nuove generazioni sono condannate. Sempre connessi, gli abitatori della rete dipendono integralmente dall’internet per ogni azione e per ogni pensiero.
Un numero sempre crescente di giovani ha apertamente scelto di vivere on line, disertando la vita reale, svilita al rango di esistenza off line. È l’imago parossistica dell’esistenza al tempo del globalismo: l’homo cosmopoliticus coincide con una soggettività puntiforme e uniforme, solitaria ma sempre connessa, globale ma isolata, vicino al distante e distante dal vicino.
Per questa via, non solo la relazione umana si fa digitale, ma, in maniera convergente, l’azione è inibita e lo spirito critico è anestetizzato: il tempo dell’esistenza è speso in rete, nel controllo ossessivo della mail e del telefonino, nella cura delle relazioni digitali e nella rielaborazione permanente del proprio profilo virtuale quale appare sul palcoscenico delle reti sociali.
Quella che già nel 1995 lo psichiatra americano Ivan Goldberg aveva definito come la “sindrome della dipendenza dalla rete” (Internet Addiction Disorder) si è a tal punto estesa da conquistare, di fatto, pressoché ogni abitatore della cosmopoli a reificazione integrale. Non è difficile comprendere come, in forza del proliferare delle relazioni digitali proprie della community virtuale, il nuovo potere seducente del tecnocapitalismo abbia realmente ottenuto, a mo’ di conquista, l’inibizione dei reali rapporti interpersonali, di fatto dissolvendo la base di una rivolta corale.
L’internet e la società dei like, con le loro relazioni effimere e superficiali, hanno appieno guadagnato lo statuto di nuova droga che, equivalente del “soma” descritto dall’Huxley del Brand New World, risarcisce rispetto alla sofferenza e alle storture del mondo reale, destando l’illusione di una comunità più vera, proiettata in un’altra dimensione rispetto al tradizionale mondo off line. Sotto questo profilo, si potrebbero applicare alla società dell’internet e ai suoi “paradisi digitali” le considerazioni a suo tempo svolte da Marx in relazione all’Opium des Volks, all'”oppio del popolo” religioso, alla comunità celeste escogitata come falsa compensazione per le storture di quella terrena.

mercoledì 20 novembre 2019

Climate change rischia di mandare in fumo il 3% del Pil mondiale

Fonte: W.S.I. 20 Novembre 2019, di Mariangela Tessa

Il cambiamenti climatici rischiano di mandare in fumo il 3% della crescita mondiale nei prossimi trent’anni. Tradotto in numeri assoluti, si tratta di 7,9 mila miliardi del Pil mondiale destinato a scomparire entro il 2050.
È quanto riporta uno studio condotto dall’Economist Intelligence Unit, dal quale emerge che saranno l’Africa (4,7%), il Sud America (3,8%) e il Medio Oriente (3,7%) le tre aree più colpite dall’aumento delle temperature medie. Niente di buono in vista per l’Europa, che lascerà sul terreno l’1,7% del Pil.
Più contenuti gli effetti negli UsaAnche gli Stati Uniti, la più grande economia del mondo, non riusciranno ad evitare gli effetti negatici dei cambiamenti climatici, anche se saranno più contenuti rispetto alle altre principali aree. Nello stesso arco temporale, secondo le previsioni sopportate nello studio, l’economia a stelle e strisce potrebbe rallentare di oltre l’1%.
Un allarme era già stato lanciato la scorsa estate dal National Bureau of Economic Research, che aveva  sottolineato in agosto che la crescita pro capite negli Stati Uniti potrebbe ridursi del 10,5% nei prossimi 81 anni, in previsione di temperature più elevate in tutto il mondo.
“Il modello di cambiamento climatico dell’EIU calcola che entro il 2050, l’economia degli Stati Uniti sarà dell’1,1% più piccola di quanto non sarebbe stata in assenza di cambiamenti climatici”, afferma il rapporto. “I recenti eventi negli Stati Uniti hanno dimostrato le gravi vulnerabilità che esistono anche nelle principali economie sviluppate”, si legge nel report in cui si menziona la maggiore frequenza e intensità degli incendi che hanno comlpito negli ultimi anni la California.
L’anno scorso, un rapporto del governo degli Stati Uniti affermava che i cambiamenti climatici sarebbero costati miliardi di dollari all’economia degli Stati Uniti.
Il report, diffuso oggi, arriva pochi giorni prima della prossima conferenza dei cambiamenti climatici delle Nazioni Unite. La 25esima conferenza delle parti contraenti dell’Unfccc, la cop25, appunto, avrà luogo dunque a Madrid dal 2 al 13 dicembre prossimi.

lunedì 18 novembre 2019

Climategate, ovvero quando denunciare il riscaldamento globale era roba da complottisti

Fonte: Il Fatto Quotidiano Ambiente & Veleni - 18 Novembre 2019 Ugo Bardi
Sono passati 10 anni da quando, nel 2009, esplodeva sui media la storia che poi sarebbe stata chiamata “climategate” – qualche volta “climagate” in Italia. Era successo che qualcuno aveva violato il server della “Climate Research Unit” (CRU) dell’Università di East Anglia, in Cambridge, portandosi via e poi diffondendo le e-mail private che alcuni scienziati del clima si erano scambiate. Da lì, è nata una polemica a livello planetario che dura tuttora. I dati diffusi sono stati interpretati da molti come la “prova” che gli scienziati del clima erano impegnati in un grande complotto globale per inventarsi un riscaldamento globale inesistente. Forse lo hanno fatto per pura incompetenza, forse per far soldi, forse per renderci tutti schiavi, forse per imporre il comunismo in tutto il mondo, insomma qualcosa del genere.
Rivista a distanza di tanto tempo, sembra incredibile che si sia fatto tanto rumore per una cosa del genere. Non c’era niente di male in quei messaggi, salvo che sono state esaminati con un atteggiamento da inquisitori alla ricerca di eretici da mandare al rogo. Ma, nonostante l’accanimento, tutto quello che gli inquisitori hanno potuto trovare sono un paio di frasi che sono state prese fuori contesto e fraintese, tipo “il trucco di Mike” e “nascondere il declino” e che non indicavano assolutamente una manipolazione illecita dei dati. Poi i messaggi contenevano opinioni personali che sono stati anche quelle prese fuori contesto, ingigantite, e presentate come prova di colpevolezza. Ma non c’era traccia di complotto in nessuno dei messaggi, niente che indicasse che gli scienziati avevano alterato i dati per adattarli alle loro opinioni pregresse.
Insomma, tanto rumore per nulla: un semplice trucco propagandistico gonfiato dai media. Ma è stato un trucco efficace: la parola “climategate” è diventata rapidamente uno slogan che non aveva bisogno di spiegazioni. Come risultato, molta gente ha creduto alla storia dei “climatologi cattivi” e se leggete i vari commenti che appaiono oggi in occasione del decennale, vedete che ancora oggi tanta gente ci crede. Il potere della propaganda è grande.
Non è facile quantificare quali danni la storia del climategate abbia fatto a tutti noi, ma certamente è stato un punto di svolta nel dibattito sul clima. Fino a qualche anno prima, era ancora possibile fare dibattiti dove partecipavano persone con qualifiche scientifiche che avevano opinioni opposte e dove si rimaneva entro i limiti del dibattito civile. Ma il climategate ha cambiato tutto, scaraventando lo scontro dalla scienza alla politica. Per essere precisi, l’idea che tutta la faccenda del riscaldamento globale fosse una bufala serpeggiava da tempo, ma con il climategate l’idea del complotto era stata sdoganata. E’ da allora che gli attacchi contro la scienza del clima non hanno avuto più che una vaga pretesa di essere basati un’interpretazione scientifica alternativa. Sono diventati attacchi puramente politici e si sa che in politica si fa tanta polemica, ma si riesce male ad agire sulla base dei dati.
E così sono passati 10 anni in cui si è fatto ben poco per fermare il cambiamento climatico che, a questo punto, sta galoppando e rischia di travolgerci tutti quanti. Forse il fatto di aver visto mezza Italia sott’acqua in questi giorni ci da un’idea di quanto drammatica sia la situazione, ma non è solo questo: c’è ben di più! Il fatto è che tutto l’ecosistema planetario da segni di una grave crisi in atto: sparizione degli insetti, perdita della biodiversità, estinzioni, fusione dei ghiacci, ondate di calore, incendi, disastri vari e, alla fine dei conti, le temperature che continuano ad aumentare inesorabilmente.
Di fronte a questa situazione, è impressionante vedere che da noi ci sia ancora chi raccoglie firme e organizza convegni contro gli “allarmisti climatici,” mentre Vittorio Feltri ci racconta in completa serietà che “del clima non mi frega niente: con 2 gradi in più a Bergamo si sta meglio.” Se ci siamo ridotti a questi livelli, non sarà stata tutta colpa del climategate ma, insomma, anche quello ha dato una mano. Ma prendiamola in termini costruttivi: in fondo, dalla storia del climategate potremmo imparare come non farsi imbrogliare da questi trucchi propagandistici.

giovedì 14 novembre 2019

5G, i rischi per la salute richiedono prevenzione. Ma le parole contano meno dei numeri

Fonte: Il Fatto Quotidiano Patrizia Gentilini Scienza - 14 Novembre 2019

Si è svolto il 5 novembre alla Camera il partecipatissimo convegno “Moratoria nazionale 5G, tra rischi per la salute e principio di precauzione” promosso dall’Alleanza Stop 5G e da parlamentari delle più svariate appartenenze politiche. Presenti relatori di grande spessore scientifico quali Olle Johnsson, Annie J. Sasco, Marc Arazi; in questo contesto prestigioso ho avuto l’onore di aprire i lavori in rappresentanza di Isde, inquadrando il contesto in cui il 5G andrà a operare, indubbiamente contraddittorio e confuso.
A fianco delle relazioni di carattere strettamente scientifico, importanti contributi sono venuti da associazioni di malati, dallo studio legale torinese che ha ottenuto sentenze favorevoli circa i rischi da elettrosmog e da amministratori locali. In particolare Franca Biglio, sindaco di Marsaglia e presidente dell’Associazione Nazionale Piccoli Comuni di Italia (Anpci), guida la rivolta dei primi cittadini contro il 5G e ha denunciato come ancora una volta i piccoli comuni subiscano scelte imposte dall’alto, senza alcuna preventiva informazione. Fortunatamente sono sempre più numerosi i sindaci che, consci del loro ruolo, difendono la salute delle loro comunità dai rischi dell’elettrosmog e seguono l’esempio della Biglio.
Come ha detto con forza Annie Sasco, non si tratta di invocare il principio di precauzione, ma quello di prevenzione, perché una corposa letteratura scientifica attesta che gli effetti biologici dei campi elettromagnetici (Cem) vanno ben oltre la sola azione di riscaldamento acuto, quella su cui si basano i limiti di legge. Le onde del 5G, in particolare, penetrano nella cute fino a 10mm, con effetti sia locali (cellule cutanee, terminazioni nervose, microcircolo) che sistemici per rilascio di mediatori infiammatori.
E’ emersa con chiarezza l’inadeguatezza dei limiti vigenti anche in Italia – che pur vanta una delle legislazioni più cautelative – che ha limiti a 6 V/m, anche se come media su 24 ore e non più “puntuali”, ma se si pensa che fino agli anni 40 il fondo naturale pulsato era pari a 0,0002 V/m ben si capisce l’enorme aumento del groviglio elettromagnetico cui siamo tutti esposti.
Il Comitato europeo per i rischi da radiazioni (Ecrr), tenendo conto degli studi pubblicati nel 2018 dal National Toxicology Program (Ntp) e dall’Istituto Ramazzini, ha recentemente proposto di adottare anche per le radiofrequenze limiti che – come per le radiazioni ionizzanti – tengano conto dell’effetto cumulativo e adottino fattori correttivi legati alla frequenza, all’età e alla tipologia delle persone esposte. A questo proposito esiste una vera “schizofrenia” perché ad esempio da un lato il Consiglio d’Europa raccomanda agli Stati membri di fissare soglie preventive che non superino gli 0,6 V/m e di ridurre questo valore a 0,2; dall’altro la Commissione europea raccomanda la commercializzazione su larga scala del 5G, con cui si prevede un aumento dei limiti fino a 61 V/m.
Se si aggiunge che non esistono attualmente strumentazioni in grado di misurare i campi elettromagnetici generati dal 5G, che le agenzie di protezione ambientale dispongono solo di modelli teorici da validare nella pratica e che la normativa attuale è del tutto inadeguata e impreparata a regolamentare gli scenari generati dal 5G, come si potrà stabilire se i limiti vengono superati, se non c’è neppure la possibilità di eseguire misurazioni?
Rispetto ai rischi sanitari già evidenziati in precedenti post, segnalo il contributo di Olle Johnsson circa l’aumento in batteri esposti al telefono cellulare e Wi-Fi dell’antibiotico-resistenza, problema ubiquitario che sta generando enorme preoccupazione.
Marc Arazi è il medico francese che ha denunciato lo scandalo Phone Gate e portato alla luce l’inganno cui sono stati esposti i consumatori con l’utilizzo di cellulari che 9 volte su 10 superavano i limiti stabiliti.
Di grandissimo rilievo infine l’intervento della prof. Annie J. Sasco, medico epidemiologo che ha lavorato per 22 anni alla Iarc e che ha parlato in particolare dei rischi per i bambini da esposizione a cellulari, problema del tutto trascurato nel 2011 dalla Iarc che classificò le radiofrequenze “2B” (cancerogeni possibili). Da esperta epidemiologa Sasco ha affermato che negli studi epidemiologici non si devono considerare le parole (troppo spesso tranquillizzanti) con cui i risultati degli studi vengono riportati, ma i risultati numerici, affermando ad esempio che se fossero stati disponibili i risultati di Cefalo – studio condotto per valutare il rischio di cancro cerebrale in bambini e adolescenti in relazione al cellulare e giunto a conclusioni rassicuranti – la Iarc avrebbe classificato le radiofrequenze a livello I (cancerogeni) e non 2B. Guardando numeri e tabelle di Cefalo, emergono infatti rischi trascurati dagli autori, ma dimostrati da altri.
Ma un’altra questione particolarmente inquietante è stata sollevata dalla Sasco su Mobi-kids, studio condotto in 14 paesi, compreso l’Italia (Università di Torino) che ha preso in esame i tumori cerebrali nell’età 10-24 anni, in relazione all’uso dei cellulari. Lo studio, finanziato con fondi pubblici europei, ha analizzati 898 casi insorti fra 2010 ed 2015 e 1912 controlli sani. Il 13 gennaio 2017 i dati sono stati inviati alla Commissione Europea, ma a distanza di tre anni non si ha ancora alcuna pubblicazione dei risultati, neppure parziale. Come è possibile? Sono forse emersi risultati “scomodi” che si preferisce non diffondere? Sasco ha ribadito con forza che è necessario avere subito i risultati di Mobi-kids “perché si parla dei nostri bambini e anche dei nostri soldi, perché sono stati utilizzati fondi pubblici”!
Questo silenzio è inaccettabile e ogni paese dovrebbe adoprarsi per conoscere almeno i risultati del proprio paese. Spero che questo appello venga raccolto perché prima di esporre l’infanzia ai rischi ulteriori del 5G, è urgente sapere cosa già succede loro con il sempre più frequente uso che giovani e bambini fanno dei telefoni mobili.

martedì 12 novembre 2019

Presidenziali Usa: l’economia non sarà il fattore chiave, i temi caldi per le prossime elezioni

Fonte: W.S.I. 11 Novembre 2019, di Mariangela Tessa

Nonostante la paura di una recessione imminente sia radicata tra gli americani, nelle elezioni presidenziali 2020 l’economia non sarà l’elemento chiave nelle decisioni di voto.
Secondo un sondaggio della CNBC e Acorns Invest in You condotto da SurveyMonkey, quasi due terzi degli americani (61%) affermano che a spingere l’ago della bilancia da una parte o dall’altra saranno questioni diverse dall’economia.
Tra disoccupazione storicamente bassa, forte spesa al consumo e un mercato azionario record, gli americani si sentono nel complesso finanziariamente più sicuri rispetto a quattro anni fa. E questo spinge il focus politico su altre questioni.
Solo il 34% degli americani afferma che voterà, tenendo in considerazione l’andamento dell’economia: una questione rilevante per meno della metà dei repubblicani (42%). E che scende al 27% nell’elettorato democratico.
Per i più giovani la priorità è l’ambienteAlla domanda quale sia il tema “più importante in questo momento”, il 24% degli intervistati ha risposto citando l’occupazione e l’economia. Tra i “temi caldi”, seguono l’ assistenza sanitaria (21%), l’immigrazione (15 %) e l’ambiente (13%).
Le uniche fasce di età in cui lavoro e l’economia non costituiscono il problema principale sono i più giovani (il 24% di quelli di età compresa tra 18 e 24 anni che citano l’ambiente) e i più anziani (età pari o superiore a 65 anni che citano assistenza sanitaria o immigrazione).
“Abbiamo un’economia in crescita da molto tempo. Fino a quando la situazione non muta, le persone non avranno motivo di pensare o vedere le cose in modo diverso”, ha dichiarato Laura Wronski, ricercatrice senior di SurveyMonkey.
Recessione, paura concreta 6 elettori su 10Il vento però potrebbe cambiare. E anche presto. Sono infatti il 65% degli americani a considerare come probabile una recessione il prossimo anno: i più pessimisti sono i democratici : 8 su 10 che vedono questa possibilità come concreta. Seguono a ruota Indipendenti (72%) e Repubblicani (46%).

sabato 9 novembre 2019

il muro:30 anni e li dimostra..

Son passati 30 anni dalla sua 'caduta'. Si, la divisione fra est e ovest cadde: possiamo dire che fu il giorno in cui un intero mondo finì. Due sistemi alternativi, ma simili, pronti a distruggersi a vicenda e a fare a pezzi il pianeta che si mostrano i muscoli vicendevolmente; eppure... eppure la distruzione reciproca non c'è stata, anzi si è conosciuto  un periodo di buona stabilità e, si, di democrazia (pur se controllata e parzialmente disattesa.. soprattutto nelle colonie estreme dell'impero americano d'occidente come l'Italia) sociale dove nelle costituzioni antifasciste si stabilivano diritti e facoltà mai viste prima nella storia umana: paradossalmente essere sotto il tiro nucleare reciproco ha dato vita a libertà e democrazia. Perchè? Semplice: gli spiriti animali del capitalismo erano tenuti a freno e quindi parte dei capitali che mordevano il freno (non potendo saccheggiare, come fanno oggi, intere economie) erano impiegati per i ceti poveri cercando di rendergli meno attraente il sistema opposto: quello che si faceva passare per 'comunismo' ma che sarebbe meglio definire come 'sovietismo' ossia applicazione degenere di quanto scritto da Marx. Di là dalla cortina 'sognavano' l'occidente e le sue lucu e le sue libertà; di qua i partiti comunisti e socialisti, che non ci pensavano nemmeno per l'anticamera del cervello di far entrare cosacchi nelle proprie capitali nazionali occidentali, sventolavano il vessillo rosso per ottenere maggiore attenzione ai ceti più poveri e marginali del mondo occidentale spaventando i ricchi e gli straricchi. Naturalmente non poteva continuare all'infinito e uno dei due fratelli coltelli doveva pur cedere: ed infatti è accaduto, ossia il mondo sovietico è miseramente crollato sotto il peso della struttura, ormai anacronistica, sovietica. In realtà entrambi i sistemi si sorreggevano a vicenda e prima o poi sarebbero comunque crollati e i segnali erano chiari: si diveva solo capire quale sarebbe crollato per primo.
Il punto era cruciale: La caduta cosa avrebbe comportato? Ci stanno ancora lavorando ma alcune cose gli storici le hanno già stabilite:
  1. in Europa la riunificazione della Germania spaventava sia la Francia (allora Presidente era Mitterand) e l'Inghilterra (c'era la Thatcher); si temeva lo strapotere di una nazione tedesca riunificata, il quarto reich insomma.... e si pensò di accelerare il processo di unificazione europea partendo da quella che sembrava il tallone di achille dei tedeschi, ossia la moneta: il Marco era forte e se si riusciva a riunirlo a una moneta sovranazionale veniva ridimensionato. Sapevano che gli altri paesi non erano pronti ma si sa.. la ragion di stato è più importante del resto e poco importa che le cassandre che prevedevano problemi e 'rigetti' da parte dei popoli avevano ragione: oggi a 30 anni di distanza si è fatta un europa, debole, politica preda della finanza e dei ragionieri. Europa Sociale? Zero. Europa dei diritti? 0,9.. quasi uno se si pensa che oggi  un burocretino seduto dietro una scrivania decide se la cipolla di tropea è tale se è rossa e non rosa o se dal 2020 dobbiamo mettere nei carrelli euri e non altro o se un paese deve fallire perchè le banche tedesche, inglesi, francesi devono rientrare dei soldi e delle speculazioni fatte in quel paese. Ecco la prima conseguenza di quella riunficazione.
  2. Negli USA la finde della guerra fredda comportò soprattutto che gli spiriti animali del capitalismo fossero liberati.... dando vita al cosiddetto 'turbocapitalismo (prima che qualche solone mi dia lezione su chi ha creato per primo questo termine dico subito che il primo a citarlo fu un 'certo' Luttwak)' il cui principio base è: nessuna regola ma solo 'la mano invisibile del mercato libero (libero?)' che è sinonimo di libertà (libertà?); tutto è mercato (salvo qualche presidio per i morti di fame) e tutto si basa sulla regola della domanda e dell'offerta: dal lavoro alla prosituzione tutto si basa su domanda e offerta; nessuna preclusione o meglio nessun diritto sociale e sindacale e se ci sono resistenze.. non c'è problema perchè si può andare a produrre in Cina o in Vietnam ecc. dove agli operai gli si da l'elemosina e nei paesi 'liberali' o si adattano alla competizione, salari bassi e nessun lavoro stabile o fisso, o si possono accomodare nel mondo invisibile della povertà;
  3. Nel resto del pianeta? Fin dagli anni '50 avevano avuto assaggi di quel che sarebbe accaduto se crollavano i due sistemi: l'impoverimento generalizzato e l'emersione di ceti corrotti 'occidentalizzati'. Direte che c'entra, giusto? C'entra perchè laddove i paesi non erano schierati erano terreno di scontro fra le due superpotenze: da un lato la guerriglia 'comunista' dall'altro il FMI e la World Bank ossia una inesorabile tenaglia che stritolava i popoli e li rapinava, oltre che del futuro, anche delle loro risorse.... l'Africa ne è un esempio: da sempre luogo di scontro indiretto fra superpotenze (coloniali e non poco conta ed infatti poco è cambiato con la fine ufficiale del colonialismo e dell'imperialismo) e sempre più povera di risorse e braccia. Come meravigliarsi se nei due terzi del pianeta le ideologie, prima, e la religione islamica, poi, hanno attecchito e sono germogliati i semi dell'odio per l'occidente e della rivalsa nei suoi confronti?
.. si potrebbe continuare all'infinito nell'elencare i guasti che quella caduta ha provocato: i costi hanno ampiamente superato i benefici e, pur a malincuore, si deve ammettere che la storia non è finita (Fukuyama lo sosteneva) e che, nonostante le montagne di soldi buttati nell'ex Germania comunista e nei paesi dell'est, la situazione non è affatto migliorata anzi si è sviluppato una serie di movimenti anti-euro, anti-europa e anti-globalizzazione (infatti si parla di movimenti 'glocal') proprompenti alla cui testa ci sono proprio gli ex comunisti o nuovi integralisti.. il che significa che non solo il messagio 'sano' di un europa dei popoli è un miraggio (ma questo lo si sapeva da sempre) ma che pure quel barlume di europa messo su è respinto al mittente senza esitazioni e con un vivo senso di soddisfazione e di liberazione dall'oppressione (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, ex Germania est dove sono fortissimi i movimenti neo-nazi e quelli anti-euro, ecc. ecc.).
Si poteva fare altrimenti? Certo: bastava seguire il tratto originale del capitalismo democratico (quello teorizzato da uomini come Berlin, Keynes, Schumpeter, ecc.) senza deviazioni da esso negli USA; e in europa? Anche qui: abbiamo gli Spinelli, i Giannini, gli Adenauer, ecc. a dare il percorso e tracciare il pensiero.... ma non è andata così e i risultati si vedono tutti: compresi quelli che prevedono il modello di persone che invocano o evocano il 'ce lo chiede l'europa o qualcosa di simile' pur di evitare di perdere quel pizzico di benessere acquisito sulla pelle degli altri loro concittadini... che tristezza

venerdì 8 novembre 2019

Manovra di tasse? Ecco i numeri

Fonte: Il Fatto Quotidiano | 8 Novembre 2019

La legge di Bilancio per il 2020 è o non è “la manovra delle tasse“? Da giorni il premier Giuseppe Conte zittisce le polemiche ricordando che eviterà il temuto aumento dell’Iva per 23 miliardi e va quindi considerata la finanziaria che “ha operato il taglio di tasse più cospicuo degli ultimi anni”. A ben guardare nuove imposte e aumenti ci sono: ammonta a circa 5,8 miliardi il gettito aggiuntivo che arriverà nelle casse dell’Erario l’anno prossimo per effetto degli aggravi previsti. Il grosso andrà però a colpire banche, assicurazioni, imprese produttrici di plastica e bevande zuccherate, concessionari autostradali e chi possiede azioni in società non quotate o terreni. C’è poi un aumento dell’accisa su petrolio e gas naturale usati per produrre energia, salgono le royalties versate dai gruppi petroliferi e arriva la web tax sui servizi digitali per le multinazionali di internet.
I balzelli che nel 2020 potrebbero avere un impatto diretto sul bilancio di una famiglia tipo valgono in tutto circa 880 milioni di euro (il 15% degli aggravi totali) di cui 118 dalle accise sui tabacchi e dall’imposta su filtri e cartine e 51 dalla stretta sui buoni pasto cartacei. L’unificazione di Imu e Tasi invece, secondo i tecnici, costerà ai cittadini 14,5 milioni. La voce più pesante è la “tassa sulla fortuna” che riguarda ovviamente solo chi vince al gioco. Questo al netto della stretta sulla flat tax per le partite Iva che comporta 492 milioni di entrate aggiuntive. Dal 2021 inizierà poi a farsi sentire l’effetto della riduzione delle detrazioni fiscali per chi ha redditi alti (si azzereranno oltre i 240mila) e per chi sceglie di pagare in contanti: vale 977 milioni di euro, di cui 110 a carico dei circa 300mila contribuenti che dichiarano più di 120mila euro.
Banche e assicurazioni, plastica e bevande zuccherate, concessionari autostradali – Dagli allegati alla manovra depositati in Parlamento emerge che l’aumento fiscale più corposo è legato allo slittamento della deducibilità di svalutazioni e perdite su crediti di cui godono “enti creditizi e finanziari” – in sostanza banche e compagnie assicurative. A seconda della tipologia, saranno deducibili solo dal 2022, dal 2025 o dal 2028. La stretta vale, nel 2020, 1,6 miliardi. Un intervento simile è previsto anche per i concessionari autostradali: viene limitata all’1% del costo dei beni la deducibilità dalle tasse delle quote di ammortamento, cioè le “rate” in cui viene diviso un investimento che dispiega effetti su più anni, come quelli nelle infrastrutture che gestiscono. Il risultato è un aumento degli imponibili e un maggior gettito per 340 milioni.
Dalla plastic tax di 1 euro al chilo su imballaggi e prodotti monouso in plastica arriverà poi 1 miliardo. Che non dovrebbe pesare sul consumatore finale a meno che i produttori non decidano di aumentare i prezzi: l’impatto, nel caso per esempio delle bottigliette di acqua minerale, si fermerà comunque a 2-3 centesimi di euro. La sugar tax invece, stando alla relazione tecnica, è una “tassa sul consumo di bevande con zuccheri aggiunti” ma colpirà fabbricanti, importatori e acquirenti di prodotti importati. Il gettito atteso è di 233 milioni. Difficile stimare l’impatto sulle tasche del cittadino medio, ma il punto fermo è che l’obiettivo dichiarato del governo è ridurre un consumo dannoso per la salute.
Imposta su partecipazioni e terreni – Ma, andando in ordine di gettito atteso, al terzo posto – ben prima della sugar tax – c’è la rivalutazione (sulla base di una perizia giurata) del valore delle partecipazioni in società non quotate e dei terreni sia agricoli sia edificabili posseduti da persone fisiche e società semplici. Sul valore rideterminato verrà applicata un’imposta sostitutiva dell’11%. Vale oltre 820 milioni di euro di introiti.
Paletti sulla flat tax e stretta sulle auto aziendali – Subito dopo si piazza la stretta sulla flat tax al 15% per le partite Iva con ricavi inferiori a 65mila euro. Sommando il maggior gettito che arriverà da chi esce dal regime agevolato perché ha percepito redditi da lavoro dipendente superiori a 30mila euro o ha pagato più di 20mila euro a collaboratori o dipendenti e dalla cancellazione della prevista estensione della tassa piatta a chi fattura tra 65mila e 100mila euro, lo Stato ci guadagna 492 milioni. Segue, con 330 milioni di euro di gettito previsto, il discusso balzello sulle auto aziendali mirato a rendere meno inquinante la flotta: sale dal 30 al 60% la quota di percorrenza per uso privato tassabile, con l’eccezione delle macchine ibride ed elettriche. Ad essere colpiti sarebbero 1,5 milioni di veicoli, dalle city car e utilitarie che sono il 40% del mercato alle berline che valgono poco più del 20%. La tassa però è nel mirino di Italia viva e potrebbe essere rimodulata durante il passaggio parlamentare per ridurne l’impatto.
Aumenta la tassa sulla fortuna, arriva la web tax – Un’altra voce pesante è la “tassa sulla fortuna” che peserà su chi vince al gioco e si aggiunge agli aumenti del prelievo sui concessionari previsti dal decreto fiscale: sale dal 12 al 15% l’imposta unica sulle vincite superiori a 500 euro sia alla lotteria sia ai “giochi numerici a totalizzatore” che vanno da Superenalotto a Win for life. I ricavi dalle concessioni che saranno messe a gara l’anno prossimo si materializzeranno invece solo nel 2021 e ammonteranno stando alla relazione tecnica a 909 milioni l’anno. Rimanendo in tema di imposte sui big, dall’1 gennaio 2020 si applicherà un’imposta sui servizi digitali del 3% sui ricavi realizzati dai gruppi del web con fatturato globale superiore a 750 milioni di cui almeno 5,5 milioni in Italia. La tassa, che non colpirà i consumatori, vale per il primo anno 108 milioni di euro.
I microbalzelli, dai certificati penali ai diritti consolari – Gli altri microbalzelli previsti dalla legge di Bilancio hanno un impatto minimo: ci sono per esempio l’imposta di bollo di 2,4 euro a foglio per il rilascio di certificati penali, l’incremento dei diritti consolari per i visti per soggiorni di lunga durata (da 116 a 130 euro) e per la domanda di riconoscimento della cittadinanza italiana di persona maggiorenne (da 300 a 600 euro) e l’imposta sulla plusvalenza ottenuta da chi rivende casa entro 5 anni dall’acquisto che passa dal 20% al 26%. Valgono rispettivamente 25, 23 e 19 euro di gettito. Spiccioli nel bilancio dello Stato.

mercoledì 6 novembre 2019

Fmi: anche i Paesi Ue indebitati considerino “espansioni fiscali temporanee”

Fonte: W.S.I. 6 Novembre 2019, di Alberto Battaglia

La crescita europea è destinata a subire un deciso colpo negativo nel 2019: secondo le ultime stime del Fondo monetario internazionale, pubblicate nel Regional economic outlook, il Pil dell’Eurozona crescerà dell’1,4% nel 2019, quasi un punto in meno rispetto a un anno prima, e ripartirà a ritmo cauto, +1,8%, nel 2020. A soffrire di più il rallentamento saranno le economie più avanzate all’interno del blocco (+1,3% nel 2019, +1,5% nel 2020).
Il timore è che le difficoltà del settore manifatturiero, dovute alle tensioni commerciali, possa trasmettersi anche ai servizi, ha scritto il Fmi.
Al cuore del rallentamento c’è proprio la locomotiva tedesca, il cui Pil è previsto in rallentamento allo 0,5% per l’anno in corso e comunque sotto il punto di crescita nel 2020 (0,8%). Ancora una volta, l’appello del Fmi, in continuità con l’era Lagarde, è di coordinare a livello europeo “una risposta fiscale”, che si presuma debba partire proprio dalla spesa pubblica in Germania – un Paese in cui finanze sono fra le più solide. Ma non solo.
Anche i paesi con deficit e debito elevati, si legge nel report, dovrebbero considerare un “ritmo temporaneamente più lento di consolidamento fiscale o un’espansione temporanea” se si materializzeranno gli scenari negativi. E qui il messaggio potrà essere facilmente fatto proprio anche dal governo italiano, intenzionato a strappare dall’Ue quanta più flessibilità di bilancio sia possibile ottenere.
Sulla crescita dell’Italia il Fondo si era espresso già il mese scorso, portando le stime per il Pil del 2019 da una crescita dello 0,1% a zero; nei due anni successivi le previsioni sono di un progresso dello 0,5 e dello 0,8%.
Sul fronte dell’inflazione il Fmi prevede ancora una notevole distanza fra i livelli dei prezzi ritenuti ottimali dalla Bce, vicini ma al di sotto del 2%. Nel 2019 l’inflazione si fermerebbe all’1,2%, per poi salire nei due anni successivi all’1,4 e all’1,5%: se così fosse, difficilmente le politiche monetarie potrebbero spostarsi in senso restrittivo, come auspicato apertamente da vari banchieri del Nord Europa.

lunedì 4 novembre 2019

Svimez, Italia in trappola demografica: popolazione ha smesso di crescere dal 2015

Fonte: W.S.I. 4 Novembre 2019, di Alessandra Caparello

La popolazione dell’Italia ha smesso di crescere dal 2015, da quando continua a calare a ritmi crescenti, soprattutto nel Mezzogiorno e l’esaurimento del lungo periodo di transizione si è tradotto in una vera e propria trappola demografica nella quale una natalità in declino soccombe a una crescente mortalità. Così quanto rivela Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, nel Rapporto 2019.
Crisi demografica ed emigrazioni accentuano il divario Nord e SudLa crisi demografica e le emigrazioni accentuano i divari tra Sud e Centro-Nord dice l’associazione secondo cui dall’inizio del secolo a oggi la popolazione meridionale è cresciuta di soli 81 mila abitanti, a fronte di circa 3.300.000 al Centro-Nord. Nel corso dei prossimi 50 anni, sottolinea il Rapporto Svimez 2019, il Sud perderà 5 milioni di residenti di cui 1,2 milioni sono giovani e 5,3 milioni persone in età da lavoro, mentre il Centro-Nord perderà 1,5 milioni. Secondo l’Associazione inoltre, le immigrazioni contribuiscono ad accentuare gli squilibri tra le due aree del Paese. Nel 2018 gli stranieri con 4,4 milioni, sono quasi l’11% della popolazione del Centro-Nord e solo il 4,4% di quella meridionale.
Il Pil italiano, ipotizzando una invarianza del tasso di produttività, diminuirebbe nei prossimi 47 anni a livello nazionale da un minimo del 13% ad un massimo del 44,8%, cali di intensità differenti interesserebbero il Nord e il Sud del Paese: si ridurrebbero così le risorse per finanziare una spesa pubblica in aumento per il maggior numero di pensioni e per l’assistenza sociale e sanitaria.
Giovani continuano a fuggireIl Sud inoltre, dice il Rapporto, continua a perdere giovani, fino a 14 anni (-1.046 mila) e la popolazione attiva in età da lavoro da 15 a 64 anni (-5.095 mila) per il calo delle nascite e la continua perdita migratoria. Il saldo migratorio verso l’estero ha raggiunto i -50mila nel Centro-Nord e i -22 mila nel Sud. Dall’inizio del nuovo secolo hanno lasciato il Mezzogiorno 2.015 mila residenti, la metà giovani fino a 34 anni, quasi un quinto laureati. Un’alternativa all’emigrazione è il pendolarismo di lungo periodo, che nel 2018 dal Mezzogiorno ha interessato circa 236 mila persone (10,3% del totale).
La riapertura del divario Centro-Nord Mezzogiorno, continua l’associazione, riguarda i consumi, soprattutto della PA. Nel dettaglio i consumi (+0,2%) sono ancora al di sotto di -9 punti percentuali nei confronti del 2018, rispetto al Centro-Nord, dove crescono del +0,7%, recuperando e superando i livelli pre crisi. Ma sono gli investimenti la componente più dinamica della domanda interna (+3,1% nel 2018 nel Mezzogiorno, a fronte di +3,5% del Centro-Nord). In particolare, crescono gli investimenti in costruzioni (+5,3%), mentre si sono fermati quelli in macchinari e attrezzature (+0,1% contro +4,8% del Centro-Nord).
Le previsioni macroeconomiche della SVIMEZ stimano il Pil italiano a +0,9% nel 2018, + 0,2% nel 2019 e +0,6% nel 2020. In particolare, il Centro-Nord sarebbe al +0,9% nel 2018, al +0,3% nel 2019, al +0,7% nel 2020. Una crescita, come si può vedere, molto modesta anche nelle aree più sviluppate del Paese. Al Sud nel 2018 l’aumento sarebbe del +0,6%, calerebbe a -0,2% nel 2019 e risalirebbe leggermente a +0,2% nel 2020.

sabato 2 novembre 2019

World Vegan Day, perché siamo tutti destinati a non mangiare più carne

Fonte: Il Fatto Quotidiano Ambiente & Veleni - 1 Novembre 2019 Elisabetta Ambrosi
Il motivo principale per cui uomini di tutte le epoche storiche, tra cui moltissime persone religiose e cristiane, hanno deciso di diventare vegetariani o vegani è stato quasi sempre il rispetto per l’esistenza degli altri esseri viventi e il rifiuto della violenza su esseri inermi come gli animali. Una ragione etica che continua ad avere una sua immensa validità, visto che oggi si continuano a uccidere 150 miliardi di animali all’anno – di cui 53 miliardi di polli e 1,3 di suini – nelle maniere più brutali e allucinanti, nel silenzio dei media.
Silenzio anche dovuto al fatto che gli allevamenti intensivi sono luoghi ipercontrollati, dove stampa e tv non possono mettere piede perché chi vede cosa accade in quei posti quasi sempre resta scioccato e decide di cambiare alimentazione. Diventando così una persona certamente più coerente, visto che non è tale chi ama alcuni animali domestici come se stesso (cosa bellissima) e al contempo accetta di mangiarne altri che vivono e muoiono in condizioni disumane.
Ma oggi il rispetto degli animali non è più il solo motivo per cui si diventa vegani. A un motivo altruistico se n’è aggiunto uno più egoistico, ovvero la voglia di essere in salute, visto che una dieta basata quasi esclusivamente su proteine vegetali è in assoluto, secondo la scienza, la più salubre a disposizione. Così, anche vip e persone note hanno cominciato a scegliere diete vegetariane o vegane, magari basando la decisione unicamente sul desiderio di stare bene e senza alcun interesse verso la sofferenza animale.
Va comunque benissimo, l’importante è il risultato: meno animali uccisi in modi barbari, meno gente che si ammala per patologie cardiovascolari, tumori e altre malattie, con conseguenti costi umani e sanitari. E comunque sono in molti ad aver sposato una visione mista, dove la voglia di stare in salute si unisce all’idea di fare del bene agli animali. Ma oggi c’è un terzo motivo per cui essere vegani diventa sempre di più qualcosa di lontano da una scelta estremista o di nicchia: ovvero la sopravvivenza del nostro ecosistema.
È ampiamente dimostrato che la carne rossa è insostenibile per quattro motivi: non esiste terreno sufficiente per allevare gli animali e soprattutto produrre il loro mangime da un lato e cereali per noi; i bovini emettono quantità impressionanti di gas serra, in particolare metano, dannosissime per l’ambiente; gli escrementi di questi miliardi di animali finiscono in acqua e mari; e non da ultimo, per produrre carne occorre una quantità di acqua che non abbiamo più a disposizione, se è vero che solo per un kg di carne bovina servono 15mila litri di acqua. Questi danni riguardano tutta la filiera, partendo dalla carne rossa, suina, poi carne bianca come tacchino o pollo e infine anche i prodotti derivati, come uova e latticini.
E dunque oggi – e vale la pena ricordarlo visto che è il World Vegan Day – ci troviamo di fronte a una strada, quella verso un’alimentazione sempre più vegana, che è quasi tracciata per tutti. Resta il motivo della protezione degli animali: non si può accarezzare un gattino e macellare una mucca; resta la questione della salute – dare a un bambino pane e salame è quanto di peggio possa esistere per la sua salute; ma c’è soprattutto la questione della nostra stessa esistenza.
E in questo senso davvero la scelta di una dieta vegana, o quasi vegana, non ha più nulla di ideologico, se mai lo avesse avuto. Ma è una vera e urgente necessità. Anche perché in futuro alcuni cibi estremamente idrovori non potranno più essere prodotti. D’altronde, se la situazione degenera dal punto di vista climatico, è possibile persino che i governi facciano leggi che impongano alla gente di mangiare meno carne o non mangiarne affatto, proprio come oggi si tassano merendine e zuccheri.
Sarebbe però auspicabile non arrivare all’imposizione dall’alto, ma semplicemente decidere da sé di ridurre drasticamente le proteine animali nel proprio piatto. Anche per scoprire che non c’è nulla da perdere nel gusto e nel piacere di mangiare. E che è molto più facile di quanto non ci si immagini. Facile, intelligente, salubre, rispettoso della vita altrui e compatibile con la sopravvivenza dell’uomo sulla terra. Cosa aspettate a cambiare?

mercoledì 30 ottobre 2019

Ue, 15 anni di Costituzione Europea. E non c’è nulla da festeggiare

Fonte: Il Fatto Quotidiano Zonaeuro - 29 Ottobre 2019 Diego Fusaro
Sono passati esattamente quindici anni da quando è nata la Costituzione europea. Eppure, a giudizio dello scrivente, vi è ben poco da festeggiare. Senza esagerazioni, lo si dovrebbe considerare un giorno di lutto nazionale in ogni Paese del vecchio continente. Come ho cercato di mostrare nel mio recente studio, scritto con Silvio Bolognini e intitolato Il nichilismo dell’Unione Europea, l’Unione europea corrisponde, per sua essenza, alla ristrutturazione verticistica del potere nel quadro post-1989.
È, in sintesi, l’unione delle classi dominanti d’Europa contro le classi lavoratrici e i popoli europei mediante quello che è stato a ragion veduta definito l’euro experiment. Con le grammatiche del Marx del Discorso sul libero scambio (1848), la classe dominante procedeva ancora una volta a “indicare con il nome di fratellanza universale lo sfruttamento nella sua forma cosmopolitica”.
L’Unione europea, in quanto realtà della Europe in the global age, secondo la formula di Anthony Giddens, è l’emblema dello spirito della globalizzazione cosmomercatista come vittoria della classe dominante liquido-finanziaria. Non ci protegge dai drammi del globalismo, ma li favorisce in tutto il territorio europeo: genera quella che ho definito la “glebalizzazione” (confronta Glebalizzazione. La lotta di classe al tempo del populismo, 2019), ossia l’abbassamento generale delle condizioni di vita e di lavoro dei ceti nazionali-popolari.
L’Unione europea corrisponde, allora, a una controrivoluzione neoliberista: è la rivolta dell’aristocrazia finanziaria, passata all’offensiva nel nuovo, e per essa favorevole, diagramma dei rapporti di forza successivo all’annus horribilis del 1989. Con la fondazione dell’Unione europea, si è prodotta la cessione delle sovranità nazionali dei popoli: le quali non sono state recuperate a un più alto livello, ossia come nuova sovranità del popolo europeo unificato. Sono, invece, state cedute a un ente privato, post-nazionale e non democraticamente eletto, rispondente al nome di Banca centrale europea (Bce, un soggetto sovrano, extra-nazionale, privato e sottratto anche alle procedure della democrazia elettiva.
In altri termini, secondo quella che è stata etichettata come the retreat of the State, il governo di Roma e quello di Parigi, quello di Madrid e quello di Berlino hanno ceduto la propria sovranità, anzitutto quella monetaria, a una società privata, la Bce, emanazione diretta della classe globocratica dominante. Quest’ultima, grazie al suo monopolio dei mezzi di informazione, è altresì riuscita a fare in modo che ciò, nell’immaginario collettivo, coincidesse con la “democrazia” e che, di conseguenza, ogni movimento orientato al recupero della sovranità nazionale fosse aprioricamente delegittimato come antidemocratico e parafascista, nell’apice dell’inversione orwelliana tra parole e cose. È la “Matrix europea”, come l’ha appellata Francesco Amodeo.
“L’euro è irreversibile”, ripetono gli euroinomani, ogni giorno più numerosi: perfino Matteo Salvini s’è recentemente scoperto adepto dell’europeisticamente corretto. Dalla struttura stessa della Ue sono scaturiti tanto il deficit democratico strutturale (e non accidentale, né transeunte) dell’Unione europea, quanto il suo neocolonialismo finanziario, che decide della vita e della morte dei popoli degli Stati europei. Stati che – giova rammentarlo – hanno rinunziato alla propria sovranità monetaria, senza che si ricorresse alla “estetica dei supplizi”, come l’avrebbe appellata il Michel Foucault di Sorvegliare e punire, connessa alle bombe e ai carri armati.
Complici i processi di desovranizzazione organizzata, le politiche economiche e il futuro dei popoli europei sono ora decisi da consigli di amministrazione. Su queste basi poggia anche quella che vorremmo definire, senza perifrasi edulcoranti, l’irriformabilità dell’Unione europea: irriformabilità che deriva more geometrico dal fatto che non si può, “per la contradizion che nol consente”, riformare e ridemocratizzare uno spazio che è stato pensato e creato ad hoc per svuotare le democrazie europee, ponendo i processi decisionali nelle stanze chiuse e postdemocratiche dell’aristocrazia finanziaria.
Insomma, non v’è davvero nulla da festeggiare. A meno che, ovviamente, non si sia membri della classe dominante, dell’aristocrazia finanziaria che comanda nell’Unione europea.

martedì 29 ottobre 2019

un occasione mancata...

il Safer Internet Day: (Giornata per una rete più sicura in italiano) è una giornata internazionale di sensibilizzazione per i rischi che comporta utilizzare internet istituita nel 2004 dall'Unione europea (Fonte Wikipedia).
Interessante e giusto, vero? La difesa dei ragazzi e il rendere la rete sicura: ecco gli obiettivi. In realtà manca una cosa: il mercato. Già perchè è il mercato o meglio quel che c'è dietro esso a rendere la rete insicura e i nostri giovani prede della rete e dell'ideologia che l'ha ormai invasa loro malgrado.
Ma prima di tutto è meglio dire come la penso (soprattutto per evitare che qualche solone mi categorizzi con qualche 'ismo', la cosa mi diverte lo confesso): non sono un regolatore né un sostenitore della protezione degli imberbi a tutti i costi; anche perchè non credo che la maggioranza di essi lo siano davvero... imberbi.
In questo paese la rete posso dire che l'ho vista nascere: comprai il primo modem a 9.600 kbps nel 1995 per poi passare ai 14.400 e ai 56.000 kbps in pochi anni..... ero e sono un sostenitore della sua terzietà rispetto a chi la usa: non credo che sia colpa della 'rete' per molti dei problemi che da: è il suo uso da parte nostra e delle nostre strutture (Stati, società, ecc,) che li crea non la struttura stessa; anzi sostengo che la rete debba restare libera e incontrollata da Stati e società commerciali. E qui cade l'asino.. gli Stati per definizione non possono accettare che ci sia un ambito che non possono controllare, usare pro domo propria (leggi attacchi informatici ripetuti che sono definiti come negativi se a farli sono cinesi, nord-coreani, e altri cattivoni e positivi se a farlo sono le cosiddette 'democrazie'), regolare ecc. e idem vale per le società: senza l'ideologia mercatara esse sarebbero spesso poco rilevanti e anche noiose e invece.. invece oggi le società la rete non solo l'hanno invasa ma l'hanno pure pervasa di sé rendendola spesso un luogo maleodorante pieno di frustrati, 'cool hunter', ecc. dove tutto è domanda e tutto è offerta: dalla pedofilia alla pubblicità; perfino la politica risponde a questa visione e ne è permeata, anzi ne è difensore strenuo. Il merito di aver scoperchiato la grande potenzialità delle rete va a Grillo ed è giusto che gli si renda merito, sia chiaro. Se non ci fosse stato lui non avremmo mai saputo delle magagne telecom ad esempio.. e se non ci fossero stati i ragazzi di wikileaks non avremmo mai sauto dello schifo di cui gli Stati, democrazie comprese, sono capaci e gli dovremmo essere grati anche per scoperchiato il vaso di pandora della paranoia di cui sono capaci pur di mantenere il cosiddetto 'segreto', capaci di uccidere ben sapendo di farlo; creando mostri (Bin Laden era un fondamentalista addestrato dagli americani per combattere i russi, per fare un nome.. ma ce ne sono altri: Saddam, Gheddafi sono altri ottimi esempi); creando virus che distruggono impianti; ecc. ecc. insomma oggi larete ha davvero bisogno di essere resa sicura e libera: ma dagli Stati e dalle multinazionali e, soprattutto, dal mercato.
Ben vengano i safer internet day, quindi.. ma servano sul serio a far pulizia non ad essere inutili date su un calendario.

lunedì 28 ottobre 2019

.. e se non fosse chiaro

Oggi l'Umbria l'ha detto chiaro e forte: basta con i giochini, i bizantinismi, gli accordini ecc. gli italiani sono stufi di tutto ciò; vogliono chiarezza e progetti e sono pronti a votare per chiunque li prospetti solo. Ci si è fidati dei PDS prima e di Ulivo poi (meglio nota come destra economica); e poi della destra berlusconiana (destra populista) e ora dei 5 stelle perchè, tutti almeno all'inizio, avevano seriamente e ragionevolmente voglia di fare e disfare.. nei limiti del possibile e, soprattutto, dell'innato conservatorismo che ha una società anziana incarognita e incattivita dal liberismo individualista che ha distrutto, con un processo iniziato sotto il fascismo e rallentato dai 70 anni di ombrello nucleare di distruzione reciproca e ripresa con la caduta del muro di Berlino, quel poco di tessuto culturale che si era creato. Hanno voglia a far ingoiare riforme/fregatura e avventure finanziarie che gettano discredito su tutti. Il bello è che ci sono dei fessi che ancora credono al messaggio europeista e sostengono l'idea che noi 'dobbiamo' rispettare le cose che altri non rispettano... nemmeno è bastato il commissario tedesco che disse 'saranno i mercati a insegnare agli italiani come si vota': ebbene l'hanno fatto; hanno votato dimostrando che davvero hanno imparato dai mercati come e chi votare'. E se non fosse chiaro il messaggio è sempre bene ripeterlo: siamo stufi di un europa: della finanza; delle banche; della politica sottomessa ai soldi; delle élite che si accordano per rimanere come sono a scapito del destino dei popoli di cui sono espressione; ecc. ecc. e se fosse necessario, lo dico da persona di sinistra quale mi onoro di essere nonostante tutto (anche se ormai in un mondo dove il pensiero debole la fa da padrone) e tutti (citando parafrasandolo Brezinsky) voterei per il diavolo pur di levarmi dai cosiddetti sti.. europei e i loro giannizzeri locali.
SI TORNI A VOTARE!!!!

mercoledì 23 ottobre 2019

Venere era simile alla Terra. Il clima di un pianeta cambia: per questo dobbiamo attrezzarci

Fonte: Il Fatto Quotidiano Scienza - 23 Ottobre 2019 Andrea Aparo von Flüe

Ci sono notizie che, per quanto interessanti, è opportuno lasciare decantare per evitare che qualsiasi cosa si dica venga fraintesa, perché il tempo è sbagliato. Facciamo riferimento a quanto raccontato un paio di settimane fa a proposito di Venere e di come in un tempo passato, lontano ma reale, possa avere avuto atmosfera, clima e meteorologia molto simile a quella della Terra di oggi. Venere, unico pianeta con un nome femminile. Ha una massa che è circa l’80% di quella terrestre e un diametro pari al 95%. Di fatto è il gemello diverso della Terra.
Diverso perché è l’unico pianeta del sistema solare ad avere un’orbita quasi perfettamente circolare e impiega 225 giorni a completarla. Ruota molto lentamente su se stesso, in senso orario, opposto a quello della Terra e dunque produce uno scudo magnetico debole. Un giorno su Venere è pari a 243 giorni terrestri. Ruota in direzione opposta a quella della sua orbita e quindi passano 117 giorni fra quando il sole sorge a ovest e tramonta a est.
Non ha stagioni perché il suo asse di rotazione è quasi verticale e le sue notti non hanno luna perché, come Mercurio, è sprovvisto di satelliti. Ha una struttura geologica simile a quella della Terra, con una crosta basaltica – una singola placca tettonica spessa un centinaio di chilometri di roccia dalle mille sfumature di grigio illuminate da una luce arancione, sottoposta a una pressione che è 90 volte quella terrestre e una temperatura superficiale pari a 460 gradi centigradi – un mantello e un nucleo ferrosi di circa 300 km di diametro.
Possiede vulcani attivi, montagne alte 17 chilometri. L’alta temperatura al suolo è dovuta alla vicinanza al Sole e all’effetto serra dei gas che compongono la sua atmosfera: anidride carbonica e nuvole di acido solforico spinte da venti che le fanno viaggiare alla velocità media di 3760 chilometri all’ora. Un inferno decisamente inospitale.
C’è stato un tempo però, più o meno 3 miliardi di anni fa, quando Venere era un paradiso. C’erano mari e oceani, fiumi e laghi e una temperatura superficiale compresa fra i 20 e i 50 gradi centigradi. Dello stesso ordine di grandezza di quella della nostra Terra oggi.
Secondo i risultati delle simulazioni elaborate da Michael Way e Anthony Del Genio del Goddard Institute for Space Science della Nasa, pubblicate a fine settembre scorso, per miliardi di anni Venere ha goduto di un clima stabile, che può avere consentito lo sviluppo di forme di vita. Poi circa 700-750 milioni di anni fa è accaduto qualcosa, o una serie di eventi concatenati, che hanno distrutto tutto.
Il Sole, invecchiando, diventa sempre più caldo. Può avere arrostito Venere. Può esserci stata un’attività vulcanica ed eruttiva parossistica, dove l’anidride carbonica e altri gas a effetto serra rilasciati dal magma hanno riempito l’atmosfera. Il rapido raffreddamento della lava non consentì all’anidride carbonica di essere riassorbita, innescando un effetto serra letale.
Perché non parlarne prima? Perché pochi avrebbero ascoltato e molti avrebbero usato l’informazione a proprio vantaggio. Erano i giorni di Greta Thunberg che parla alle Nazioni Unite, di Donald Trump che twitteggia, garrulo, pallido e assorto, le sue sciocchezze; dello scontro senza dialogo fra negazionisti e fondamentalisti del cambiamento climatico. Chissà se 750 milioni di anni fa è accaduto lo stesso su Venere.
Decisori venusiani certi che nulla sarebbe mai cambiato, visto che nulla era cambiato per 3 miliardi di anni, a cui gli scienziati locali mostravano inutilmente dati, modelli, simulazioni che evidenziano un cambiamento in atto. Zittiti perché non sanno quali ne siano le cause: naturali, artificiali, forse entrambe le cose. Tutti comunque maltrattati da una ragazzina, sempre venusiana, più derisa che ascoltata, che dice con voce forte e chiara che il re è nudo.
Allora come oggi, la fisica è la stessa. Allora come oggi nessuno può ragionevolmente negare che, in un sistema altamente complesso, qual è l’interazione fra geo-, atmo-, idro- e biosfera, tutti i fenomeni sono di tipo esponenziale e sottoposti a dinamiche di non equilibrio che permettono al sistema di evolvere, anche in modi quasi istantanei, in configurazioni catastrofiche, altamente improbabili, ma possibili perché già avvenute in passato. Vedi l’ultimo periodo glaciale, iniziato 110mila anni fa e terminato circa 10mila anni fa a causa di 192 anni – un niente – di eruzioni vulcaniche in Antartide.
Eppure c’è chi nega. C’è chi crede, perché si tratta di teologia e non di scienza, che quanto stia accadendo sia “causato” dagli uomini e che un opportuno intervento di segno opposto possa rimettere, linearmente, le cose a posto. Tutta responsabilità della CO2. Basta ridurla, eliminarla – dicono con la solita arroganza del genere umano – e il gioco è fatto.
Esiste invece la seria possibilità che l’attuale fase del cambiamento climatico, perché il clima cambia continuamente e da sempre, sia innescata e alimentata da fenomeni naturali di cui non abbiamo nessun controllo: variazione dell’irraggiamento solare, circolazione dei venti e delle correnti oceaniche, ventilazione degli oceani profondi, attività vulcaniche, modifica della composizione dell’atmosfera. Lista del tutto parziale.
L’attività dell’uomo può agire da catalizzatore, accelerando le conseguenze di tali fenomeni. Non è detto che interrompendola vengano rallentati o modificati. Comunque sia, qualcosa è in atto. Non importa quale sia la causa, o le cause. Comunque dobbiamo attrezzarci per affrontare le conseguenze. Siamo tutti sulla stessa barca. Le attuali politiche ed equilibri geo-economici hanno fatto il loro tempo. Servono nuove istituzioni di decisione e governo internazionale.
Una nuova coscienza democratica. Conoscenza, responsabilità, non chiamarsi fuori. Serve un’etica innovativa. Invece stiamo a menare il can per l’aia, certi di avere chissà quanto tempo a disposizione. Certezza che altro non è se non una pericolosa, criminale, sciocchezza.

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