domenica 23 dicembre 2018

Vi dico che cosa penso della manovra modificata. L’articolo del ministro Savona

Fonte: startmag
di

“Ripristinare la supremazia della politica sulle soluzioni tecniche è il compito che ci attende in Italia e in Europa. Se si accetta l’opposto, la situazione può sfuggire di mano”. L’articolo del ministro degli Affari europei, Paolo Savona

La politica si nutre di realismo e l’accordo raggiunto con la Commissione europea porta chiara questa impronta; ma una politica che non sia ispirata da una politeia, una forma condivisa di organizzazione del bene comune, non ha lunga vita. In assenza di una istituzione monetaria dotata di poteri e volontà di svolgere le funzioni di lender of last resort contro la speculazione – protezione che in questi mesi ho insistentemente cercato – la realtà ha fatto premio sulle esigenze del Paese, che erano e restano quelle di garantire una crescita capace di ridurre la disoccupazione e la povertà e impedire il regresso del benessere dei cittadini.
Il governo ha retto nel difendere il minimo necessario per riaprire l’offerta di lavoro, soprattutto ai giovani, e combattere la povertà, mentre l’Unione europea non ha mostrato d’essere sensibile al primo anello di questa ineludibile catena di relazioni; la parola crescita appare solo nel dato statistico che indica una diminuzione del Pil preventivato dall’1,5 all’1%, fermo sui valori del 2018. Dati i vincoli, con la trattativa nulla di più si poteva ottenere, ma già questo dato richiede che l’azione di governo si concentri sul duplice obiettivo di riavviare gli investimenti, che restano lo strumento indispensabile per ostacolare la congiuntura negativa e non aggravare i ritardi di crescita accumulati, e di definire una politeia che restituisca prospettive di crescita all’Italia e di stabilità all’Unione europea.
I due obiettivi sono complementari ed è perciò che gli investimenti aggiuntivi non possono se non essere privati, salvo raggiungere uno specifico accordo europeo che escluda quelli pubblici dai parametri fiscali o rilanci la domanda aggregata a livello comunitario, mobilitando gli ingenti surplus di bilancia estera esistenti.
Una valutazione cautelativa suggerisce che nel corso del 2019 gli investimenti in Italia non possano essere inferiori all’1% del Pil, se si vuole raggiungere la crescita reale prevista; meglio se si raggiunge il 2%, se si vuole mettere il Paese in sicurezza dagli attacchi speculativi. Infatti la crescita del primo semestre sarà prossima a zero e gli effetti provenienti dai maggiori investimenti potrebbero ragionevolmente esplicarsi solo nel secondo semestre. Così facendo il rapporto debito pubblico/Pil, quello che maggiormente preoccupa i mercati e la stessa Commissione europea, riuscirebbe a mantenersi sia pure lievemente su una linea discendente nella prima ipotesi e ridursi ancor più nella seconda; se non accadesse, il quadro di riferimento della politica economica del Governo cambierebbe, per giunta in un contesto europeo di difficoltà decisionali (dalle elezioni al rinnovo dei principali incarichi).
La riunione tenutasi a Palazzo Chigi poche settimane orsono con le principali aziende partecipate dallo Stato e le informazioni di seguito raccolte consentono di affermare che esistono programmi di investimento di importo superiore a quello indispensabile per mettere in sicurezza dalle circostanze avverse la nostra crescita e la finanza pubblica. Il nuovo vertice della Cassa Depositi e Prestiti ha annunciato che le previsioni riguardanti le sue partecipate e i suoi stessi investimenti indicano possibile raggiungere i 200 miliardi di euro per il triennio 2019-2021. Queste iniziative, tuttavia, richiedono che vengano sbloccati piccoli o grandi intoppi che si frappongono alla loro realizzazione che, per alcuni aspetti, sono comuni agli investimenti pubblici ma, per altri, presentano specificità che vanno tenute in prioritaria considerazione nelle scelte del governo e del Parlamento. A tal fine si avverte la necessità di un Commissario ad acta.
La cintura di sicurezza che l’Italia sarà in condizione di attuare con le sue forze non basterà per portare il Paese fuori dalla crisi iniziata nel 2008. L’Ue deve sbloccare i vincoli che pone all’uso degli strumenti di politica economica ampliando i contenuti della sua funzione di utilità basata sulla stabilità, assegnando un peso anche alla crescita, dotandola di strumenti adeguati. Questa esigenza non è solo frutto di una visione positiva del futuro dell’Unione, ma delle divergenze di benessere socio-economico ereditate e di quelle frutto delle sue stesse istituzioni e delle politiche seguite. La necessità di una siffatta integrazione è attualmente molto sentita, tanto da indurre leader politici e opinionisti a chiedere con sempre maggiore insistenza non solo le riforme per i paesi membri, ma per la stessa Unione. Il presidente della Bce Draghi, nel discorso pronunciato recentemente a Pisa, ha dichiarato che l’Unione Monetaria è “incompleta”.
Non è un mistero che la divergenza tra le diverse concezioni dell’Ue è nei contenuti da dare all’incompletezza da rimuovere. Perciò ho chiesto a nome del governo di discuterne nell’ambito europeo di un Gruppo ad alto livello che analizzi la problematica; salvo eccezioni, si è finora fatto finta di non capire che l’invito rivolto era quello di interrompere la stretta relazione, indegna della convivenza democratica, tra la componente speculativa del mercato finanziario e le politiche scelte dai governi e parlamenti; l’Unione utilizza questa relazione per costringere i Paesi membri a seguire riforme che considera “risolutive” delle divergenze, che la realtà ancor prima della logica economica non ha asseverato, come dimostra il peggioramento della distribuzione del reddito intraeuropeo che mina l’intera costruzione comunitaria.
La messa in sicurezza dalla speculazione dei debiti sovrani da parte delle autorità europee rientra tra i doveri di sussidiarietà nascenti dai Trattati. Essa richiede una collaborazione con gli Stati membri che patiscono questa situazione, rinunciando tuttavia all’idea che questa sicurezza possa essere raggiunta perseguendo per decenni politiche deflazionistiche. Si possono individuare tecniche che consentono di farlo, evitando che i debiti di un Paese vengano messi a carico degli altri.
La soluzione del problema investe anche il tema continuamente invocato della protezione del risparmio che non si ottiene solo con norme adatte, ma diffondendo fiducia in chi possiede obbligazioni. A furia di insistere a livello ufficiale che esiste un problema di debito pubblico invece di indicare una soluzione – un cattivo vizio che si è molto diffuso – si è minata questa fiducia. Per chi ha investito i risparmi in titoli di Stato, questi sono ricchezza e la fondatezza di questo convincimento dipende anche dalla qualità della politica; ripristinare la supremazia della politica sulle soluzioni tecniche è il compito che ci attende in Italia e in Europa. Se si accetta l’opposto, la situazione può sfuggire di mano.

(articolo pubblicato da Milano Finanza)

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BUONE FESTE!
CI RISENTIAMO L'8 GENNAIO

giovedì 20 dicembre 2018

Manovra: malumori nel governo. Pesa mina dell’IVA

Fonte: W.S.I. 20 dicembre 2018, di Alessandra Caparello

Aria di tempesta all’interno del governo. A fiutare malumori l’ex premier Silvio Berlusconi che, come rivela oggi l’Agi, avrebbe riunito i suoi confidandogli i suoi piani.
Ci mancano 6-8 voti al Senato e sarà ribaltone, stiamo portando avanti i contatti con i 5 stelle responsabili, presto ci saranno delle novità.
Berlusconi è convinto che l’esecutivo cadrà entro gennaio. Non c’è alcuna nuvola all’orizzonte per il governo. Così il vicepremier Luigi Di Maio risponde a chi sottolinea come l’impegno sulla manovra, culminato con la decisione da parte della Commissione europea di non procedere ad aprire alcuna infrazione, abbia minato la coalizione Lega-Cinque Stelle. Il vicepremier Luigi Di Maio ha sottolineato che il governo continuerà il suo programma di riforme e che inizierà a lavorare, a gennaio, per tagliare il numero di parlamentari.
Sia Di Maio che Salvini ieri hanno espresso molta soddisfazione sull’esito della trattativa con Bruxelles che per il momento evita di aprire una procedura di infrazione contro il nostro paese.
Desidero esprimere un sentito ringraziamento a tutti voi, di maggioranza e di opposizione, per la comprensione di questi giorni durante i quali l’iter della manovra ha proceduto con lentezza scontando ritardo con tempi previsti. Rinvii non causati da incertezze interne al governo: il rallentamento è stata l’inevitabile compressione a causa complessa interlocuzione con l’Ue alla quale abbiamo dedicato le nostre più risolute energie e impegno”.
Così il premier Giuseppe Conte riferendo in Parlamento.
“In queste settimane abbiamo lavorato per avvicinare le posizioni senza mai arretrare rispetto agli obiettivi che ci hanno dato gli italiani con il voto del 4 marzo  (…) Non abbiamo ceduto sui contenuti della manovra”.
Il premier si riferisce ai due cavalli di battaglia fatti da Lega e Cinque Stelle durante la campagna elettorale, ossia quota 100 e reddito di cittadinanza ma a ben vedere per soddisfare le promesse elettorali si introducono tagli e nuovi balzelli. A preoccupare maggiormente l’aumento Iva per il 2020 e il 2021. Nella sostanza l’aliquota ridotta del 10% passerebbe dal 2020 al 13% mentre l’aliquota al 22% passerebbe nel 2020 al 25,2% e nel 2021 al 26,5%.A conti fatti il prezzo pagato dal governo giallo-verde è di 4,6 miliardi di euro per il rinvio e la rimodulazione del reddito di cittadinanza e di quota 100 sulle pensioni a cui si aggiungono 4,2 miliardi di tagli agli investimenti e 450 milioni per l’aumento delle tasse su scommesse e gioco d’azzardo.
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per un quadro più chiaro sulle singole materie (con annessa lettera del Governo alla Commissione Europea) leggete quest'articolo su Il Fatto Quotidiano con quest'articolo:
Manovra, tutte le modifiche: dalle clausole di salvaguardia Iva ai 577 milioni di risparmi sulle pensioni alte

mercoledì 19 dicembre 2018

Economist elegge il “Paese dell’anno” per il 2018

Fonte: W.S.I. 19 dicembre 2018, di Alberto Battaglia

La storia più recente ha mostrato che essere incoronati dall’Economist come “Paese dell’anno”, un riconoscimento assegnato alla nazione che ha visto il maggior progresso economico o sociale, può anche portare sfortuna. L’anno scorso le lodi andarono alla Francia, premiata per aver respinto il populismo di Marine Le Pen ed eletto il potenziale “salvatore d’Europa”, Emmanuel Macron. Un anno dopo l’alloro della rivista britannica, i gilet gialli hanno segnato il punto più basso del declino che il presidente francese ha riscontrato molto presto nei consensi. In una certa misura, il populismo può perdere alle elezioni, ma ciò, di per sé, non cancella le condizioni economico-sociali che lo alimentano. E Macron, dal canto suo non ha dato risposte sufficienti a quella realtà.

Ancor più drammatici si sono rivelati gli sviluppi per il vincitore del 2015, la Birmania, che non molti mesi più tardi ha attirato l’attenzione di tutto il mondo per i, genocidio dei Rohingya, fuggiti in massa (si parla di almeno 720mila persone) verso il vicino Bangladesh. Una definizione, quella del genocidio, che non è arbitraria, bensì quella riconosciuta dal Tribunale internazionale permanente dei popoli.

Quest’anno l’Economist ha accarezzato l’idea di eleggere il proprio Paese, il Regno Unito, per offrire un monito sul fatto che rovinare politicamente una nazione è un compito dannatamente facile. “Persino un paese ricco, pacifico e apparentemente stabile può incendiare distrattamente le sue disposizioni costituzionali senza alcun serio piano su come sostituirle”, ha scritto il newspaper sul caso Brexit. Nonostante questo, il miglior esempio di progresso nel 2018 non proviene da Londra, ma da un Paese assai più piccolo e dalla storia travagliata l’Armenia. Un esempio, scrive l’Economist, di come in  rari casi anche le autocrazie possano svanire pacificamente.

“Il presidente, Serzh Sargsyan, ha cercato eludere i limiti di tempo del mandato trasformandosi in un primo ministro esecutivo. Le strade sono scoppiate in segno di protesta”, ha sintetizzato la rivista, “Nikol Pashinyan, un ex giornalista carismatico e barbuto, è stato trascinato al potere, legalmente e correttamente, in un’ondata di repulsione contro la corruzione e l’incompetenza”. Ed è così che un sostenitore di Putin, chiosa il giornale, è stato espulso senza che nessuno si sia fatto male. Non resta che sperare che, questa volta, alle lodi non seguano inaspettate sfortune.

martedì 18 dicembre 2018

“Correzione epica a Wall Street, sarà peggio del 1929″

Fonte: W.S.I. 17 dicembre 2018, di Mariangela Tessa

Si susseguono gli allarmi sul futuro del mercato azionario. Dopo che la Bri ha detto ieri che nuovi shock non sono esclusi nei prossimi mesi, anche Ron Paul, politico statunitense, esponente della corrente libertaria del Partito Repubblicano, ha avvertito che le correzioni di quest’anno potrebbero essere solo un assaggio di un crollo epico del mercato, che potrebbe verificarsi prima delle attese degli investitori.
Secondo il politico americano, Wall Street sta diventando più vulnerabile e nei prossimi 12 mesi non si vede nulla di buono. I segnali sono già arrivati: la scorsa settimana la Borsa americana è infatti ufficialmente entrata in fase di correzione per la prima volta da due anni.
“Una volta che questa volatilità dimostrerà di non essere solo una  pausa nel mercato rialzista, allora  gli investitori correranno verso l’uscita”, ha detto Paul intervistato alla CNBC, aggiungendo che quello che può succedere a Wall Street nei prossimi mesi “potrebbe essere peggiore del 1929″.
Durante quell’anno, il mercato azionario ha segnato una correzione di quasi il 90% mentre l’economia americana andava a picco.
Paul, che cita la guerra commerciale USA-Cina in corso come un fattore di rischio in crescita, ha spiegato che il suo scenario base è di un calo del 50% rispetto ai livelli attuali.
“Non sono ottimista sulla soluzione della guerra dei dazi. Penso che il problema si potrarrá anche nel futuro
Oltre alla guerra dei dazi, Paul cita tra le ragioni alla base delle sue previsioni la fine delle politiche monetarie espansive intraprese dopo la crisi finanziaria del 2008.
L’allentamento quantitativo della Federal Reserve ha causato la “bolla più grande nella storia dell’umanità” ha sottolineato l’ex membro del Congresso.
Paul crede inoltre che i legislatori di Washington non abbiano la capacità di risolvere in modo efficace il problema del debito, che quest’anno salirà fino alla cifra record di 1,09 trilioni di dollari.

lunedì 17 dicembre 2018

Clima, Cop24: Terra e scienza sconfitte dagli Usa e altri produttori di greggio. “Entro questo secolo, 3-4 gradi in più”

Fonte: Il Fatto Quotidiano di | 17 dicembre 2018
Hanno perso i cittadini e il pianeta, ma dalla Cop24 esce al momento sconfitta anche la scienza. La conferenza internazionale sul clima si è chiusa infatti con un documento che rimanda al futuro impegni più ambiziosi, in barba all’appello drammatico ad agire lanciato a ottobre dal panel di scienziati delle Nazioni Unite (Ipcc). A Parigi nel 2015 gli Stati avevano firmato un accordo per mantenere il riscaldamento climatico entro i 2 gradi (possibilmente 1,5) rispetto ai livelli pre-industriali e avevano chiesto lo studio. Poco più di due mesi fa, le menti più illustri della ricerca scientifica avevano presentato i risultati, dicendo chiaro e tondo che i prossimi anni saranno cruciali per la vita sulla Terra così come la intendiamo oggi, ma la loro esortazione a mettere in campo politiche efficaci alla fine è caduta nel vuoto.
Gli stessi Paesi, infatti, non hanno accolto all’unanimità i risultati dello studio. Delegittimando così il lavoro di centinaia di ricercatori di tutto il mondo, e dunque il ruolo della scienza per la democrazia. “La mia più grande preoccupazione”, dice il direttore designato del centro Potsdam Institute for Climate impact research, Johan Rockström, è che la Cop24 “non abbia allineato le ambizioni con la scienza. Continuiamo a seguire un percorso pericoloso che ci porterà in un mondo a 3-4 gradi più caldo entro questo secolo”. E mentre a questo si aggiungono nulla di fatto anche su altri aspetti, gli ambientalisti ricostruiscono le responsabilità. La rete di oltre 1.300 ong da 120 Paesi Climate Action Network punta il dito contro “gli stati canaglia” come Usa e Arabia Saudita, ma ricorda anche la connivenza di chi è rimasto a guardare: “Troppi Paesi sono venuti impreparati e hanno scelto di rimanere ai margini”.
Gli scettici: i Paesi produttori di greggio – A guidare il fronte degli scettici verso la scienza c’erano i maggiori produttori mondiali di greggio: oltre all’Arabia Saudita e agli Usa, anche Kuwait e Russia. D’altra parte, conciliare un’economia basata sulle fonti fossili con la necessità scientificamente provata di dimezzare le emissioni di CO2 al 2030 come previsto nel rapporto dell’Ipcc di ottobre scorso, è impossibile. Una richiesta che non piaceva ovviamente nemmeno alla Polonia, che dal carbone ricava l’80% della sua energia. Anche l’Australia alla Conferenza ha celebrato i benefici del carbone e il Brasile ha ritirato l’impegno a ospitare i colloqui sul clima il prossimo anno.
Gli scenari apocalittici (ma realistici) – Lo studio speciale degli scienziati pubblicato a ottobre scorso, però, non conteneva solo l’indicazione di dimezzare le emissioni di CO2 al 2030. Accanto a questo dato, spesso ricordato in questi giorni, i ricercatori hanno delineato gli scenari apocalittici, ma drammaticamente realistici, legati a un aumento della temperatura di 2 gradi anziché 1,5. Apparentemente questi due target sono vicinissimi, ma se con azioni più ambiziose si raggiungesse il primo, l’innalzamento del livello del mare minaccerebbe 10 milioni di persone in meno, e la popolazione mondiale con scarso accesso all’acqua potrebbe essere minore del 50%. La Terra avrebbe più sete, ma anche più fame, passando da 1,5 a 2 gradi in più: la perdita di pescato, per esempio, crescerebbe da 1,5 milioni di tonnellate a oltre 3 milioni di tonnellate. Anche gli ecosistemi pagherebbero un prezzo altissimo. Nell’Artico, le estati senza ghiaccio in mare si verificherebbero una volta ogni secolo con un riscaldamento di 1,5 gradi, ma ogni 10 anni se si sforasse fino a 2 gradi. In quest’ultimo scenario la barriera corallina andrebbe praticamente perduta.
Da Katowice nessun impegno collettivo – A ottobre gli scienziati calcolavano che gli impegni presi dai Paesi in quel momento avrebbero portato il mondo a un riscaldamento di 3 gradi e nonostante la diffusione del rapporto, chiesta dagli stessi firmatari dell’accordo di Parigi, non è stato raggiunto un impegno collettivo chiaro per mettere in atto azioni più ambiziose e incisive. “I leader mondiali sono arrivati a Katowice con il compito di rispondere agli ultimi rapporti della scienza sul clima. Sono stati compiuti importanti progressi, ma ciò a cui abbiamo assistito in Polonia rivela una fondamentale mancanza di comprensione della nostra attuale crisi climatica da parte di alcuni Paesi”, dice il responsabile Clima ed energia del Wwf internazionale, Manuel Pulgar-Vidal. “I governi hanno deluso i cittadini e ignorato la scienza e i rischi che corrono le popolazioni più vulnerabili. Riconoscere l’urgenza di un aumento delle ambizioni e adottare una serie di regole per l’azione per il clima, non è neanche lontanamente sufficiente allorquando intere nazioni rischiano di sparire”, aggiunge la direttrice esecutiva di Greenpeace InternationalJennifer Morgan.
Bonelli: “Più investimenti per le armi” – La non accettazione comune e completa dei risultati scientifici non è l’unico aspetto grave dell’accordo con cui si chiude la Cop24. Il Wwf ricorda altri punti critici: “La conferenza si conclude con poca chiarezza su come si debba contabilizzare il finanziamento sul clima fornito dai paesi industrializzati a quelli in via di sviluppo, su come si raggiungerà l’obiettivo dei 100 miliardi entro il 2020 o su come sarà concordato l’obiettivo finanziario globale dopo il 2025”. Proprio rispetto all’obiettivo dei 100 miliardi a sostegno delle politiche sul clima, il leader dei Verdi Angelo Bonelli ricorda che mentre si discute su come raggiungere questo target, “nel 2017 si è raggiunto il record mondiale storico di 1748 miliardi di dollari per le spese in armamenti”. Inoltre, come evidenzia la rete di oltre 1.300 ong Climate Action Network, alla Cop24 non sono state stabilite regole per i mercati delle emissioni di carbonio dopo il 2020.
di | 17 dicembre 2018

venerdì 14 dicembre 2018

Crisi, due alternative per uscirne e garantire la crescita economica

Fonte: Il Fatto Quotidiano Economia & Lobby | 13 dicembre 2018 


di Stefano Di Bucchianico *
Nei modelli economici della teoria dominante non è concepibile che politiche fiscali coraggiose guidino la crescita. Bisogna guardare ai modelli post-keynesiani. Un recente dibattito tra Larry Summers e Joseph Stiglitz apparso su Project Syndicate ha riacceso i riflettori sulla teoria della stagnazione secolare (in seguito SS). Successivamente, Paul Krugman ha preso parte alla diatriba con un intervento sul suo blog sul New York Times. Come si vedrà dalla ricostruzione del dibattito, a confronto vi sono la posizione di Stiglitz, che guarda alla stagnazione come risultato di un’inadeguata politica fiscale espansiva, e quella di Summers e Krugman, i quali da un lato ritengono necessario uno stimolo fiscale in situazioni di trappola della liquidità, ma dall’altro giudicano la polemica di Stiglitz priva di contenuti realmente nuovi rispetto a quanto da loro proposto.
Il dibattito
La SS, coniata originariamente da Alvin Hansen (1939) durante gli anni 30 a seguito della Grande depressione che colpì gli Stati Uniti, è stata ripresa e riaggiornata negli ultimi anni da Larry Summers (2014, 2015). Krugman (1998) ne propose una versione embrionale già nei tardi anni 90, discutendo le possibili cause della perdurante stagnazione giapponese. In seguito ha sostenuto la pressoché totale sovrapponibilità tra la sua spiegazione e quella data da Summers. Nella più recente versione di Summers, la rilevanza della politica fiscale torna in auge: in situazioni di stagnazione persistente essa è giudicata preferibile rispetto alle misure di politica monetaria che convenzionalmente agiscono tramite un abbassamento del tasso di interesse di riferimento controllato dalla Banca centrale. Tale prescrizione di politica economica sarebbe preferibile, in quanto la politica monetaria avrebbe esaurito la propria efficacia una volta raggiunto il cosiddetto “zero lower bound” sul tasso nominale dell’interesse di politica monetaria.
Nel dibattito menzionato in apertura Stiglitz ha criticato la lettura data dai teorici della SS della non soddisfacente ripresa dell’economia Usa nel periodo post-Grande recessione del 2008, ossia che i bassi tassi di crescita testimoniati dall’economia americana sarebbero una situazione destinata a permanere. Stiglitz argomenta come la lenta ripresa sia stata dovuta a uno stimolo fiscale (rappresentato dagli 800 miliardi di dollari del piano Obama) insufficiente, non quindi a un’inerente tendenza alla stagnazione. La SS sarebbe perciò sostanzialmente una scusa per coprire la responsabilità attribuibile alle insufficienti politiche di domanda del governo.
Nelle sue parole: “L’improvviso incremento del deficit statunitense, da circa il 3% a quasi il 6% del Pil, dovuto a un mal congegnato sistema di tassazione regressivo e a un aumento della spesa bipartisan, ha spinto la crescita intorno al 4% e portato la disoccupazione al livello più basso degli ultimi 18 anni. Queste misure possono essere mal concepite, ma dimostrano che con un sufficiente stimolo fiscale il pieno impiego può essere raggiunto, anche se i tassi di interesse salgono ben al di sopra dello zero”.
Summers ha risposto a tali argomentazioni sostenendo che la teoria della stagnazione secolare non ha come idea di fondo l’inevitabilità di una persistente crisi, ma al contrario cerca di porre l’attenzione sulle politiche fiscali come soluzione principale da adottare. A suo dire, seppur lo stimolo fiscale non sia stato pienamente soddisfacente, esso era il massimo ottenibile all’epoca date le condizioni politiche. Concludendo la risposta a Stiglitz, Summers tenta una sintesi tra le due posizioni, puntualizzando però circa l’affidabilità della propria impostazione teorica: “Anche se siamo in disaccordo sui passati giudizi di stampo politico e sull’uso del termine ‘stagnazione secolare’, sono lieto che un eminente teorico come Stiglitz concordi con ciò che intendevo enfatizzare con la riproposizione di quella teoria: non possiamo contare su politiche del tasso d’interesse per assicurare il pieno impiego. Dobbiamo sforzarci di pensare a politiche fiscali e misure strutturali per supportare una sostenuta e adeguata domanda aggregata”.
Continua su economiaepolitica.it
* dottore di ricerca Università di Roma Treua

mercoledì 12 dicembre 2018

Deficit Francia vola oltre il 3%, Di Maio protesta. Addio al patto di stabilità Ue?

Fonte: W.S.I.  12 dicembre 2018, di Alberto Battaglia

La protesta dei gilet gialli, dalle problematiche di ordine pubblico rischia di provocare una nuova disputa politica fra Commissione Ue e governi nazionali. Le concessioni che il presidente Emmanuel Macron ha annunciato per lenire le proteste di piazza, infatti, “avranno conseguenze in termini di spesa [pubblica] e necessariamente implicheranno conseguenze in termini di deficit – e sappiamo che ne avranno sul deficit del 2019”.
Lo ha dichiarato con chiarezza il premier francese Edouard Philippe. E a quantificare tale impatto ci ha pensato il ministro dei Conti pubblici, Gerald Darmanin: il nuovo rapporto deficit Pil, stanti le nuove spese, arriverebbe al 3,4%. Una notizia che ha contribuito a riportare lo spread francese, rispetto ai Bund, ai massimi dal maggio 2017. E ad scatenare le proteste delle autorità dei paesi meno virtuosi come l’Italia.
Patto di stabilità in bilicoAl di là delle conseguenze sul piano strettamente finanziario, il problema che si pone è di tipo politico. La Commissione europea, infatti, di fronte a un deficit previsto al 2,4% dal governo italiano ha immediatamente agitato lo spettro della procedura d’infrazione. Accadrà lo stesso in vista di un deficit francese al 3,4%?
Il patto di stabilità e crescita e con esso la regola aurea della soglia del deficit al 3%, fissata in modo relativamente casuale ai tempi, non sono mai stati così in dubbio.
Soglia deficit: Salvini e Di Maio coglieranno palla al balzoL’occasione per raccogliere la polemica non è andata sprecata. Il vicepremier Luigi Di Maio ha dichiarato, infatti, che i francesi di “dovranno per forza aumentare il deficit e si aprirà anche un caso Francia, se le regole valgono per tutti“.
“La spesa [pubblica] di Macron incoraggerà Salvini e Di Maio”, ha detto a Bloomberg il politologo e professore ordinario Giovanni Orsina (Università Luiss-Guido Carli di Roma), “Macron avrebbe dovuto essere la punta di diamante delle forze europeiste, se lui stesso è costretto a sfidare le regole dell’Ue, Salvini e Di Maio si faranno avanti sulla spinta di ciò, per ribadire che quelle regole sono sbagliate“.
Al momento la posizione di Bruxelles rispetto alle novità del budget francese restano attendiste: le valutazioni sono rimandate a quando il nuovo piano economico sarà definito nel dettaglio. È in rialzo il rendimento dei titoli di riferimento francesi, con il tasso della scadenza decennale che ha toccato temporaneamente il livello più alto in un anno (di 0,756%). Lo Spread con la Germania si è ampliato a un certo punto a 47,5 punti base (i massimi da maggio 2017).

martedì 11 dicembre 2018

Migranti e debito, la controversa proposta di Soros per l’Europa

(sentite, anzi leggete) questa...
Fonte: W.S.I. 11 dicembre 2018, di Alessandra Caparello

Insoddisfatto dell’attuale politica dell’UE per i rifugiati perché si basa ancora sulle quote d’ingresso, Georg Soros, imprenditore e attivista ungherese naturalizzato statunitense, propone ai capi di Stato e di governo dell’UE una ricetta che si basa sul debito.
Se da una parte considera importante investire nell’arrivo dei migranti che, a suo dire, aiuterebbe a mantenere l’afflusso di rifugiati a un “livello che l’Europa può assorbire”, il filantropo ungherese, acerrimo nemico del premier Viktor Orban, è consapevole che i costi del suo “piano di scambio etnico” sono finanziariamente difficilmente attuabili.
Oltre ai già enormi costi causati dai migranti già presenti in Europa, secondo le stime dell’ONG olandese GEFIRA, un numero così elevato di nuovi arrivati aggiungerebbe circa 30 miliardi di euro all’anno. Il piano di Soros poggia su due pilastri: il finanziamento dei migranti e quello dei paesi extraeuropei che ricevono principalmente migranti (e che egli stesso sostiene con le sue attività filantrope).
Lo speculatore finanziario chiede anche l’introduzione di una nuova tassa per aiutare gli Stati Membri nella crisi dei rifugiati, tra cui un’imposta sulle transazioni finanziarie, un aumento dell’IVA e la creazione di fondi per i rifugiati.
Soros sa, tuttavia, che tali misure non sarebbero accettate da alcuni paesi dell’UE, per cui propone una soluzione politica diversa, che non richiede un voto nei paesi sovrani e che riguarda il debito pubblico. Per il magnate ottantenne il nuovo debito dell’UE dovrebbe essere contratto approfittando del suo status di credito in posizione AAA in gran parte inutilizzato, emettendo obbligazioni a lungo termine, il cui ricavato potrebbe essere usato per dare impulso all’economia europea.
I fondi potrebbero provenire dal MES (ESM nell’acronimo inglese), il meccanismo europeo di stabilità e dal BoPA (Balance of Payments Assistance Facility), istituzione comunitaria di sostegno alla bilancia dei pagamenti. Soros calcola che entrambi gli istituti hanno una capacità di credito di 60 miliardi, che dovrebbe aumentare quando Portogallo, Irlanda e Grecia rimborseranno annualmente i prestiti ricevuti durante la crisi dell’euro.
Così facendo i vecchi debiti verrebbero utilizzati per finanziare nuovi debiti, in modo tale da non gravare ufficialmente sul bilancio di nessuno degli Stati membri dell’UE.

I gilet gialli hanno fame? Purtroppo per Macron anche i croissant costano troppo

Fonte: Il Fatto Quotidiano Mondo | 10 dicembre 2018 


Si avvicinava la fine del secolo, e nella capitale di un Impero una sfortunata regina, suggerì al popolo di mangiare croissant, dato che il pane scarseggiava. Il popolo affamato, stanco, stremato da tasse e soprusi della media nobiltà, non la prese bene. La sua uscita, ammesso che sia stata veramente pronunciata da lei, è divenuta parte del pacchetto della “storia ufficiale” della rivoluzione francese. Emmanuel Macron oggi sembra la versione al femminile della famosa regina (che perse la testa per il popolo e le sue scelte).
C’è una grande differenza tra quella regina, avulsa dal mondo vero, e il signor Macron: l’informazione. Malgrado si possa criticare i media, come delatori, sobillatori o cospiratori del potere, i media hanno ancora lo scopo di tenere informati i cittadini su quello che succede. Al peggio se non ci si vuol fidare dei media i normali strumenti social sono perfetti per acquisire dati grezzi.
La Francia e i gilet gialli sono solo l’ennesimo esempio di una classe politica che ha deciso di ignorare il popolo. Bene inteso il mio non è un discorso politico. Ma mettiamola in questo modo: se Macron è il “nuovo che avanza” come era stato ribattezzato il suo movimento, allora sarebbe meglio tornare al vecchio. Macron dimostra di essere come quella regina, addirittura sono giorni che non si fa vedere sui media (un giorno sui social equivale a un’epoca nel mondo normale).
Ma cosa succede veramente in Francia? In verità nulla di nuovo. La classe media (di cui i taxisti sono solo una parte) si sente sempre più oppressa. I cittadini possono leggere su Internet tutto quello che succede e dissentire. Internet ha creato due grandi opportunità. La prima, all’apparenza, a vantaggio di un governo che ci tiene ai suoi cittadini: se usato correttamente (vedi Cina, correttamente è un eufemismo, si intende) Internet è il miglior sistema di controllo esistente. E la Cina dimostra chiaramente come si può controllare la vita dei cittadini in modo efficace e pervasivo.
Se restiamo nel mondo occidentale, Internet appare essere uno strumento valido per creare il seme di un dissenso che, se non intercettato si manifesta nella vita reale. I gilet gialli sono nati in rete e la loro organizzatrice nemmeno è una taxista: Priscillia Ludosky vende prodotti per aromaterapia in rete. Il movimento di per sé è un confluire di differenti gruppi di rivolta che si sono incontrati (in questo i social aiutano) e hanno cominciato a “scaldarsi a vicenda”. Di qui alla piazza il percorso ha preso alcuni mesi ma ora è mainstream. E la teoria del gregge (roba da sociologi dei decenni passati) fa il resto. Per imitazione altri prendono la piazza, poi si aggiungono un po’ di bravi “spacca tutto” (blackblockers, teppisti scegliete il termine che preferite) e il gioco è fatto.
Viviamo un’epoca della storia umana senza precedenti per fattori di comunicazione e interazione. E sorprendentemente i politici sono così ignoranti e inabili a utilizzare questi strumenti in modo corretto. Nel caso della Cina (ma ci sono anche altre nazioni meno famose) la rete è divenuta uno strumento di controllo efficiente e brutale (nella sua accezione finale, vedi islamici Hyuguri nei campi di concentramento, dove vengono “rieducati”). Nel mondo occidentale bastione della democrazia il massimo che possiamo osservare sono i casi di Trump che, sorprendentemente data l’età del biondo, ha saputo leggere gli animi della classe media (tra l’incazzato e l’atterrito dai rapidi cambiamenti) e ne ha fatto una bandiera. In modo rocambolesco e più primitivo (se parliamo dell’approccio tecnologico) in Italia abbiamo avuto la Lega e i 5 stelle. I partiti più globalisti (leggasi i democratici di sinistra) che, per assurdo sono stati i primi a sposarsi (qualcuno malignamente direbbe a vendersi) al capitalismo sfegatato e alle multinazionali, sono gli ultimi a percepire la potenzialità della rete, dei social e le loro applicazioni.
Alcuni secoli fa l’impero romano cadde sotto la forte pressione di una popolazione che non aveva una crescita economica sostenibile. Allora ci si poteva lamentare che avere dati e informazioni sull’andamento economico e sociale fosse difficile. Oggi non lo è più. Tuttavia l’imperatore della Francia ancora pensa che basti chiudersi in stanza al buio perché tutti i cattivi che lo vogliono alla Bastiglia se ne vadano.
Non è più tempo per i croissant… costano troppo.
@enricoverga

sabato 8 dicembre 2018

Censis: “Italiani popolo incattivito e rancoroso, il 63% è ostile verso gli immigrati, l’11% in più della media Ue”

Fonte: Il Fatto Quotidiano di | 7 dicembre 2018
Italiani sempre più cattivi. Frustrati dallo sfiorire della ripresa e da un cambiamento che non è arrivato, hanno deciso di compiere “un salto rischioso e dall’esito incerto”, un “funambolico camminare sul ciglio di un fossato che mai prima d’ora si era visto così da vicino”. Così vede l’Italia e i suoi cittadini l’Istituto Censis, che oggi a Roma ha presentato il 52esimo rapporto sulla situazione sociale del paese. Alludendo alla situazione politica, l’Istituto presieduto da Giuseppe De Rita ha parlato della decisione di “forzare gli schemi politico-istituzionali e spezzare la continuità nella gestione delle finanze pubbliche”. Una ricerca programmatica del “trauma”, dice il Censis, definibile come una sorta di “sovranismo psichico”, ancor prima che politico, che produce una relativa caccia paranoica al capro espiatorio.
Lo dicono i dati: il 69,7% degli italiani non vorrebbe vicini di casa rom e il 52% è convinto che si faccia più per gli immigrati che per gli italiani. Un “cattivismo” diffuso, lo definisce ancora il Censis, che porta gli italiani a temere non solo l’immigrazione da paesi extra Ue (63%) ma anche da paesi comunitari (45% contro il 29% medio). Non troppo paradossalmente, i più ostili verso gli immigrati sono gli italiani più fragili, anziani e disoccupati, mentre il dato scende al 23% tra gli imprenditori. In generale, per il 75% degli italiani l’immigrazione aumenta la criminalità e solo il 37% ritiene che abbiano un impatto positivo sull’economia.
Convinti di non poter migliorare e pessimisti
Le ragioni di questo salto risiedono, come spesso sottolineato dall’Istituto di ricerca nei precedenti rapporti, nella paura delle classi a basso reddito di restare nella condizione attuale, senza nessun possibile miglioramento: lo credono il 96% delle persone con basso titolo di studio e l’89% di quelle a basso reddito. L’Italia è ormai il Paese dell’Unione europea con la più bassa quota di cittadini che affermano di aver raggiunto una condizione socio-economica migliore di quella dei genitori: il 23%, contro una media Ue del 30%, il 43% in Danimarca, il 41% in Svezia, il 33% in Germania. Il 63,6% degli italiani è convinto che nessuno ne difenda interessi e identità, e che tocchi a loro stessi pensarci (e la quota sale al 72% tra chi possiede un basso titolo di studio e al 71,3% tra chi può contare solo su redditi bassi). Rispetto al futuro, solo il 33,1% degli italiani è ottimista.
Su le esportazioni in Europa, giù l’europeismo
Mentre gli investimenti e consumi sono più bassi del 2010, sale invece l’export del 26,2% (+7,4% rispetto al 2016), con un saldo commerciale positivo di 47,5 miliardi, un dato che posiziona l’Italia al nono posto tra i paesi esportatori, con 217.431 aziende esportatrici, per lo più in Europa. Nonostante questo, e nonostante l’Italia sia il quinto paese per finanziamenti ricevuti dalla UE e il quarto per numero di progetti finanziati, solo il 43% degli italiani pensa che l’appartenenza alla Ue abbia giovato all’Italia, un dato molto basso rispetto alla media europea del 68%. Più europeisti sono i giovani, peccato che il loro numero sia diminuito ovunque in Europa, e soprattutto in Italia, il paese con la più bassa percentuale di giovani (20,8% tra i 15 e i 34 anni).
Italiani, astenuti convinti
Venendo alla politica, il Censis evidenzia come il primo partito italiano sia quello del non voto. 13,7 milioni sono infatti gli astenuti o i votanti scheda bianca alla Camera nelle ultime elezioni, una percentuale che ha toccato nel 2018 il 29,4% contro l’11,3% del 1968. La metà degli italiani, con poche differenze tra chi ha un reddito basso e chi più alto, ritiene che i politici siano tutti uguali. Gli italiani sono invece divisi rispetto all’uso dei social network in politica tra chi li ritiene dannosi e chi utili o preziosi.
Lavoro giovanile, un dramma senza fine
Un dato problematico riguarda senz’altro il lavoro: il Censis segnala come il salario medio annuo sia aumentato tra il 2000 e il 2017 solo dell’1,4%, 400 euro all’anno (+13,6% in Germania e 20,4% in Francia). Non solo: dal 2000 al 2017 sono scesi di oltre un milione e mezzo gli occupati giovani (27,3%), mentre sono aumentati gli occupati “anziani” (55-64). In dieci anni siamo passati da un rapporto di 236 giovani occupati ogni 100 anziani a 99, mentre nel segmento più istruito i 249 giovani laureati occupati ogni 100 lavoratori anziani del 2007 sono diventati appena 143. Sono raddoppiati i giovani sottoccupati e aumentati esponenzialmente quelli costretti a un part time forzato: ben 650.000 nel 2017 contro i 150.000 del 2011.
La disoccupazione giovanile è fortemente legate al tema della formazione. L’Italia investe in istruzione e formazione il 3,9% del Pil contro una media europea del 4,7%. I laureati sono il 26,9% contro una media Ue che ha toccato il 39.9%, mentre gli abbandoni scolastici riguardano il 14% contro una media Ue del 10,6%. 11.257 sono gli euro spesi per studente contro i 15.998 della media Ue.  Scende pure la spesa pubblica destinata alla ricerca, dai 10 miliardi del 2008 agli 8,5 del 2017.
La corsa della disintermediazione digitale
Mentre i consumi delle famiglie sono ancora appesi al palo – meno 6,3% rispetto a quello del 2018 – e la forbice tra i gruppi sociali continua ad allargarsi – meno 1,8% della spesa per consumi delle famiglie operaie, +6,6% quella degli imprenditori –  corre invece la spesa per i telefoni (+221,6%) e aumenta in maniera esponenziale l’utilizzo di dispositivi digitali e del web, a cui si connette oggi il 78,5% degli italiani, quasi sempre tramite smartphone e quasi sempre sui social network. Per il Censis non si tratta di un fenomeno necessariamente positivo.
Nell’era biomediatica – si legge – in cui uno vale un divo, siamo tutti divi. O nessuno, in realtà, lo è più”. La metà della popolazione (il 49,5%) è convinta che oggi chiunque possa diventare famoso (il dato sale al 53,3% tra i giovani di 18-34 anni). Un terzo (il 30,2%) ritiene che la popolarità sui social network sia un ingrediente “fondamentale” per poter essere una celebrità, come se si trattasse di talento o di competenze acquisite con lo studio (il dato sale al 41,6% tra i giovani).
Precari anche i sentimenti
Come sempre, anche in questo rapporto il Censis focalizza la sua attenzione sulle relazioni affettive. La tendenza è la stessa degli anni precedenti: ci si sposa sempre di meno e ci si lascia sempre di più. Crollano i matrimoni religiosi (-33,6% dal 2006 fino al 2016), aumentano le separazioni (+14% dal 2006 fino al 2016). Boom della “singletudine”: i single sono più di 5 milioni.
La politica non ignori il cambiamento sociale
Tracciare un bilancio generale è difficile. Di sicuro, si legge nelle Considerazioni generali al Rapporto, “la ripartenza poi non c’è stata: è sopraggiunto un disallineamento, un inciampo, un rabbuiarsi dell’orizzonte di ottimismo e di rinvigorimento dei comportamenti individuali e collettivi e della loro vitalità economica”. Il problema è che “ogni spazio lasciato vuoto dalla dialettica politica è riempito dal risentimento di chi non vede riconosciuto l’impegno, il lavoro, la fatica dell’aver compiuto il proprio compito di resistenza e di adattamento alla crisi”. Da un lato prevale l’individualismo: “Andiamo”, scrive il Censis, “da un’economia dei sistemi verso un ecosistema degli attori individuali, verso un appiattimento della società”. Dall’altro, non senza contraddizione, il popolo, attraversato da tensione, paura, rancore, guarda al sovrano autoritario e chiede stabilità, “ricostituendosi nell’idea di una nazione sovrana e supponendo, con un’interpretazione arbitraria ed emozionale, che le cause dell’ingiustizia e della diseguaglianza sono tutte contenute nella non-sovranità nazionale”. Ma la politica, conclude il Censis, vince proprio se resiste alla tentazione di appiattimento, e propone una prospettiva di futuro dando all’annuncio un seguito. Di sicuro l’errore più grande della politica italiana degli ultimi dieci anni è stato quello di ignorare il cambiamento sociale. Anche oggi, dunque, “c’è sempre più bisogno di una responsabilità politica  che non abbia paura della complessità, che non si perda in vicoli di rancore o in ruscelli di paure, ma si misuri con la sfida complessa di governare un complesso ecosistema di attori e processi”.
di | 7 dicembre 2018

giovedì 6 dicembre 2018

Savona: “Italia rischia recessione. Dobbiamo agire”

Fonte: W.S.I. 6 dicembre 2018, di Alessandra Caparello

L’allarme per l’Italia non arriva questa volta da un organo europeo bensì da quel ministro che fu causa dell’impasse all’indomani delle elezioni politiche: Paolo Savona, titolare del dicastero degli Affari europei.
 L’Italia non può attendere la lenta transizione che nel 2019 porterà a un nuovo parlamento europeo, a una nuova Commissione e a un nuovo vertice della Bce perché deve fronteggiare i rischi di una recessione produttiva e quindi il nostro dovere è agire.
Così  il ministro intervenendo alla presentazione del libro di Roberto Sommella ‘Gli Arrabbiati’ in cui ha sottolineato comunque “indubbia capacità dell’organizzazione europea di creare stabilità finanziaria e monetaria ma non di creare sviluppo”.
Alle parole del ministro Savona hanno fatto eco quelle del deputato del Pd Francesco Boccia.
 “L’Europa è troppo grande per essere unita ma è grande anche per essere divisa. Nei secoli in cui è stata divisa ci sono stati danni inenarrabili che hanno scritto le pagine più tristi della storia. (…) Merkel, Juncker, Orban sono i rappresentanti di una politica lontana anni luce dall’idea di un’Europa sociale che abbiamo il dovere di costruire (…) Le intelligenti provocazioni e gli stimoli del prof. Savona devono essere strumenti straordinari per aprire una discussione franca sul futuro dell’Europa, sapendo che l’Italia, come diceva Longanesi, è stata il cuore dell’Europa; e il cuore non è né il braccio nè la testa e questa è la nostra grandezza e il nostro stesso limite. Il libro di Roberto Sommella stimola le forze politiche a indicare una strada per l’Europa che vogliamo e che sarà, inevitabilmente, il tema cruciale della prossima campagna elettorale per le europee”.

mercoledì 5 dicembre 2018

Tra Cina e Usa torna il gelo. In dubbio accordi G20

Fonte: W.S.I. 5 dicembre 2018, di Mariangela Tessa

Dopo l’iniziale euforia per la tregua commerciale raggiunta al G20, il mercato guarda con preoccupazione alle relazioni Usa e Cina mentre tra i due paesi sembra essere tornato il gelo.
Il motivo? La Cina a quanto pare si dice confusa dalla versione dell’amministrazione Trump in merito a quanto accaduto lo scorso fine settimana a Buenos Aires. Dopo l’incontro chiave tra il presidente Usa Donald Trump e il cinese Xi Jinping, alcuni funzionari di Pechino si dicono “sconcertati e irritati” dal comportamento dell’amministrazione Trump, ha riferito un ex funzionario del governo USA al Washington Post.
“Quando stai negoziando con i cinesi, non puoi rendere pubbliche tutte le loro concessioni. È solo follia “ ha detto al Post l’ex funzionario.
Dopo l’incontro dei due leader mondiali, la Casa Bianca ha affermato che i due paesi hanno accettato una tregua di 90 giorni nella guerra dei dazi.
Ma anche su questo punto non sembrano esserci certezze: il quotidiano americano ha riferito che i cinesi non hanno riconosciuto una scadenza di 90 giorni per i colloqui così come non hanno detto che avrebbero “immediatamente” aumentato gli acquisti di beni agricoli statunitensi, come riferito.
Ci sarebbero dunque “differenze significative” tra le versioni dei due governi di ciò che è stato concordato durante la cena, secondo il Post.
Sui mercati, intanto, è già finita l’euforia. Dopo i guadagni di lunedì, ieri Wall Street ha chiuso in forte ribasso sulle preoccupazioni che qualsiasi ritardo nei negoziati possa di far saltare una soluzione concreta.

martedì 4 dicembre 2018

Andalusia, l’estrema destra scuote la Spagna. Ma Vox ha molte contraddizioni

Fonte: Il Fatto Quotidiano  Mondo | 4 dicembre 2018 


La prima leader europea a far sentire la sua voce per il successo dell’estrema destra nelle elezioni in Andalusia è stata Marine Le Pen. È bastato un tweet di soddisfazione per esprimere la vicinanza tra il Fronte nazionale francese e Vox, movimento guidato da Santiago Abascal che si inserisce nel solco della destra identitaria e protezionista affermatasi all’altro capo del mondo.
Abbiamo avvicinato Miguel Mora, direttore della rivista Contexto – per anni corrispondente da Roma de El País – il quale ci ha spiegato: «E’ un risultato effetto di varie cause, la cavalcata globale Trump-Bolsonaro, l’ “austericidio” europeo, il logorio del partito socialista (Psoe) da troppo tempo vicino alle lobby dei potenti e la questione catalana, capace di accendere la fiamma del nazionalismo».
E’ così che la ‘regione rossa’ di Spagna, terra dell’ex premier Felipe Gonzalez da sempre fortino inespugnabile del Psoe, rischia di passare nelle mani di una coalizione di destra: i conservatori del Partido Popular, la formazione di centro Ciudadanos e Vox, il nuovo partito che per la prima volta entra nelle istituzioni con un bottino di 400mila voti (il 10,96%) e ben 12 deputati. Un raggruppamento che raggiunge i 59 seggi, 4 al di sopra della soglia richiesta per la maggioranza assoluta.
In queste ore a Cordoba, Malaga e Siviglia, principali centri andalusi, migliaia di manifestanti, principalmente giovani, occupano le piazze al grido comune “Aquí están los antifascistas”.
E pur di fermare l’avanzata della ultradestra c’è chi avanza l’ipotesi di un accordo tra le forze progressiste, il Psoe e Podemos (presentatosi sotto le insegne di Adelante Andalucía), e i centristi di Ciudadanos, aspri antagonisti delle formazioni di sinistra sul fronte scivolosissimo della questione indipendentista in Catalogna.
A poche ore dallo scrutinio Vox ha già scosso la Spagna. Il paese adesso si interroga, ma al di là delle letture sulle controversie interne o sulle consolidate tendenze transnazionali è sufficiente un approfondimento sul microcosmo dei piccoli centri per capire di più. A El Ejido, un agglomerato di 90mila abitanti disteso lungo le enormi coltivazioni intensive della provincia di Almeria, Vox è il primo partito. Lo stesso accade a Albuñol, centro rurale con chilometri e chilometri di serre a coprire una terra fertile, qui un terzo dei 7mila abitanti sono magrebini, impegnati principalmente nel lavoro nei campi, come succede da noi nella piana di Eboli, nel ragusano o nell’agro-pontino.
Un voto contro l’immigrazione, l’argomento principe della formazione di destra.
Nel programma di Vox si legge di un controllo rigoroso dell’immigrazione, con restrizioni per il lavoro delle Ong, un rigoroso sistema di quote d’ingresso e la ferma preclusione per gli irregolari di oggi di sanare la loro posizione in futuro. E poi temi identitari che sanno di “reconquista”: stretta sulla cultura musulmana, un secco ‘no’ all’entrata della Turchia di Erdogan nella Ue, maggiore peso della Spagna sulla scena internazionale, antichi fasti da rinvigorire.
Con una contraddizione finale che ha il sapore del paradosso: Vox vuole recuperare Gibilterra, territorio non autonomo sotto influenza della Corona britannica, e proteggere con mura altissime Ceuta e Melilla, enclavi spagnole nel nord-Africa. Come dire, le nostre vecchie espansioni territoriali sono manifestazione di vitalità, il piede in casa è segno di decadenza…
Mondo | 4 dicembre 2018

lunedì 3 dicembre 2018

Manovra, Goldman Sachs: “Pressione dei mercati imporrà disciplina di bilancio”. Dombrovskis: “Cambio di toni non basta”

Fonte: Il Fatto Quotidiano di | 3 dicembre 2018
Il “più probabile catalizzatore per un ritorno alla disciplina di bilancio” sarà “un’ulteriore pressione dei mercati“. In questo momento “l’Italia getta una nube scura” sullo scenario dei mercati in Europa e “le cose potrebbero dover peggiorare prima di vedere un miglioramento”. E’ la previsione della banca d’affari Goldman Sachs, che interviene dopo un fine settimana che doveva essere decisivo ma durante il quale la maggioranza Lega-M5s non ha trovato la quadra sull’eventuale modifica ai saldi della legge di Bilancio e in particolare sulla riduzione del rapporto deficit/pil. Secondo gli analisti di Goldman, dopo la retromarcia della crescita registrata nel terzo trimestre 2018 l’economia italiana all’inizio del prossimo anno “flirterà con la recessione” e il pil nel 2019 aumenterà solo dello 0,4 per cento, contro l’1,5% previsto dal governo.
Intanto il vicepresidente della Commissione Ue Valdis Dombrovskis ha ribadito le richieste di Bruxelles, spiegando che il “cambio di tono” delle ultime settimane, con il governo italiano che appare “pronto a discutere e impegnarsi a cambiare la sua traiettoria di bilancio”, è ben accetto ma non basta: “Non si tratta solo di cambiare il tono della discussione ma di avere una correzione consistente“. L’iter della procedura di infrazione nei confronti dell’Italia, come confermato dal commissario agli affari economici Pierre Moscovici, va quindi avanti, in parallelo con l’avanzamento della manovra a Roma. I ministri dell’economia riuniti nell’Eurogruppo lunedì hanno dato il via libera alle conclusioni sui piani di bilancio 2019, nelle quali appoggiano le opinioni della Commissione inclusa quella sulla manovra italiana anche se si dicono a favore della prosecuzione del dialogo tra governo italiano e Commissione.
La “strategia” espansiva di bilancio “che il governo italiano ha adottato” con la manovra economica per il 2019 “non sembra funzionare ed è importante per l’economia italiana che questa strategia venga corretta”, ha aggiunto Dombrovskis, facendo riferimento alla tesi sostenuta dal governo secondo cui l’aumento della spesa in deficit dovrebbe spingere la crescita del pil fino all’1,5% l’anno prossimo. Un numero sempre più difficile da raggiungere alla luce degli ultimi dati Istat. “Ci sono nuove proposte e idee sul tavolo che vanno nella giusta direzione”, ha confermato Moscovici, “ma il gap con le regole del Patto di stabilità è ancora ampio e quindi ancora non ci siamo“.
Secondo Repubblica e La Stampa, il ministro dell’Economia Giovanni Tria dal G20 di Buenos Aires ha confermato che la trattativa con la Ue si sta concentrando su una riduzione del deficit/pil dal 2,4 all’1,9-2%. Ma il mandato a negoziare è stato attribuito ufficialmente dai vicepremier e azionisti di maggioranza Luigi Di Maio e Matteo Salvini al presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Alla domanda se sia possibile trovare un punto di incontro su un numero vicino al 2%, Dombrovskis non ha voluto commentare, limitandosi a dire che “dove siamo è largamente noto: secondo la decisione del Consiglio di luglio l’Italia dovrebbe effettuare una correzione strutturale pari allo 0,6% del pil, invece vediamo, secondo i piani dello stesso governo, un deterioramento dello 0,8%. Secondo le previsioni della Commissione è anche peggio, è un deterioramento pari all’1,2% del pil. Vediamo che la differenza è molto grande. Anche la correzione che serve è molto sostanziale, ma non posso commentare ogni decimale di punto”.
Intanto lunedì mattina in commissione Bilancio alla Camera è ripreso l’esame degli emendamenti, dopo che nel weekend il Carroccio e i pentastellati hanno presentato un pacchetto di 54 proposte di modifica. Assenti, al momento, le norme sui due cavalli di battaglia del governo giallo-verde: reddito di cittadinanza e quota 100 per andare in pensione. Su questo la partita si giocherà tutta al Senato. In nottata dopo un lungo empasse la commissione ha votato per un’ora approvando una sola proposta di modifica, che introduce una detrazione forfettaria di 1000 euro per i cani guida. E l’esame potrebbe proseguire a oltranza anche venerdì notte. L’arrivo in aula è previsto per mercoledì 5 ed è slittato dalla mattinata alle 14.
di | 3 dicembre 2018

domenica 2 dicembre 2018

L’austerità è inutile. Il problema non è lo spread, ma la qualità della manovra

Fonte: Il Fatto Quotidiano Economia & Lobby | 1 dicembre 2018 

di Felice Roberto Pizzuti *
Spread e reazione dei mercati possono compromettere l’efficacia della manovra economica italiana? Felice Roberto Pizzuti contesta questa tesi di Blanchard e Zettelmeyer e spiega che quello che conta non è lo spread ma la qualità delle misure previste.
1. Nel dibattito sulla Nota aggiuntiva al documento di economia e finanza (Nadef) 2018 si evidenziano contributi anche autorevoli che, tuttavia, rischiano di aumentare gli elementi di confusione che lo caratterizzano. La manovra, anche per come viene presentata dal governo nelle trattative con l’Unione europea, presenta delle criticità che ne pregiudicano l’efficacia e, nel suo insieme, mostra di non avere la visione di lungo respiro necessaria ad affrontare i problemi organici della nostra economia, approccio che sarebbe particolarmente congruo all’inizio di una legislatura “di cambiamento”. Tuttavia, le critiche che la manovra merita non dovrebbero distogliere l’attenzione dalla maggiore pericolosità insita in altri ingiustificati rilievi che le sono rivolti, con i quali si cerca di riproporre la stessa concezione economica della “austerità espansiva” già rivelatasi molto dannosa non solo per il nostro Paese, ma per la stessa costruzione europea la quale, peraltro, è resa sempre più necessaria dall’evoluzione degli equilibri economici e politici globali.
2. In un articolo tradotto sulla Voce.info del 27 ottobre, Olivier Blanchard (tra l’altro, ex capo economista del Fmi) e Jeromin Zettelmeyer (tra l’altro, ex direttore generale per le politiche economiche del Ministero tedesco degli Affari economici e l’energia), attualmente entrambi membri del Peterson Institute for International Economics, sostengono che l’obiettivo della crescita del Pil perseguito dal governo italiano con l’aumento del deficit di bilancio al 2.4% non sarà raggiunto, poiché l’intento espansivo sarà più che compensato dall’effetto contrario derivante dall’aumento dei tassi d’interesse provocato dalla stessa manovra.
I due autori concordano che “nonostante ‘strette fiscali espansive’ e ‘espansioni fiscali restrittive’ siano teoricamente possibili, una politica fiscale espansiva generalmente aumenta la produzione e una restrittiva la rallenta – anche in Paesi con un alto debito pubblico”. L’affermazione (almeno la parte successiva alla virgola) può sembrare scontata, ma va considerato che, nei due decenni a cavallo tra il vecchio e il nuovo secolo, molti economisti appartenenti al mainstream del pensiero economico e istituzioni economiche internazionali come il Fondo monetario internazionale (Fmi), hanno sostenuto e applicato la tesi che le politiche di consolidamento fiscale (cioè di riduzione del debito) favorirebbero la crescita. Secondo questa posizione, che si riassume nell’ossimoro della “contrazione o austerità espansiva”, l’effetto restrittivo esercitato dalla riduzione della spesa pubblica e dall’aumento del saldo dei bilanci pubblici sarebbe più che compensato dal loro stimolo espansivo sulla spesa privata, con il risultato complessivo di favorire la crescita. L’effetto espansivo delle politiche di “austerità” era considerato tanto più efficace quanto maggiore era elevato il debito pubblico. Successivamente, una consistente serie di studi analitici ed empirici ha dimostrato l’inconsistenza di queste posizioni.
Continua su economiaepolitica.it
* Sapienza Università di Roma

venerdì 30 novembre 2018

Cop 24: da Parigi a Katowice il clima è sempre più bollente

Fonte: La voce.info Marzio Galeotti e Alessandro Lanza
L’Organizzazione meteorologica mondiale ha annunciato un nuovo record per la concentrazione di CO2 in atmosfera. L’annuncio arriva alla vigilia della Cop 24 di Katowice, dove saranno in discussione importanti temi legati all’accordo di Parigi.

Da lunedì 3 dicembre a Katowice (Polonia) va in scena la Conferenza Onu sul clima (Cop 24). L’obiettivo principale di questa Cop, che è la conferenza annuale dei paesi firmatari della Convenzione Onu sui cambiamenti climatici, è un accordo sulle regole per attuare l’Accordo di Parigi del 2015. Nonostante l’importanza delle questioni da discutere e soprattutto della posta in gioco, gli osservatori non nutrono grandi aspettative circa l’esito di questo ennesimo incontro. Che si apre con tre premesse non incoraggianti in una “location” non propizia da un punto di vista simbolico.
Tre rapporti allarmanti
Il 20 novembre l’organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) ha annunciato che per la prima volta da migliaia di anni la concentrazione annua media globale di CO2 nell’atmosfera ha raggiunto nel 2015 il traguardo insieme simbolico e significativo di 400,3 ppm (parti per milione). Il valore era già stato raggiunto per alcuni mesi in alcune località negli anni passati, ma mai prima su base globale per l’intero anno. I dati degli anni seguenti sono ancora più preoccupanti: 403,3ppm nel 2016 e 405,5 nel 2017 (previsione).
Il picco di crescita della concentrazione è stato alimentato dall’evento climatico conosciuto come El Niño, iniziato nel 2015 e conclusosi nel 2016. Il fenomeno, ben noto nella letteratura scientifica, ha provocato siccità nelle regioni tropicali e ridotto la capacità di assorbimento di foreste e oceani. Questi “pozzi” – che raccolgono circa la metà delle emissioni di CO2 – sono a rischio di saturazione, il che aumenterebbe la frazione di anidride carbonica emessa che rimane nell’atmosfera.
La notizia sulla concentrazione di CO2 nell’atmosfera segue la pubblicazione all’inizio di ottobre del rapporto Ipcc sugli impatti del riscaldamento globale di 1,5 gradi. Redatto da un qualificato gruppo di scienziati che nelle diverse discipline si occupano di cambiamenti climatici in tutti i loro aspetti (mitigazione, adattamento, politiche economiche e sociali), il rapporto sintetizza la recente letteratura scientifica a beneficio dei decisori politici, economici e sociali. Vi compare un’informazione particolarmente interessante: se come limite all’incremento della temperatura dovesse essere assunto +1,5°C, c’è il rischio concreto che nel momento della pubblicazione dell’atteso e tradizionale rapporto Ipcc, probabilmente nel 2023, il “carbon budget” necessario per mantenere l’incremento delle temperature medie globali al di sotto dell’intervallo possa già essere stato esaurito.
Ma un altro rapporto scientifico, altrettanto significativo seppure per ragioni differenti, è stato pubblicato da 13 agenzie federali Usa il 23 novembre, delegato dal Congresso e reso pubblico dalla Casa Bianca. Il messaggio centrale è che i cambiamenti climatici potrebbero ridurre di un decimo il Pil statunitense entro il 2100, più del doppio delle perdite della grande recessione di un decennio fa. Due le aree di maggior impatto: commercio estero e agricoltura, con la farm belt tra le regioni più colpite. Il rapporto contiene conclusioni che sono direttamente in contrasto con le politiche e le convinzioni di Donald Trump, anche se gli scienziati che vi hanno lavorato annotano che i funzionari dell’amministrazione non sembrano aver cercato di alterarne le risultanze. Difficile tuttavia evitare il sospetto che la diffusione del rapporto – alle 14 del giorno dopo il Ringraziamento – sia stata progettata per minimizzarne l’impatto pubblico.
Verso Katowice
Resta il fatto che il rapporto potrebbe diventare un potente strumento legale per chi si oppone agli sforzi di Trump di smantellare la politica sui cambiamenti climatici, anche in vista della Conferenza Onu sul clima (Cop 24) che si apre fra 3 giorni a Katowice in Polonia. Per pura ironia della sorte, si tratta di un luogo che si trova a 150 chilometri dalla più grande centrale elettrica a carbone d’Europa, che nell’aprile 2014 era stata indicata dalla Commissione europea come “la centrale elettrica più dannosa per il clima nell’Unione europea”.
In linea di principio, la riunione ha diversi elementi di interesse. Il lavoro più importante e urgente riguarda il completamento del cosiddetto “Paris Agreement Work Programme” (Pawp) ovvero il “Programma di lavoro per gli accordi di Parigi” che serve per rendere operativo l’accordo: modalità, procedure, linee guida, quello che cioè è stato definito il “rulebook” dell’accordo. Il Pawp include molte questioni relative alla mitigazione, all’adattamento e al sostegno ai paesi in via di sviluppo.
Così come era avvenuto con il protocollo di Kyoto, l’accordo di Parigi, siglato nel 2015, ha richiesto e probabilmente richiederà altri incontri con l’obiettivo di puntualizzare meglio diverse questioni aperte. La nuova posizione dell’amministrazione americana non aiuta il processo e anche fra le nostre mura il dibattito sull’accordo sembra essere sparito dal radar. D’altra parte, la parola clima non è mai citata nel contratto giallo-verde “per il governo del cambiamento”, anche se si ritrova il termine “cambiamento climatico” nella sezione intitolata “Ambiente, green economy e rifiuti zero”. Per il contrasto al cambiamento climatico ci si limita a dire che “sono necessari interventi per accelerare la transizione alla produzione energetica rinnovabile e spingere sul risparmio e l’efficienza energetica in tutti i settori”, una frase così generica da essere perfetta forse per un programma elettorale, ma non di certo per un programma di governo.

giovedì 29 novembre 2018

Ucraina: a un passo dalla guerra con la Russia. Chiesto supporto navale alla Nato

Fonte: W.S.I. 29 novembre 2018, di Alberto Battaglia

Il presidente ucraino Petro Poroshenko ha invocato apertamente il sostegno militare della Nato per contenere la minaccia proveniente dalla Russia. In un’intervista rilasciata alla rivista tedesca Bild, il presidente del Paese ha dichiarato che “la Germania è una dei più vicini alleati” dell’Ucraina e che spera che “gli stati della Nato siano pronti a ricollocare le navi verso il Mar d’Azov allo scopo di assistere l’Ucraina e fornire sicurezza”. Oggi il primo ministro ucraino, Volodymyr Groysman è in visita nella capitale tedesca.
La situazione fra Russia e Ucraina ha raggiunto il nuovo picco di tensione domenica 25 novembre, dopo che le forze russe hanno aperto il fuoco su tre navi ucraine che non avrebbero rispettato i comandi nelle loro acque territoriali. Poroshenko ha dunque fatto approvare dal parlamento la legge marziale nelle aree confinanti con la Russia.
“Non possiamo accettare questa politica aggressiva da parte della Russia”, ha aggiunto il presidente ucraino, “prima la Crimea, poi l’Ucraina orientale, ora vuole il Mar d’Azov (…) Anche la Germania deve chiedersi: cosa farà Putin se non lo fermiamo?”.
Poroshenko però si è detto fiducioso nei confronti della cancelliera tedesca Angela Merkel, definita come una “grande amica” dell’Ucraina: “Nel 2015, ha già salvato il nostro Paese grazie alle sue trattative a Minsk, e speriamo che ci sosterrà ancora una volta con altrettanta forza, insieme ai nostri altri alleati”.

Il presidente aveva già fatto sapere che il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, aveva assicurato in una conversazione telefonica, “pieno sostegno, piena assistenza, compresa l’assistenza militare, pieno coordinamento, per proteggere la sovranità ucraina e la sua integrità territoriale”.
In un intervento televisivo sull’emittente nazionale, Poroshenko aveva insistito sulla serietà della situazione: “Non voglio che nessuno pensi che questo sia un gioco. L’Ucraina è sotto la minaccia di una guerra su vasta scala con la Russia”.

mercoledì 28 novembre 2018

No, cara Repubblica, niente inganni: la stampa italiana non è sotto assedio

Fonte: Il Fatto Quotidiano Media & Regime | 26 novembre 2018 


È una tecnica antica: se sei in difficoltà attacca, creati un comodo bersaglio per colpire meglio. È quanto ha fatto la Repubblica, domenica 25 novembre al teatro Brancaccio, presentando la stampa italiana come assediata dal potere. Non è così, naturalmente. La politica discute di editori impuri che utilizzano i giornali per coprire certi scandali (caso Consip) e ampliarne altri (caso Raggi), eccetera. È un fatto. Ma di questo al Brancaccio non s’è detto nulla perché, secondo una tesi ben sintetizzata da Umberto Eco, “non sono le notizie che fanno il giornale, ma il giornale che fa le notizie”, e la Repubblica i fatti, nel teatro romano, li ha cucinati a modo suo. Meglio far parlare la giornalista filippina, Maria Ressa, minacciata per le critiche a Rodrigo Duterte. L’Italia come le Filippine, come il Brasile, come la Turchia: questa è la costante degli interventi, il filo rosso che li lega.
Intendiamoci, sono state dette cose vere sulla situazione del giornalismo nel mondo, ma non c’entrano nulla – è questo il punto – con l’Italia. E tuttavia, costruita la tesi, bisognava supportarla: ed ecco Ezio Mauro affermare che le aggressioni alla stampa sono il segno dell’attacco alla liberaldemocrazia in tutto l’Occidente. Ecco Sebastiano Messina esplicare, senza veli, il senso della giornata: “a differenza di Erdogan, i 5stelle non vogliono addomesticare i giornali, vogliono chiuderli definitivamente”. Poche parole di Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista – sbagliate, certo – hanno trasformato l’Italia in luogo di negazione della libertà di stampa. Un’esagerazione.
È evidente la volontà – anche attraverso la manifestazione al Brancaccio – di passare per vittime di un potere ostile, che in verità vuol mettere regole in conflitti d’interesse noti a tutti, meno che a largo Fochetti. E infatti, zero interventi sugli editori impuri e spazio a Donald Trump (Zucconi) e alla negazione della libertà di stampa in Turchia (Baydar), con l’idea fissa che anche in Italia sia così. Responsabili i grillini, naturalmente, come hanno detto Messina e Bottura mostrando (si fa per dire) “la strategia di delegittimazione della stampa del M5s”. È davvero troppo. Mario Calabresi indica “le truffe” del governo sull’informazione. Credo che la grande truffa, in verità, sia fingere di non vedere il conflitto d’interesse di editori come Carlo De Benedetti (tema ignorato con scientifica meticolosità).
Ragionare di diritti che nessuno nega – come al Brancaccio – è un inganno: è parlar d’altro spacciando il nostro per un Paese sudamericano. Tiziano Terzani dice: “Il mio istinto è sempre stato di stare lontano dal potere. Lo puoi chiamare anche una forma di moralità. Ho sempre avuto questo senso di orgoglio che io al potere gli stavo di faccia, lo guardavo, e lo mandavo a fanculo. Invece di compiacerlo controllavo che cosa non andava, facevo domande. Questo è il giornalismo”. Ecco, è quello che la Repubblica non ha fatto col potere quando governavano Monti, Letta, Renzi e Gentiloni. Adesso scopre che in Italia c’è un clima sudamericano (perché la politica tocca gli interessi del suo editore). Suvvia, questa se la bevono solo i lettori di Marziani. Si nasconde il tema dell’editore impuro – questo è il punto – perché l’espressione “conflitto d’interesse” deve essere accostata solo a Berlusconi. Non va bene. È un gioco che non regge più.
Post scriptum. Primo: “I nazisti facevano sempre riferimento al popolo – ha detto Damilano – anche oggi si fa continuamente riferimento al popolo.” Damilano cita Bobbio e l’Elogio della mitezza e della misura. Peccato sia andato oltre misura accostando i 5Stelle ai nazisti. Secondo: “Si può prendere alla lettera un intervento comico di Grillo – contro L’Unità, Repubblica, Corriere – e presentarlo come un programma politico? Ecco: sono queste esagerazioni che, secondo i 5stelle, fanno di Repubblica un giornale fazioso. Non hanno tutti i torti.

Media & Regime | 26 novembre 2018

martedì 27 novembre 2018

Alert WTO: deterioramento commercio accelererà a fine 2018

Fonte: W.S.I. 27 novembre 2018,  di Daniele Chicca

La frenata delle attività commerciali globali subirà una nuova accelerazione a fine anno, compromettendo la crescita economica mondiale. Lo dice uno degli indici chiave tra quelli preparati dalla principale organizzazione di libero scambio, la World Trade Organization con sede a Ginevra (WTO).
D’altronde, intervenuto a Rio de Janeiro (Brasile) durante un evento il mese scorso, il direttore generale del gruppo Roberto Azevêdo aveva lanciato un monito in merito: anche se le ultime notizie ottimiste suggerivano che Cina e Stati Uniti avrebbero presto ripreso la strada del dialogo, Azevêdo aveva detto al pubblico presente in sala che la guerra commerciale tra le due prime potenze economiche al mondo era tutt’altro che conclusa.
“A essere sinceri, non penso che sia finita qui. Hanno molte munizioni a disposizione e la guerra commerciale potrebbe toccare altre aree che non riguardano soltanto i dazi o il commercio”.
E ora è l’indice sulle previsioni future del WTO a confermare che i sospetti e le paure di Azevêdo erano fondati. Secondo l’ultimo aggiornamento disponibile pubblicato di recente, le attività commerciali stanno subendo una nuova frenata nel quarto trimestre dell’anno.
Si tratta del secondo deterioramento trimestrale consecutivo e non è un buon segno per l’andamento economia globale.

lunedì 26 novembre 2018

Eurozona, con l’austerity ci rimettono i Paesi in difficoltà. Altro che Unione monetaria

Fonte: Il Fatto Quotidiano  Economia & Lobby | 26 novembre 2018 
di Riccardo Realfonzo (è professore ordinario all’Università del Sannio, direttore di economiaepolitica.it e coordinatore della Consulta economica FIOM-CGIL)

Presento di seguito, con alcune note esplicative, le slides della mia conferenza tenuta al convegno dell’associazione Asimmetrie Euro, mercati, democrazia 2018, svoltosi a Montesilvano l’11 novembre 2018.
1. La crisi dell’eurozona
L’Unione monetaria europea si presenta oggi come un’unione incompleta. Abbiamo una moneta unica, ma non una banca centrale che funzioni da prestatore di ultima istanza (garantendo sempre l’acquisto di titoli del debito pubblico e quindi assicurando l’impossibilità del default degli Stati dell’Unione). Inoltre, non abbiamo un bilancio significativo dell’Unione, né una politica fiscale unitaria e dotata di strumenti di debito dell’Unione (es: eurobond) e di meccanismi redistributivi che riparino i Paesi aderenti dagli shock che li colpiscono in modo asimmetrico. Si tratta di scelte politiche che hanno avuto come conseguenza la forte dinamica degli spread tra i rendimenti dei titoli del debito pubblico e che hanno accentuato i processi spontanei di divergenza che portano lo sviluppo a concentrarsi in alcune aree di Europa.

Gli squilibri interni all’Eurozona risultano sempre più gravi, e la preoccupante previsione formulata dal “monito degli economisti” (pubblicato nel 2013 dal Financial Times e da economiaepolitica.it) risulta sempre più attuale.

L’impetuosa dinamica dei processi di divergenza in Europa, che rende i Paesi sempre più diversi tra loro e conferma che l’Unione monetaria non costituisce un’area valutaria ottimale (nella quale i benefici dell’adesione alla moneta unica superano i costi), risultano confermati dall’osservazione della dinamica del coefficiente di variazione del tasso di crescita del Pil pro capite: i Paesi crescono a ritmi che divergono sempre più.

2. Gli effetti dell’austerità
Dopo la crisi scoppiata tra le fine del 2007 e il 2008, i Paesi europei che al momento dell’unificazione avevano fondamentali di finanza pubblica più deboli e condizioni di ritardo competitivo sono stati costretti dai Trattati a praticare severe politiche di austerità, tagliando la spesa pubblica e aumentando la pressione fiscale (consolidamenti fiscali). Secondo la letteratura più liberista e la stessa Commissione europea, queste politiche di austerità potevano risultare espansive. Si riteneva, infatti, che gli aumenti della spesa pubblica sul Pil (il cosiddetto moltiplicatore della politica fiscale) fossero negativi (o comunque prossimi allo zero). Pertanto, i tagli della spesa avrebbero aumentato la crescita (o comunque non l’avrebbero frenata). Questa teoria dell’”austerità espansiva” è stata subito criticata dagli economisti keynesiani, anche in numerosi lavori pubblicati da economiaepolitica.it. Secondo gli economisti keynesiani il moltiplicatore è positivo e maggiore di uno. Pertanto, le politiche di austerità non possono che avere un impatto fortemente recessivo.

Effettivamente, le politiche di austerità hanno determinato effetti recessivi intensi nei Paesi che le hanno praticate, come si osserva ponendo pari a 100 il valore del Pil di tutti i Paesi nel 2007. La divergenza esplode. L’Italia è ancora lontana dal recuperare il valore della ricchezza prodotta annualmente nel 2007, mentre di contro la Germania è cresciuta negli ultimi dieci anni di circa il 12%.

Le politiche di austerità non sono nemmeno riuscite nell’intento principale che si erano poste: risanare le finanze pubbliche, come si osserva guardando al dato relativo ai Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna). La riduzione del Pil conseguente all’austerità, anche a causa della riduzione della raccolta fiscale, ha peggiorato ampiamente il rapporto debito/Pil.

La dinamica dei processi di divergenza e le conseguenze delle politiche di austerità si possono apprezzare anche sul piano occupazionale. In Italia l’occupazione non è ancora tornata al livello del 2007 (nonostante il forte peggioramento della qualità dell’occupazione e la ben maggiore possibilità di ricorrere a contratti di lavoro a termine), mentre contemporaneamente in Germania il numero complessivo di occupati è cresciuto quasi del 10%.

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