25/04/2016 di
triskel182
Dopo gli ultimi
dati
sui voucher – e sulla loro crescita esponenziale in Italia – finalmente
qualcuno nei media e tra i politici sembra accorgersi di questa nuova
realtà e delle questioni che porta con sé: precariato totale, redditi
da fame, totale assenza di diritti basilari come le ferie e la
malattia, ovviamente nessuna possibilità di vertenze sindacali, per non
dire degli
abusi
di chi li utilizza per nascondere il nero (ti faccio lavorare dieci ore
e una te la pago col voucher, così se arriva un controllo o accade un
infortunio abbiamo un pezzo di carta a coprirci).
E non stiamo
neppure ad accennare alla perdita psicologica di identità sociale (che
lavoro fa, uno che lavora qua e là con i voucher?) o all’impossibilità
di pianificarsi qualsiasi futuro: questi ormai sono lussi, lasciamo
stare.
Il punto fondamentale, tuttavia, è che i voucher non sono
la causa del problema: ne sono solo l’effetto. Anzi, uno degli effetti.
Intendo
dire che se anche abolissimo e vietassimo i voucher, non aboliremmo e
non vieteremmo quello che c’è dietro, cioè l’economia on demand,
liquida, provvisoria e destrutturata. Dove l’unico lavoro disponibile è
quello molecolare, polverizzato.
Quel sistema cioé in cui per
guadagnarsi qualcosa che somigli a un reddito molte persone (sempre di
più) devono mettere insieme ogni giorno un po’ di queste molecole
sparse: un paio d’ore di voucher, okay, ma poi un’altra oretta a
correggere bozze dopo aver risposto a un annuncio su Upwork, un’altra a
pascolare cani al parco grazie a un’offerta su Taskrabbit, quindi a
pulire la seconda stanza di casa perché arriva un ospite trovato su
Airbnb, magari due ore a guidare per Uber, infine a cucinare per sei
clienti ramazzati su Gnammo.
Perché così sta andando e così andrà
sempre di più: i lavoretti “per arrotondare” stanno invece diventando
gli unici disponibili su piazza.
Gli unici che messi insieme possono appunto avvicinare le persone a un reddito.
Ed è così che si va creando una nuova classe sociale: quella dei
post operai digitali a cottimo o all’ora che per vivere saltellano full time tra piattaforme, siti, annunci on demand e miniofferte volanti.
Del
resto, anche i voucher nostrani erano nati per far emergere e per
regolarizzare pochi lavoretti extra: invece sono già diventati la forma
di sostentamento principale se non unica per oltre un milione di
persone.
Ma, appunto, non sono la causa del problema: ne sono un
effetto. Se hanno avuto così successo (molto oltre le previsioni di chi
li aveva inventati) è perché canalizzano in modo legale la questione
strutturale: cioè la parcellizzazione del lavoro, il suo essere
diventato così liquido.
Tutto questo, come evidente, è il risultato di una serie di processi diversi tra loro ma connessi.
Le
tecnologie, prima di tutto: non solo e non tanto perché queste hanno
permesso lo sviluppo delle piattaforme attraverso le quali buona parte
di questa parcellizzazione avviene, ma soprattutto perché hanno portato
tutte le relazioni economiche verso l’on demand e l’accesso (Uber, per
esempio, è la più grande compagnia di taxi al mondo ma non possiede
nemmeno un’automobile e i suoi conducenti non sono suoi dipendenti).
Poi, naturalmente, le cause di questa situazione sono anche altre.
Ad esempio, la robotica, gli algoritmi e l’intelligenza artificiale: che
stanno rarefacendo drasticamente
il bisogno di lavoro umano, sicché (in base alle note leggi della
domanda e dell’offerta) i prestatori di lavoro sono in condizioni sempre
più sfavorevoli, quindi accettano dumping sempre peggiori.
Poi,
si sa, la globalizzazione dei mercati consente di esternalizzare le
produzioni nei Paesi in via di sviluppo, un asset non da poco nel
cambiare ulteriormente i rapporti di forza tra chi dà e chi presta
lavoro.
In piú, anche se fa brutto dirlo, prima del 1989 lo
spauracchio del comunismo convinceva gli imprenditori e i governi a
tenere buoni i propri lavoratori con concessioni e riforme sociali:
adesso che il comunismo non c’è più, questi hanno (o credono di avere)
mani del tutto libere.
Ecco: tutto questo per dire che i voucher
fanno schifo, ma abolirli non basta. Non serve. Perché se anche se non
ci fossero piú i voucher, ci sarebbero mille altre forme di lavoro
molecolare a cottimo o a ora. È questa la realtà con cui dobbiamo fare i
conti.
Ed è una realtà che porta inevitabilmente a pensare che
l’unica strada possibile – se vogliamo restare umani e non considerare
“moderno” lo schiavismo – sia quella universalistica.
Quella che
passa cioè attraverso un reddito minimo che sradicherebbe alla base il
bisogno di inginocchiarsi ogni giorno alle offerte al ribasso del
lavoro molecolare, riportandolo semmai alla sua funzione di reddito
supplettivo e marginale. E riequilibrando un po’ i rapporti di forza.
Ma
è anche la strada che passa attraverso la universalizzazione dei
servizi e dei diritti fondamentali – casa, salute, istruzione,
trasporti, ambiente, svago – la cui offerta gratuita ai cittadini è un
altro indispensabile strumento di emancipazione dal bisogno di
sottostare ai ricatti imposti dal lavoro molecolare.
Ah, prima di
scuotere la testa e di chiedere dove si trovano i soldi per fare tutto
questo, vi chiedo sommessamente di farvi un giro sui fatturati e le
accumulazioni delle piattaforme. Sì, proprio
quelle che sotto il nome ormai farlocco di sharing invece
accentrano
a sé le ricchezze (altro che “condivisione”), contribuendo a creare un
divide di redditi e di patrimoni come non si vedeva dall’età augustea
dell’Impero romano. Quando avete visto quelle cifre – ma più in generale
quelle sulla
ripartizione della ricchezza in questo secolo e sulle sue tendenze – ne riparliamo.
Altrimenti
dovremo parlarne molto prima, ma in modo diverso, temo. Perché la
parcellizzazione del lavoro e il suo dumping progressivo, se diventa
una condizione di sopravvivenza di massa, non è cosa augurabile per
nessuno. Ma
proprio per nessuno,
nemmeno per quelli che pensano solo alla massimizzazione dei profitti e
neppure vedono che cosa stanno combinando, in questo modo, alle classi
che da 70 anni garantivano stabilità e consumi. E anche pace, tutto
sommato, qui da noi.
Già, a proposito di 70 anni, anzi di 71. Sì,
questo è il mio post per il 25 aprile. Anomalo, forse off topic, lo so.
Non parla di partigiani, ma di lavoretti sottopagati e precari senza
alternative.
Però in fondo i partigiani sono morti per liberarci
da una schiavitù. E capire le schiavitù di oggi, per provare a
liberarcene anche noi, mi sembra un modo meno scontato per
agire la loro memoria. E per non ridurla solo a monumento e a rito.
Da gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it
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il problema è farlo capire agli italiani......