Fonte: Il Fatto Quotidiano Scienza - 23 Ottobre 2019 Andrea Aparo von Flüe
Ci
sono notizie che, per quanto interessanti, è opportuno lasciare
decantare per evitare che qualsiasi cosa si dica venga fraintesa, perché
il tempo è sbagliato. Facciamo riferimento a quanto raccontato un paio
di settimane fa a proposito di Venere e di come in un tempo passato, lontano ma reale, possa avere avuto atmosfera, clima e meteorologia molto simile a quella della Terra di oggi. Venere, unico pianeta con un nome femminile. Ha una massa che è circa l’80% di quella terrestre e un diametro pari al 95%. Di fatto è il gemello diverso della Terra.
Diverso perché è l’unico pianeta del sistema solare ad avere un’orbita quasi perfettamente circolare
e impiega 225 giorni a completarla. Ruota molto lentamente su se
stesso, in senso orario, opposto a quello della Terra e dunque produce
uno scudo magnetico debole. Un giorno su Venere è pari a 243 giorni
terrestri. Ruota in direzione opposta a quella della sua orbita e
quindi passano 117 giorni fra quando il sole sorge a ovest e tramonta a
est.
Non ha stagioni perché il suo asse di rotazione è quasi verticale e le sue notti non hanno luna perché, come Mercurio,
è sprovvisto di satelliti. Ha una struttura geologica simile a quella
della Terra, con una crosta basaltica – una singola placca tettonica
spessa un centinaio di chilometri di roccia dalle mille sfumature di
grigio illuminate da una luce arancione, sottoposta a una pressione che è
90 volte quella terrestre e una temperatura superficiale pari a 460
gradi centigradi – un mantello e un nucleo ferrosi di circa 300 km di
diametro.
Possiede vulcani attivi, montagne alte 17 chilometri. L’alta temperatura
al suolo è dovuta alla vicinanza al Sole e all’effetto serra dei gas
che compongono la sua atmosfera: anidride carbonica e nuvole di acido
solforico spinte da venti che le fanno viaggiare alla velocità media di
3760 chilometri all’ora. Un inferno decisamente inospitale.
C’è stato un tempo però, più o meno 3 miliardi di anni fa, quando Venere era un paradiso.
C’erano mari e oceani, fiumi e laghi e una temperatura superficiale
compresa fra i 20 e i 50 gradi centigradi. Dello stesso ordine di
grandezza di quella della nostra Terra oggi.
Secondo i risultati delle simulazioni elaborate da Michael Way e Anthony Del Genio del Goddard Institute for Space Science della Nasa, pubblicate a fine settembre scorso, per miliardi di anni Venere ha goduto di un clima stabile, che può avere consentito lo sviluppo di forme di vita. Poi circa 700-750 milioni di anni fa è accaduto qualcosa, o una serie di eventi concatenati, che hanno distrutto tutto.
Il
Sole, invecchiando, diventa sempre più caldo. Può avere arrostito
Venere. Può esserci stata un’attività vulcanica ed eruttiva
parossistica, dove l’anidride carbonica e altri gas a effetto serra
rilasciati dal magma hanno riempito l’atmosfera. Il rapido
raffreddamento della lava non consentì all’anidride carbonica di essere
riassorbita, innescando un effetto serra letale.
Perché non
parlarne prima? Perché pochi avrebbero ascoltato e molti avrebbero
usato l’informazione a proprio vantaggio. Erano i giorni di Greta Thunberg che parla alle Nazioni Unite, di Donald Trump
che twitteggia, garrulo, pallido e assorto, le sue sciocchezze; dello
scontro senza dialogo fra negazionisti e fondamentalisti del cambiamento
climatico. Chissà se 750 milioni di anni fa è accaduto lo stesso su
Venere.
Decisori venusiani certi che nulla sarebbe mai cambiato,
visto che nulla era cambiato per 3 miliardi di anni, a cui gli
scienziati locali mostravano inutilmente dati, modelli, simulazioni che
evidenziano un cambiamento in atto. Zittiti perché non sanno quali ne
siano le cause: naturali, artificiali, forse entrambe le cose. Tutti
comunque maltrattati da una ragazzina, sempre venusiana, più derisa che
ascoltata, che dice con voce forte e chiara che il re è nudo.
Allora come oggi, la fisica
è la stessa. Allora come oggi nessuno può ragionevolmente negare che,
in un sistema altamente complesso, qual è l’interazione fra geo-,
atmo-, idro- e biosfera, tutti i fenomeni sono di tipo esponenziale e
sottoposti a dinamiche di non equilibrio che permettono al sistema di
evolvere, anche in modi quasi istantanei, in configurazioni
catastrofiche, altamente improbabili, ma possibili perché già avvenute
in passato. Vedi l’ultimo periodo glaciale, iniziato 110mila anni fa e
terminato circa 10mila anni fa a causa di 192 anni – un niente – di
eruzioni vulcaniche in Antartide.
Eppure c’è chi nega. C’è chi
crede, perché si tratta di teologia e non di scienza, che quanto stia
accadendo sia “causato” dagli uomini e che un opportuno intervento di
segno opposto possa rimettere, linearmente, le cose a posto. Tutta
responsabilità della CO2. Basta ridurla, eliminarla – dicono con la solita arroganza del genere umano – e il gioco è fatto.
Esiste invece la seria possibilità che l’attuale fase del cambiamento climatico, perché il clima cambia continuamente e da sempre, sia innescata e alimentata da fenomeni naturali
di cui non abbiamo nessun controllo: variazione dell’irraggiamento
solare, circolazione dei venti e delle correnti oceaniche, ventilazione
degli oceani profondi, attività vulcaniche, modifica della composizione
dell’atmosfera. Lista del tutto parziale.
L’attività dell’uomo può agire da catalizzatore,
accelerando le conseguenze di tali fenomeni. Non è detto che
interrompendola vengano rallentati o modificati. Comunque sia, qualcosa è
in atto. Non importa quale sia la causa, o le cause. Comunque dobbiamo attrezzarci
per affrontare le conseguenze. Siamo tutti sulla stessa barca. Le
attuali politiche ed equilibri geo-economici hanno fatto il loro tempo.
Servono nuove istituzioni di decisione e governo internazionale.
Una nuova coscienza democratica.
Conoscenza, responsabilità, non chiamarsi fuori. Serve un’etica
innovativa. Invece stiamo a menare il can per l’aia, certi di avere
chissà quanto tempo a disposizione. Certezza che altro non è se non una
pericolosa, criminale, sciocchezza.
si parla di progresso, di evoluzione, di civiltà ci ritroviamo invece in un nuovo medio evo dove conta chi si nasconde dietro il potere o vi si allea con esso.
mercoledì 23 ottobre 2019
martedì 22 ottobre 2019
Emirati Arabi Uniti, dove occuparsi di diritti umani costa 10 anni di carcere
Fonte: Il Fatto Quotidiano Mondo - 21 Ottobre 2019 Riccardo Noury
Domani Ahmed Mansoor compirà 50 anni e, per la terza volta, trascorrerà il compleanno in carcere. Per la precisione, nella prigione di al-Sadr, negli Emirati Arabi Uniti: un paese dove occuparsi di diritti umani è un reato.
Mansoor, insignito nel 2015 del premio Martin Ennals per i difensori dei diritti umani, ha a lungo collaborato col Centro per i diritti umani del Golfo e Human Rights Watch. Arrestato il 20 marzo 2017 e detenuto per sei mesi in isolamento senza poter contattare un avvocato, il 29 maggio 2018 è stato giudicato colpevole di “offesa allo status e al prestigio degli Emirati Arabi Uniti e dei suoi simboli, compresi i suoi leader”, “pubblicazione di notizie false per screditare la reputazione degli Emirati Arabi Uniti all’estero” e per aver descritto lo stato come “una terra senza legge”.
La condanna, confermata in appello sette mesi dopo, è stata pesante: 10 anni di carcere seguiti da tre anni di libertà vigilata, oltre a una multa di un milione di dirham (circa 250.000 euro).
Quest’anno, a maggio e a settembre, ha intrapreso scioperi della fame per protestare contro le condizioni detentive. La seconda volta l’hanno picchiato duramente. Resta in isolamento, in una cella priva di acqua corrente e di un letto, da cui può uscire solo in occasione delle visite familiari.
Di questa storia, così come delle leggi liberticide degli Emirati Arabi Uniti e del ruolo di primo piano di questo stato nel conflitto dello Yemen, la comunità internazionale si disinteressa. Gli Emirati Arabi Uniti sono un generoso acquirente di armi, un vantaggioso partner per investimenti economici e uno scintillante esempio di modernità e globalità: tanto che ospiteranno addirittura Expo 2020. Con Mansoor, probabilmente e purtroppo, ancora in carcere.
Domani Ahmed Mansoor compirà 50 anni e, per la terza volta, trascorrerà il compleanno in carcere. Per la precisione, nella prigione di al-Sadr, negli Emirati Arabi Uniti: un paese dove occuparsi di diritti umani è un reato.
Mansoor, insignito nel 2015 del premio Martin Ennals per i difensori dei diritti umani, ha a lungo collaborato col Centro per i diritti umani del Golfo e Human Rights Watch. Arrestato il 20 marzo 2017 e detenuto per sei mesi in isolamento senza poter contattare un avvocato, il 29 maggio 2018 è stato giudicato colpevole di “offesa allo status e al prestigio degli Emirati Arabi Uniti e dei suoi simboli, compresi i suoi leader”, “pubblicazione di notizie false per screditare la reputazione degli Emirati Arabi Uniti all’estero” e per aver descritto lo stato come “una terra senza legge”.
La condanna, confermata in appello sette mesi dopo, è stata pesante: 10 anni di carcere seguiti da tre anni di libertà vigilata, oltre a una multa di un milione di dirham (circa 250.000 euro).
Quest’anno, a maggio e a settembre, ha intrapreso scioperi della fame per protestare contro le condizioni detentive. La seconda volta l’hanno picchiato duramente. Resta in isolamento, in una cella priva di acqua corrente e di un letto, da cui può uscire solo in occasione delle visite familiari.
Di questa storia, così come delle leggi liberticide degli Emirati Arabi Uniti e del ruolo di primo piano di questo stato nel conflitto dello Yemen, la comunità internazionale si disinteressa. Gli Emirati Arabi Uniti sono un generoso acquirente di armi, un vantaggioso partner per investimenti economici e uno scintillante esempio di modernità e globalità: tanto che ospiteranno addirittura Expo 2020. Con Mansoor, probabilmente e purtroppo, ancora in carcere.
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