giovedì 16 febbraio 2017

Debito e crescita, l’Italia torna il malato d’Europa (Carlo Di Foggia)

La trattativa, se mai è iniziata, si è chiusa: l’Italia si adeguerà per intero alla correzione sui conti pubblici da 3,4 miliardi chiesta dalla Commissione europea. A Pier Carlo Padoan resta solo il compito di mediare con Matteo Renzi su dove reperire i soldi (il segretario Pd – lo ha ribadito ieri – non vuole “aumenti di tasse”). Di certo non potrà contare su una robusta crescita economica per allegerirne l’entità. Ieri Bruxelles ha diffuso le sue “Winter forecast”, le previsioni d’inverno sull’economia dei Paesi dell’Unione. “Prendiamo nota positivamente dell’impegno preso di attuare la correzione entro aprile”, si legge nel focus su Roma.
“Non c’è nessun ultimatum, ma un dialogo costante”, ha precisato il Commissario all’Economia Pierre Moscovici dopo aver ricordato che “i lavori del rapporto sull’evoluzione del debito pubblico italiano sono in corso”.
Parliamo del documento con cui, il 22 febbraio la Commissione spiegherà che l’Italia continua a violare la regola sulla riduzione del debito, ed è pronta ad aprire una procedura d’infrazione (il clima è sfavorevole a Roma). Probabile, però, che la decisione venga rinviata in attesa di vedere le misure che Padoan consegnerà a Bruxelles, ma anche se si andrà alle elezioni a giugno. Eventualità che spaventa più di ogni altra cosa: “Sull’Italia pesa la fase di incertezza politica”, avverte il focus.
Non è l’unica notizia uscita dalle winter forecast . L’altra è appunto che il governo non potrà contare sulla crescita per alleggerire gli aggiustamenti come da giorni ipotizza la stampa italiana. Secondo l’Ue, infatti, quest’anno l’Italia farà registrare la più bassa crescita del Pil tra tutti i 28 Paesi dell’Unione (Grecia compresa), in un panorama dove – per la prima volta dal 2008 – sono visti tutti in crescita nell’orizzonte 2016-2018.
Per Bruxelles, nel 2016 il Pil dell’Italia segnerà un +0,9%; stesso livello nel 2017, per poi salire a +1,1% nel 2018. Il governo stimava invece una crescita dell’1% nel 2017 e dell’1,2 nel 2018. Le stime divergono soprattutto sul debito pubblico, che nei documenti redatti da Padoan era atteso calare già quest’anno. Per l’Ue, invece, salirà dal 132,8% del Pil del 2016 al 133,3% del 2017, per poi solo stabilizzarsi nel 2018. Anche sul deficit le previsioni divergono, mentre la disoccupazione scenderà solo dello 0,2%, all’11,4%, nel 2018 . Si tratta certo di numeri da prendere con le molle. Per Atene, ad esempio – Paese in piena crisi umanitaria – l’Ue stima un Pil a +2,7% nel 2017 e +3,1% nel 2018, quando dovrebbe raggiungere un “avanzo” di bilancio perfino superiore a quello impostogli dalla Troika e definito “irrealizzabile” dal Fondo monetario internazionale. Il guaio è che anche per l’Italia finora le previsioni hanno peccato di ottimismo. La realtà si è sempre rivelata peggiore.
L’effetto sui conti pubblici è evidente dai numeri infilati nei documenti di bilancio: Renzi ha contrattato con Bruxelles una stretta fiscale da 18 miliardi nel 2018 e di 20 e dispari nel 2019 per arrivare al pareggio di bilancio. In conto ci sono aumenti dell’Iva per 40 miliardi nel biennio. “Bisogna partire subito individuando i tagli di spesa da fare nel 2018”, avvertiva domenica il viceministro all’Economia Enrico Morando. Dove trovare i soldi? Nella relazione annuale 2016, diffusa ieri, la Corte dei conti spiega che “sul lato del contenimento della spesa i margini sempre più stretti, derivanti anche dai risultati importanti già conseguiti negli ultimi anni, hanno indotto, da tempo, la Corte a suggerire un ripensamento delle condizioni e dei confini dell’intervento pubblico, nonché delle modalità di fruizione dei servizi”. Non si può più tagliare sulla spesa senza cancellare servizi e prestazioni del pubblico. Tanto più che “nel 2011-15 si è registrata una riduzione della spesa corrente primaria reale nonostante un calo del Pil reale di quasi 10 punti”.
Mentre Bruxelles diffondeva le sue stime, il presidente della Corte Arturo Martucci di Scarfizzi spiegava all’inaugurazione dell’anno giudiziario che “la ripesa dell’attività produttiva è ancora fragile, soprattutto in relazione ai vincoli di finanza pubblica che derivano all’Italia dall’appartenenza all’Ue e alla moneta unica”.
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 14/02/2017.
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e se si pensa a tutte le regalie fatte a destra e a manca per qualche voto in più...

mercoledì 15 febbraio 2017

Trattato Ue-Canada: dopo l’abbraccio con Trump, Trudeau cerca alleati (e voti) in Europa

di | 14 febbraio 2017  il Fatto Quotidiano

di Monica Di Sisto*
Caldo dell’abbraccio con il presidente Usa Donald Trump, Justin Trudeau va a Strasburgo dove spera di convincere di persona quanti più europarlamentari possibili che l’accordo di liberalizzazione commerciale tra Europa e Canada, il Ceta, che sarà domani al voto, sia cosa buona e giusta. Il Giovane Trudeau, tuttavia, ieri ha strappato per il suo Paese migliori condizioni del Messico in quel processo di revisione della ventennale area di libero scambio Nafta annunciata da Trump, che potrebbe confinare lavoratori e merci messicane non solo al di là del muro fisico, ma anche commerciale che gli stessi Usa e il Canada hanno issato con condizioni vantaggiose per i propri investitori, ma letali per lavoratori e ambiente.
Sul trattamento riservato al Messico Trudeau si guarda bene dall’esporsi; anche sulla questione Muslim ban e rifugiati, rispetto ai quali mesi fa si era fatto paladino di mamme e bambine in fuga, è stato sfumatissimo, ininfluente. Sembra una seconda puntata di quella attitudine della diplomazia commerciale canadese “falsa e cortese”, diremmo in Italia, che ha portato la sua ministra al Commercio, Chrystia Freeland a lasciare immediatamente Bruxelles ad arte quando la Vallonia ha chiesto alla burocrazia europea di fermare il dannosissimo Ceta: “Abbiamo deciso che era davvero importante non andarcene via da arrabbiato, perché volevamo che i Valloni fossero colpevolizzati”, ha detto testualmente la ministra al quotidiano Globe. “Sapete, noi siamo canadesi, per la gente siamo gentili, grandi, quindi il tono che abbiamo scelto era più di dispiacere che di rabbia. Questa modalità ha creato una crisi e ha trasformato questo in un loro problema. Nelle 24 ore successive, sapete quanti politici europei mi hanno chiamato per chiedermi di non andarmene?”.
Questo è il livello di affidabilità dei nostri partner commerciali che dovrebbero farci da argine a Trump. Un programma, quello di Trudeau, decisamente più vicino a Trump che a Obama considerato che appena il Tycoon è stato eletto si è congratulato pubblicamente per la scelta in virtù dei “comuni valori” dei loro governi, e lo ha di nuovo ringraziato per aver dato il via libera all’oleodotto Keystone XXL bloccato da Obama perché avrebbe accelerato la lavorazione di sabbie bituminone che lui considerava nemiche della sua “rivoluzione verde”.
A chi, ideologicamente, ancora sostiene che il Ceta sia uno strumento anti-Trump, questi argomenti dovrebbero bastare per capire che si sbaglia. Senza contare che 40mila imprese americane hanno sede in Canada e in virtù anche della riforma del Nafta potrebbero ottenere un ingresso a dazio zero nel nostro mercato anche se Trump, come ha annunciato, dovesse decidere di bloccare alla frontiere gioielli del made in Italy come i formaggi e addirittura la Vespa. Verrebbe, poi, garantito per la prima volta agli investitori canadesi di citare per danni i nostri Stati se le nostre leggi danneggiassero i loro interessi. E prima di farne di nuove, dovremmo consultarli e recepirne le indicazioni, o pagargli i danni, anche se con quelle leggi volessimo difendere l’ambiente o le persone.
Ci dicono, però, che con il Ceta gli europei risparmieranno 500 milioni di euro in tariffe doganali. Non è vero. Saranno soltanto le aziende che esportano in Canada ad avere questo vantaggio, che in verità è piuttosto risibile se rapportato al valore degli scambi tra Ue e Canada, che già oggi ammonta a più di 50 miliardi di euro. Il Ceta però sottrarrà agli Stati europei ben 331 milioni di euro di dazi riscossi fino ad oggi sulle merci in arrivo dal Canada. Questo a fronte di un aumento di Pil che – al lordo della Brexit di cui la Commissione non ha mai calcolato l’impatto sul trattato – per l’Europa, in dieci anni, vale tra lo 0,003% e lo 0,08% e per il Canada tra lo 0,3% e lo 0,76%. La Tuft University statunitense ha calcolato che il Ceta provocherà una perdita media di reddito da lavoro media di 615 euro tra tutti i lavoratori Ue, con punte minime di -316 euro fino a picchi di –1.331 euro in Francia, e la distruzione di 204mila posti di lavoro, dei quali circa 20mila in Germania e oltre 40mila sia in Francia sia in Italia.
Per questa e per migliaia di altre buine regioni, dobbiamo convincere i nostri europarlamentari a bocciare il Ceta domani a Strasburgo. In questa votazione la posta in gioco è la gran parte delle conquiste sociali raggiunte negli ultimi decenni. Per fermarlo stiamo scrivendo, telefonando, tartassando i nostri rappresentanti, insieme alle reti internazionali, facendo appello alle italiane e agli italiani che hanno a cuore l’interesse pubblico, i beni comuni, l’ambiente e la democrazia. In questa fase, più che mai, è necessario l’aiuto di tutti per fare pressione sugli europarlamentari favorevoli a questo accordo tossico.

Qui il link alla pagina dedicata alla mobilitazione, dove trovate tutte le istruzioni per attivarvi e contrastare il Ceta insieme.
*portavoce della Campagna Stop TTIP Italia
di | 14 febbraio 2017

martedì 14 febbraio 2017

Il Pianeta miniera (SILVIA BENCIVELLI)

“Ecco quanto pesa ciò che abbiamo preso alla Terra”Dal 1900 al 2010 estratti (o raccolti) 3 milioni di miliardi di chilogrammi Alessio Miatto, coautore dello studio, avverte: “Ma due terzi sono andati perduti”.
ROMA – Sono tonnellate di benessere, da mettere sulla bilancia per quantificare chi sta consumando più risorse, come le sta accumulando e a spese di chi: tonnellate vere, di cemento e acciaio, con cui costruiamo le nostre città e quello che ci sta dentro.
A condurre la prima operazione di pesa ecologica degli abitanti della Terra, nero su bianco sull’ultimo numero della rivista
Pnas, è stato un gruppo di ricercatori austriaci, australiani e giapponesi.

Il loro risultato mostra come il peso complessivo delle risorse prelevate dalla Terra tra il 1900 e il 2010 abbia raggiunto l’ammontare paperonesco di 2956 Petagrammi, vale a dire quasi 3 milioni di miliardi di chilogrammi. Di questa montagna di materie prime raccolte o estratte dal Pianeta (si va delle fibre vegetali all’acciaio) quelle in uso nel 2010 (sotto forma di abiti, strade, palazzi) erano solo il 27%: 792 Petagrammi (792 milioni di milioni di chilogrammi). Tutto il resto è andato distrutto, buttato al macero, abbattuto.
La ricerca mostra anche che, distinguendo Paese per Paese, la bilancia pende prepotentemente verso le nazioni ricche. Il trend è più o meno stabile con l’eccezione della Cina, che negli ultimi decenni ha cominciato a mettere su peso, cioè a costruire a gran ritmo, accumulando materiali che sono diventati città, strade, edifici, e nuovo benessere.
Tra i ricercatori di affiliazione giapponese c’è anche Alessio Miatto. Che, si intuisce dal cognome, in realtà è veneto e a Nagoya ci è andato dopo aver vinto una borsa di studio del governo con cui sta seguendo il dottorato in ingegneria ambientale. Laureato all’Università di Padova, il ricercatore 31enne in Giappone ha trovato il luogo ideale per un campo di studi del tutto nuovo. «La disciplina alla base di queste ricerche si chiama Material flow analysis – spiega – ed è nata negli anni Novanta per studiare i flussi di merci da e verso un Paese ». Oggi, con i flussi di merci si può fare di più: una valutazione ecologica. «L’idea cioè è di non guardare solo che cosa entra e che cosa esce, ma di studiare quello che resta, e che tecnicamente si chiama stock ».
Lo stock è come la Roba della novella di Giovanni Verga: è quello che si ha. E il suo peso è indice di ricchezza: «Alla fine ti interessa sapere quanto si accumula, nei magazzini ma anche sotto forma di edifici, strade, macchine», prosegue Miatto. Ma perché misurarlo in peso? «Perché se ne calcoli il valore economico può essere difficile fare paragoni: il valore del denaro cambia nel tempo, e in paesi diversi il costo della vita è diverso ».
La voracità occidentale era cosa nota, ma dallo studio emergono due novità. «La prima» spiega il giovane ricercatore italiano «è che se tutti volessero il nostro benessere dovremmo decuplicare l’estrazione di materiali, e questo non è sostenibile in termini di emissione di CO2». La seconda è che uno stock non è per sempre: «Gran parte degli stock di oggi in una trentina di anni sarà demolito, soprattutto in Usa e in Asia». E demolizione significa ancora CO2, e il materiale che perde di valore. «Un buon equilibrio sarebbe assestarsi tutti al livello nostro degli anni ‘70, trovando il modo di allungare la vita media degli edifici», chiosa Miatto.
Insomma andrebbe coinvolta la politica. «In effetti, il mio professore, Hiroki Tanikawa, va quasi ogni settimana a Tokyo al ministero a discuterne». E forse non sorprende che succeda proprio lì, e per ora soltanto lì. «Il Giappone è piccolo, densamente popolato e dipende moltissimo dalle importazioni.
Articolo intero su La Repubblica del 10/02/2017.

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Non è solo quel che si disperde nell'ambiente... ma pure quel che prediamo, o consentiamo di farlo, dalle sue viscere.

lunedì 13 febbraio 2017

Trump e la rinascita dell’impero Usa, la teoria apocalittica che potrebbe avverarsi

di | 12 febbraio 2017  Il Fatto Quotidiano

Perché il mondo ha paura di Steve Bannon, ormai considerato il teorico del Trumpismo, la nuova dottrina americana? Perché crede nella visione apocalittica che William Strauss e Neil Howe hanno teorizzato nel loro libro The Fourth Turning: What Cycles of History Tell Us About America’s Next Rendezvous with Destiny.
Secondo questa teoria la storia del popolo americano si muove in cicli di 80-100 anni chiamati saecula. L’idea risale ai tempi dell’antica Grecia quando si pensava che alla fine di ogni secolo ci sarebbe stato un ekpyrosis, un evento catastrofico in grado di distruggere il vecchio ordine e mettere le fondamenta di uno nuovo. Il periodo di transizione è il Fourth Turning.
Bannon, come Strauss e Howe identificano le transizioni passate americane con la Rivoluzione americana e la nascita dell’Unione; la guerra civile e la ricostruzione; la grande depressione e la Seconda guerra mondiale. Secondo Bannon, al momento l’America si trova nel bel mezzo di un nuovo Fourth Turning.
La dinamica di questi fenomeni eccezionali è sempre la stessa: periodi di terrore e di degrado sociale, economico e politico costringono il popolo americano a unirsi per ricostruire un nuovo futuro. Ma la ricostruzione e la rinascita avvengono solo dopo la catastrofe o un conflitto, e cioè dopo la perdita di molte vite. Il Fourth Turning inizia sempre con un casus belli eccezionale, poi c’è un periodo in cui si tenta di ricucire l’ordine pubblico, ma non ci si riesce e infatti subito dopo arriva la catastrofe che spazza via il nuovo ordine. Alla fine del processo arriva la risoluzione, la creazione di un nuovo ordine.
E’ interessante notare che per Bannon l’elemento catalizzante dell’attuale Fourth Turning è stato il crollo della Lehman Brother e la crisi finanziaria mondiale, non l’11 settembre. Al momento ci troviamo nella fase in cui si cerca di ricucire il tutto con scarsissimi risultati. Howe e Strauss descrivono questo periodo come una fase di grande isolamento, durante la quale un governo centralizzato molto potente ri-immagina l’economia e lancia grandi opere pubbliche per potenziare le infrastrutture del paese.
In altre parole, e interpretando il pensiero di Bannon, l’America si sta preparando per una guerra di grandi dimensioni, la fase catastrofica della transizione della teoria del Fourth Turning. E questa potrebbe verificarsi dovunque: un conflitto con la Cina, per esempio, non è da escludere. La forza della storia è tale che la scelta non spetta ai popoli ma agli eventi, alla storia che si ripete sempre nello stesso modo.
I critici di Bannon sostengono che da anni cerca di far accelerare la fase attuale per arrivare al conflitto, alla catastrofe, ed ecco spiegato perché è guerrafondaio. L’obiettivo è infatti la ricostruzione, arrivare al punto in cui il peggio è passato e si può ricostruire la nazione. In fondo i Neo-Con di Bush non erano poi molto diversi, anche loro erano ossessionati dall’idea di ricostruire l’impero americano, consumati dalla smania di creare una nuova nazione.
Secondo Howe e Strauss, caratteristica del periodo attuale, quello che segue il casus belli e che mette in moto il Fourth Turning, è l’unione del popolo dietro a un leader che per affrontare la crisi diventa autoritario, severo ed inflessibile. Ed ecco l’immagine di Donald Trump, che prende le redini del Paese. Identica a quella del presidente Franklin Delano Roosevelt che ricostruisce la nazione dalle ceneri della grande depressione.
Ed è qui che Bannon e l’intera teoria crollano. In America oggi non si può parlare di unità, al contrario il Paese non è mai stato così diviso, spaccato di fronte a tutti i poteri ed a chi è a capo delle istituzioni. Anche se i “fatti alternativi”, meglio noti come le notizie false, proiettano una nazione coesa dietro al suo comandate in capo, quello americano è un popolo confuso, impaurito ed arrabbiato. Non sono queste le caratteristiche descritte da Howe e Strauss.
Gianbattista Vico, con la sua teoria dei corsi e dei ricorsi storici, aveva presentato una teoria ciclica evolutiva simile, ma a differenza del Fourth Turning era meno schematica. La teoria americana, infatti, sembra ingessata in un ciclo predeterminato anche in termini temporali. Se prendiamo come guida Vico allora è irrilevante che alla Casa Bianca ci sia Trump o la Clinton, che l’America si unita o disunita, la natura umana è tale che ripercorre sempre gli stessi sentieri di montagna, ma a ogni ciclo sale un po’ di in alto. Qualcuno dovrebbe regalare a Bannon un cofanetto con tutte le opere del filosofo napoletano.
di | 12 febbraio 2017

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W, blogger di Libero che spesso commenta sul mio blog, ieri sosteneva che con  l'apertura dei lacci e dei lacciuoli fatta da Trump scenari funesti si potevano aprire per i pesci piccoli che erano riusciti a salvare qualcosa nonostante la crisi del 2008.... Bé quest'articolo dell'economista rende reali quel che potevano essere timori, sia pur fondati, di singoli osservatori.....

domenica 12 febbraio 2017

Germania: anche lì la paura fa 90

Fonte: Wall Street Italia
La cosa mi ha colpito non poco: dai grandi difensori del mercato e dell'europa il rientro dell'oro nei confini nazionali non dovrebbe da ... europei; l'averi vista più da Trump che da Merkel ma le elezioni si avvicinano sempre di più e i locali no-euro preoccupano anche lì nella patria europea!
Forse la smetteranno di dare compitini a casa ai cattivi paesi del sud europa?
Forse impareranno che distruggere intere nazioni per dare un fatuo benessere ai propri cittadini non serve se non nel breve termine?
Sono domande ovvie e demagogiche e me ne rendo conto ma ormai il numero di coloro che hanno da temere da un crollo europeo sono sempre meno e ciò non può che dare peroccupazioni: una cosa è che popoli consapevolmente decidano di mandare al diavolo francesi e co. un altra è che, per motivi ovvi e inconfessabili, gli stessi popoli siano costretti a farlo sull'onda emotiva di un qualche acccadimento... sa tanto di complottismo lo so ma l'aria che gira per il vecchio mondo mi da proprio queste sensazioni e non sono buone.
Ricordate quando fu eletto Trump l'aria sostenuta dei nostri governanti europei? Ora quall'aria non ce l'hanno più: e sapete perchè? Perchè hanno capito che senza gli americani (le loro armi, i loro soldi ecc.) non sono nulla, proprio nulla...
Leggete l'articolo, poi commentate.

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