giovedì 13 febbraio 2020

Sempre meno lavoratori e sempre più profitto. È il progresso, bellezza!

Fonte: Il Fatto Quotidiano

Nella triste prevedibilità delle cose c’è anche questa: per i prossimi mesi sentirete in sottofondo, laggiù, nascosta nel rumore di fondo, la noiosa tiritera della vertenza Unicredit. Cronache sindacali, penultime notizie nei telegiornali, trafiletti stanchi nelle pagine dell’economia, incontri interlocutori al ministero, eccetera eccetera. Numeri da qui al 2023: 6.000 lavoratori da licenziare (o prepensionare, o agevolare all’uscita, o tutti i pietosi eufemismi che si usano in questi casi) e profitti che salgono (5 miliardi l’obiettivo) per la gioia degli azionisti.
Quindi lo dico qui, prima che la questione diventi logoro tran-tran quotidiano e noiosa ripetizione: 6.000 persone che perdono il lavoro non sono solo una voce di bilancio, ma famiglie che vanno in crisi, ragazzi che vedono l’orizzonte incresparsi, programmi futuri che vanno a rotoli, ansia, insomma migliaia di vite che cambiano in peggio, ceto medio che scivola verso la povertà e la paura del futuro. Detta semplice e brutale, è uno scambio di ricchezza tra lavoratori e azionisti, milioni e milioni di euro che si spostano dal lavoro al profitto, dai salari di molti alla rendita di pochi.
Il piano Team 23 viene annunciato quando appena si è messo via lo champagne per la “felice” conclusione del piano Transform 19, che ha fatto la stessa cosa nel triennio precedente: via qualche migliaio di lavoratori e su i profitti. Non si tratta quindi dell’azienda in crisi, dell’imprenditore che piange e che non ce la fa, che è costretto a licenziare con la morte nel cuore, che “salva” i dipendenti rimasti (narrazione tradizionale di stile marchionniano, da tutti accettata mentre gli Agnelli stappano). Bensì di una semplice partita di giro: soldi contanti che passano dalle tasche dei lavoratori a quelle dei proprietari, azionisti, supermanager, fondi sovrani che già guadagnano molto e vogliono guadagnare di più. Segue lo spiegone tecnico-pratico: i clienti non vanno più allo sportello, pagano col telefono e le app, che è un po’ come dire: mi spiace gente, ma siccome abbiamo inventato il telaio a vapore, nelle filande c’è un sacco di gente che non ci serve più, cioè non è la prima volta che il profitto si fa scudo della tecnologia per far pagare il conto ai lavoratori.
Non si tratta naturalmente “solo” di una banca (il tratto è comune a tutto il sistema bancario italiano: meno posti di lavoro e più utili, e più bonus ai manager), ma di capire come sarà il disegno del futuro. Le imprese attive e sane che licenziano non sono una novità, ma anzi una tendenza in atto da anni. In più, si tratta di un evidente, quasi plastico, allargamento di quella famosa forbice delle diseguaglianze che tutti dicono di voler combattere e fronteggiare: chiamatelo come volete, il piano, ma alla fine chi ha di più avrà ancora di più e chi ha meno avrà ancora di meno.
Ora, prima che tutto divenga trattativa difensiva, tira e molla e stanca cronaca sindacale, resta il disegno generale: una progressiva proletarizzazione del ceto medio, un mercato che detta le regole della selezione e della qualità della vita della gente: certi saperi non servono più, c’è l’algoritmo, c’è la app, però serve gente che consegna i pacchi, possibilmente pagata a cottimo e con turni e carichi di lavoro, quelli sì, da filanda ottocentesca.
In questo caso la narrazione corrente è: il mondo cambia, che ci possiamo fare. Ma in questa enfasi sul cambiamento non si inserisce però il profitto, che non deve cambiare mai, che è l’unica variabile indipendente riconosciuta, benedetta e intoccabile. Accettando questo impianto culturale, peraltro dominante da decenni, tra un po’ avremo veramente bisogno di un Dickens a raccontare come una volta qui era tutta piccola borghesia, sicurezza e futuro tranquillo, e adesso… Dickens ai tempi dell’iPhone.

martedì 11 febbraio 2020

elezioni irlandesi: un altro mattone che crolla..

.. ci siamo. Dopo la Brexit, nonostante i mugugni scozzesi ( e li si può anche capire visto che la loro economia e i finanziamenti dipendono in toto dalla UE), che ha creato un mercato alternativo a quello 'europeo', ora anche l'Irlanda si avvia sulla stessa strada: il Sinn Fein partito (storico partito indipendentista di sinistra del paese) ha stravinto (col 24,5%) le locali elezioni: non abbastanza da governare da solo ma da condizionare le future scelte si, eccome: con una piattaforma economica e sociale radicale. Ora non è che sarà dall'oggi al domani ma il processo sotteso esiste e ormai entra nel panorama politico del paese. Sono cose lunghe e vanno trattate con cura ma l'euroscetticismo non è più una cosa di pochi e divisi elementi disturbatori del fango in cui tutti ci siamo cacciati ma una realtà a cui guardare non solo da destra ma pure da sinistra. Il seme gettato comincia, lentamente, a frutti... si rassegnano i nostalgici del mercato unico e livellatore: Isaiah Berlin, vero liberale (premio della fondazione agnelli negli anni '60 come importante esponente del pensiero liberale nel XX secolo), sosteneva che il liberalismo politico era auspicabile come humus su cui costruire un regime democratico al contrario di quello economico perchè difficilmente le persone avrebbero accettato di restare nelposto che il mercato gli assegnava senza lottare sia per cercare di migliorarsi sia per evitare di affogare; ed aveva ragione come ben sappiamo visto che decenni di UE e relativa burocretineria che decide anche sul colore delle cipolle hanno fatto nascere ovunque tantissimi movimenti 'glocal' che, al di là delle etichette che gli vengono date dai soliti corifei senza apertura mentale e al soldo, anche involontario, dei padroni del vapore (c'è sempre la ricerca nelle menti deboli della ricerca del capo che decide e guida; gli italiani in questo vi si sono sempre distinti.. fin dall'impero romano) che guardano non più alla UE come espressione dei cittadini ma come moloch lontano preda della finanza e delle lobbye a cui vi si oppongono senza se e senza ma; tranne che in italia perchè cui le pecore, anche travestite, sono maggioranza, purtroppo o per fortuna lo dirà la storia. Quali sviluppi? Bé è molto probabile che l'irlanda del nord veda rinascere la voglia di riunirsi alla madre patria così come la Scozia, super assistita dalla UE, vedrà rinascer la propria voglia indipendentista; poi c'è il problema catalogna e infine le convulsioni germaniche: eh già anche al centro del reich non fila tutto liscio ossia la 'successora' di sua maestà ha dato forfait rimettendo in gioco tutte le scelte fatte prima della merkel, come mai? Non ha carisma, tutto qui e il caso Turingia ne è la prova (un preisdente eletto con i voti degli euro-scettici di destra) e, si spera, ne determinerà il de profundis. In Francia continua, imperterrita, la lotta dei cittadini contro il proprio governo e le sue riforme pro-mercato; mi verrebbe da dire 'je suis français' se non fosse per quel manifesto, peraltro avevano ragione, 'nous ne sommes pas italiennes'... e in italia? Calma piatta: addomesticati i 5 Stelle cosa rimane? Piaccia o meno la destra, quella vera non acquisita in transito dalla sinistra. Naturalmente non è così semplice ma alcuni segnali sono importanti: dopo i 5 stelle come sopra un altro punto è stato chiarito ossia le sardine che si fanno foto-opportunity con le famiglie industriali, e si dividono in mille rivoli (quelle romane ad esempio hanno mandato un vaffa ai presenzialisti nazionali), mentre partecipano a convegni per spartirsi l'elettorato con prodiani, ex-dc, pd e altre strane figure che si sperava fossero cadute nel cestino della storia come a dire: gratta gratta e cosa spunta da sotto le scaglie delle sardine e loro amici? Balene.. bianche (invecchiatissime ma pur sempre vitali) e questo la dice lunga, molto lunga, su chi decide e guida questo c.d. movimento e sulle sorti del nostro sfigatissimo paese.La sola cosa che mi fa ben sperare è che gli italiani si sono sempre distinti per essere spesso e volentieri i primi a scendere dai carri in difficoltà e i primi a salire su quello dei probabili vincitori: sfruttando questa caratteristica forse si riuscirà, si parla delle ns tasche, a cambiare cavallo e cavaliere; la domanda, comunque e solo per ora, sorge spontanea: per chi diavolo votare alle prossime elezioni?
Naturalmente non è nel mio stile dare indicazioni ma mio obiettivo è fare il c.d. 'grillo-talpa: figura mutuata dal rugby che si connota come un giocatore con la capacità di infilarsi nella ruck e rubare la palla agli avversari; questo perché rimanda alla capacità del grillotalpa di utilizzare le zampe anteriori per "estrarre" con forza la terra (nel caso del rugby l'ovale).

domenica 9 febbraio 2020

Brexit, Johnson punta a un rapporto più stretto tra economia e governo. Ma non ha fatto i conti con Bruxelles

Fonte: Il Fatto Quotidiano Zonaeuro - 9 Febbraio 2020 Loretta Napoleoni
A dieci giorni dalla Brexit Londra e Bruxelles sono già ai ferri corti. C’era da aspettarselo, Boris Johnson vuole trasformare il Regno Unito in una nazione con poche tasse, ancor meno restrizioni legislative e molte opportunità. Bruxelles vuole esattamente il contrario, e cioè continuare a condizionare il Regno Unito con le proprie leggi e minaccia di alzare barriere all’importazione se ciò non succede.
Al centro della disputa c’è una visione relativamente nuova: creare una sorta di Singapore sul Tamigi, uno stato diverso da quelli che lo circondano. Adesso che sappiamo con certezza che alla fine dell’anno Londra non farà più parte delle capitali dell’Ue vale la pena approfondirne il significato, anche se in questo blog ne ho già parlato.
Lanciata nel 2017 dall’ex cancelliere Philip Hammond, la visione di una Singapore sul Tamigi è piaciuta molto fin dall’inizio ai Brexiters che l’hanno spesso usata per descrivere il futuro assetto della nazione. Tuttavia, non è mai stata accompagnata a un chiaro piano d’azione. Più di un piano a lungo termine, la frase Singapore sul Tamigi è stata un motto, una promessa di modernizzare il paese e di reinventare il suo ruolo geopolitico una volta libero dal condizionamento di Bruxelles. Ciò non ha impedito le critiche. Tra queste la paura che il Regno Unito si trasformi in un paradiso fiscale, un paese con legislazione lassista ed economia non regolamentata, a pochi chilometri dal suo vicino super regolamentato, l’Unione europea.
Ma è proprio così? Singapore non è un paradiso fiscale per coloro che vogliono evitare le tasse, piuttosto è un sistema politico in cui il governo e l’economia sono indissolubilmente interconnessi, e infatti dopo il crollo finanziario del 2009 Singapore si è ripresa proprio grazie alla sua solida e onnipresente burocrazia che detiene quote di controllo azionario nella maggior parte delle più grandi imprese del paese. Tutto ciò, unito a una meticolosa pianificazione economica da parte di funzionari tecnocratici, consente al governo di Singapore di influenzare il proprio mercato per garantire che la crescita rimanga sulla buona strada. Boris Johnson vorrebbe disegnare il futuro del Regno Unito alla luce di una relazione altrettanto intima tra il governo e l’economia sullo sfondo di una liberalizzazione prodotta dall’uscita dall’Ue.
Poco ancora si sa sui dettagli, ma di certo l’agenda del governo includerà: l’introduzione di regolamenti finanziari meno rigidi; la riduzione delle imposte per attrarre società e investimenti stranieri; una deregolamentazione per dare una spinta alla produzione; finanziamenti statali per sostenere le imprese nazionali e quindi avvantaggiarle rispetto ai concorrenti europei; la negoziazione di nuovi accordi commerciali e una politica di immigrazione altamente selettiva, che di fatto consente solo alle persone di cui il paese ha bisogno di venirci a vivere.
I sostenitori di Johnson sono fermamente convinti che il Regno Unito sarà in grado di ridurre le tasse perché non più vincolato dalle norme Ue in materia di imposta sul valore aggiunto e potrà liberalizzare e investire nella propria economia perché controlla la moneta nazionale. Naturalmente, l’Unione europea si opporrà a tutte queste riforme riducendo l’accesso dei prodotti e servizi britannici al proprio mercato.
Boris Johnson non se ne preoccupa, è convinto che se il Regno Unito accetta il suo nuovo ruolo, e cioè di essere un concorrente dell’Unione europea e non più un membro o un partner – come è stato sottolineato da molti leader europei tra cui Angela Merkel – allora il ridotto accesso all’Ue non sarà poi cosi problematico: Londra guarderà ad altri mercati e farà di tutto per aumentare la competitività.
A tal fine, la Gran Bretagna potrebbe svalutare la sterlina e anche annacquare gli standard europei, spesso eccessivi, relativi alla produzione. In alcune aree, poi, come i servizi digitali, lo sviluppo di software e l’editing genetico nella biotecnologia, il Regno Unito potrebbe abbandonare la normativa dell’Ue e introdurne una sua. Così facendo diventerebbe una nazione molto più attraente dove fare affari e condurre ricerche.
Il 2020 sarà un anno interessante per il Regno Unito, ma forse la vera svolta avverrà nel 2021 quando sapremo che strada prenderà Londra fuori dall’Unione europea.

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