Fonte: Il Fatto Quotidiano Alessandro Robecchi
Nella
triste prevedibilità delle cose c’è anche questa: per i prossimi mesi
sentirete in sottofondo, laggiù, nascosta nel rumore di fondo, la
noiosa tiritera della vertenza Unicredit. Cronache
sindacali, penultime notizie nei telegiornali, trafiletti stanchi nelle
pagine dell’economia, incontri interlocutori al ministero, eccetera
eccetera. Numeri da qui al 2023: 6.000 lavoratori da licenziare (o
prepensionare, o agevolare all’uscita, o tutti i pietosi eufemismi che
si usano in questi casi) e profitti che salgono (5 miliardi l’obiettivo)
per la gioia degli azionisti.
Quindi lo dico qui, prima che la questione diventi logoro tran-tran quotidiano e noiosa ripetizione: 6.000 persone che perdono il lavoro
non sono solo una voce di bilancio, ma famiglie che vanno in crisi,
ragazzi che vedono l’orizzonte incresparsi, programmi futuri che vanno a
rotoli, ansia, insomma migliaia di vite che cambiano in peggio, ceto
medio che scivola verso la povertà e la paura del futuro. Detta semplice
e brutale, è uno scambio di ricchezza tra lavoratori e azionisti,
milioni e milioni di euro che si spostano dal lavoro al profitto, dai
salari di molti alla rendita di pochi.
Il piano Team 23 viene annunciato quando appena si è messo via lo champagne per la “felice” conclusione del piano Transform 19,
che ha fatto la stessa cosa nel triennio precedente: via qualche
migliaio di lavoratori e su i profitti. Non si tratta quindi
dell’azienda in crisi, dell’imprenditore che piange e che non ce la fa,
che è costretto a licenziare con la morte nel cuore,
che “salva” i dipendenti rimasti (narrazione tradizionale di stile
marchionniano, da tutti accettata mentre gli Agnelli stappano). Bensì di
una semplice partita di giro: soldi contanti che passano dalle tasche
dei lavoratori a quelle dei proprietari, azionisti, supermanager, fondi
sovrani che già guadagnano molto e vogliono guadagnare di più.
Segue lo spiegone tecnico-pratico: i clienti non vanno più allo
sportello, pagano col telefono e le app, che è un po’ come dire: mi
spiace gente, ma siccome abbiamo inventato il telaio a vapore, nelle
filande c’è un sacco di gente che non ci serve più, cioè non è la prima
volta che il profitto si fa scudo della tecnologia per far pagare il
conto ai lavoratori.
Non si tratta naturalmente “solo” di una
banca (il tratto è comune a tutto il sistema bancario italiano: meno
posti di lavoro e più utili, e più bonus ai manager), ma di capire come
sarà il disegno del futuro. Le imprese attive e sane che licenziano
non sono una novità, ma anzi una tendenza in atto da anni. In più, si
tratta di un evidente, quasi plastico, allargamento di quella famosa
forbice delle diseguaglianze che tutti dicono di voler
combattere e fronteggiare: chiamatelo come volete, il piano, ma alla
fine chi ha di più avrà ancora di più e chi ha meno avrà ancora di
meno.
Ora, prima che tutto divenga trattativa difensiva, tira e
molla e stanca cronaca sindacale, resta il disegno generale: una
progressiva proletarizzazione del ceto medio, un mercato che detta le
regole della selezione e della qualità della vita della gente: certi
saperi non servono più, c’è l’algoritmo, c’è la app,
però serve gente che consegna i pacchi, possibilmente pagata a cottimo e
con turni e carichi di lavoro, quelli sì, da filanda ottocentesca.
In
questo caso la narrazione corrente è: il mondo cambia, che ci possiamo
fare. Ma in questa enfasi sul cambiamento non si inserisce però il profitto,
che non deve cambiare mai, che è l’unica variabile indipendente
riconosciuta, benedetta e intoccabile. Accettando questo impianto
culturale, peraltro dominante da decenni, tra un po’ avremo veramente
bisogno di un Dickens a raccontare come una volta qui
era tutta piccola borghesia, sicurezza e futuro tranquillo, e adesso…
Dickens ai tempi dell’iPhone.
si parla di progresso, di evoluzione, di civiltà ci ritroviamo invece in un nuovo medio evo dove conta chi si nasconde dietro il potere o vi si allea con esso.
giovedì 13 febbraio 2020
martedì 11 febbraio 2020
elezioni irlandesi: un altro mattone che crolla..
.. ci siamo. Dopo la Brexit, nonostante i mugugni scozzesi ( e li si
può anche capire visto che la loro economia e i finanziamenti dipendono
in toto dalla UE), che ha creato un mercato alternativo a quello
'europeo', ora anche l'Irlanda si avvia sulla stessa strada: il Sinn Fein partito (storico partito indipendentista di sinistra del paese) ha stravinto (col 24,5%)
le locali elezioni: non abbastanza da governare da solo ma da
condizionare le future scelte si, eccome: con una piattaforma economica e
sociale radicale. Ora non è che sarà dall'oggi al domani ma il processo
sotteso esiste e ormai entra nel panorama politico del paese. Sono cose
lunghe e vanno trattate con cura ma l'euroscetticismo non è più una
cosa di pochi e divisi elementi disturbatori del fango in cui tutti ci
siamo cacciati ma una realtà a cui guardare non solo da destra ma pure
da sinistra. Il seme gettato comincia, lentamente, a frutti... si
rassegnano i nostalgici del mercato unico e livellatore: Isaiah Berlin,
vero liberale (premio della fondazione agnelli negli anni '60 come
importante esponente del pensiero liberale nel XX secolo), sosteneva che
il liberalismo politico era auspicabile come humus su cui costruire un
regime democratico al contrario di quello economico perchè difficilmente
le persone avrebbero accettato di restare nelposto che il mercato gli
assegnava senza lottare sia per cercare di migliorarsi sia per evitare
di affogare; ed aveva ragione come ben sappiamo visto che decenni di UE e
relativa burocretineria che decide anche sul colore delle cipolle hanno
fatto nascere ovunque tantissimi movimenti 'glocal'
che, al di là delle etichette che gli vengono date dai soliti corifei
senza apertura mentale e al soldo, anche involontario, dei padroni del
vapore (c'è sempre la ricerca nelle menti deboli della ricerca del capo
che decide e guida; gli italiani in questo vi si sono sempre distinti..
fin dall'impero romano) che guardano non più alla UE come espressione
dei cittadini ma come moloch lontano preda della finanza e delle lobbye a
cui vi si oppongono senza se e senza ma; tranne che in italia perchè
cui le pecore, anche travestite, sono maggioranza, purtroppo o per
fortuna lo dirà la storia. Quali sviluppi? Bé è molto probabile che
l'irlanda del nord veda rinascere la voglia di riunirsi alla madre
patria così come la Scozia, super assistita dalla UE, vedrà rinascer la
propria voglia indipendentista; poi c'è il problema catalogna e infine
le convulsioni germaniche: eh già anche al centro del reich non fila
tutto liscio ossia la 'successora' di sua maestà ha dato forfait
rimettendo in gioco tutte le scelte fatte prima della merkel, come mai?
Non ha carisma, tutto qui e il caso Turingia ne
è la prova (un preisdente eletto con i voti degli euro-scettici di
destra) e, si spera, ne determinerà il de profundis. In Francia
continua, imperterrita, la lotta dei cittadini contro il proprio governo
e le sue riforme pro-mercato; mi verrebbe da dire 'je suis français' se
non fosse per quel manifesto, peraltro avevano ragione, 'nous ne sommes
pas italiennes'... e in italia? Calma piatta: addomesticati i 5 Stelle
cosa rimane? Piaccia o meno la destra, quella vera non acquisita in
transito dalla sinistra. Naturalmente non è così semplice ma alcuni
segnali sono importanti: dopo i 5 stelle come sopra un altro punto è
stato chiarito ossia le sardine che si fanno foto-opportunity con le
famiglie industriali, e si dividono in mille rivoli (quelle romane ad
esempio hanno mandato un vaffa ai presenzialisti nazionali), mentre
partecipano a convegni per spartirsi l'elettorato con prodiani, ex-dc,
pd e altre strane figure che si sperava fossero cadute nel cestino della
storia come a dire: gratta gratta e cosa spunta da sotto le scaglie
delle sardine e loro amici? Balene.. bianche (invecchiatissime ma pur
sempre vitali) e questo la dice lunga, molto lunga, su chi decide e
guida questo c.d. movimento e sulle sorti del nostro sfigatissimo
paese.La sola cosa che mi fa ben sperare è che gli italiani si sono
sempre distinti per essere spesso e volentieri i primi a scendere dai
carri in difficoltà e i primi a salire su quello dei probabili
vincitori: sfruttando questa caratteristica forse si riuscirà, si parla
delle ns tasche, a cambiare cavallo e cavaliere; la domanda, comunque e
solo per ora, sorge spontanea: per chi diavolo votare alle prossime
elezioni?
Naturalmente non è nel mio stile dare indicazioni ma mio obiettivo è fare il c.d. 'grillo-talpa: figura mutuata dal rugby che si connota come un giocatore con la capacità di infilarsi nella ruck e rubare la palla agli avversari; questo perché rimanda alla capacità del grillotalpa di utilizzare le zampe anteriori per "estrarre" con forza la terra (nel caso del rugby l'ovale).
Naturalmente non è nel mio stile dare indicazioni ma mio obiettivo è fare il c.d. 'grillo-talpa: figura mutuata dal rugby che si connota come un giocatore con la capacità di infilarsi nella ruck e rubare la palla agli avversari; questo perché rimanda alla capacità del grillotalpa di utilizzare le zampe anteriori per "estrarre" con forza la terra (nel caso del rugby l'ovale).
domenica 9 febbraio 2020
Brexit, Johnson punta a un rapporto più stretto tra economia e governo. Ma non ha fatto i conti con Bruxelles
Fonte: Il Fatto Quotidiano Zonaeuro - 9 Febbraio 2020 Loretta Napoleoni
A dieci giorni dalla Brexit Londra e Bruxelles sono già ai ferri corti. C’era da aspettarselo, Boris Johnson vuole trasformare il Regno Unito in una nazione con poche tasse, ancor meno restrizioni legislative e molte opportunità. Bruxelles vuole esattamente il contrario, e cioè continuare a condizionare il Regno Unito con le proprie leggi e minaccia di alzare barriere all’importazione se ciò non succede.
Al centro della disputa c’è una visione relativamente nuova: creare una sorta di Singapore sul Tamigi, uno stato diverso da quelli che lo circondano. Adesso che sappiamo con certezza che alla fine dell’anno Londra non farà più parte delle capitali dell’Ue vale la pena approfondirne il significato, anche se in questo blog ne ho già parlato.
Lanciata nel 2017 dall’ex cancelliere Philip Hammond, la visione di una Singapore sul Tamigi è piaciuta molto fin dall’inizio ai Brexiters che l’hanno spesso usata per descrivere il futuro assetto della nazione. Tuttavia, non è mai stata accompagnata a un chiaro piano d’azione. Più di un piano a lungo termine, la frase Singapore sul Tamigi è stata un motto, una promessa di modernizzare il paese e di reinventare il suo ruolo geopolitico una volta libero dal condizionamento di Bruxelles. Ciò non ha impedito le critiche. Tra queste la paura che il Regno Unito si trasformi in un paradiso fiscale, un paese con legislazione lassista ed economia non regolamentata, a pochi chilometri dal suo vicino super regolamentato, l’Unione europea.
Ma è proprio così? Singapore non è un paradiso fiscale per coloro che vogliono evitare le tasse, piuttosto è un sistema politico in cui il governo e l’economia sono indissolubilmente interconnessi, e infatti dopo il crollo finanziario del 2009 Singapore si è ripresa proprio grazie alla sua solida e onnipresente burocrazia che detiene quote di controllo azionario nella maggior parte delle più grandi imprese del paese. Tutto ciò, unito a una meticolosa pianificazione economica da parte di funzionari tecnocratici, consente al governo di Singapore di influenzare il proprio mercato per garantire che la crescita rimanga sulla buona strada. Boris Johnson vorrebbe disegnare il futuro del Regno Unito alla luce di una relazione altrettanto intima tra il governo e l’economia sullo sfondo di una liberalizzazione prodotta dall’uscita dall’Ue.
Poco ancora si sa sui dettagli, ma di certo l’agenda del governo includerà: l’introduzione di regolamenti finanziari meno rigidi; la riduzione delle imposte per attrarre società e investimenti stranieri; una deregolamentazione per dare una spinta alla produzione; finanziamenti statali per sostenere le imprese nazionali e quindi avvantaggiarle rispetto ai concorrenti europei; la negoziazione di nuovi accordi commerciali e una politica di immigrazione altamente selettiva, che di fatto consente solo alle persone di cui il paese ha bisogno di venirci a vivere.
I sostenitori di Johnson sono fermamente convinti che il Regno Unito sarà in grado di ridurre le tasse perché non più vincolato dalle norme Ue in materia di imposta sul valore aggiunto e potrà liberalizzare e investire nella propria economia perché controlla la moneta nazionale. Naturalmente, l’Unione europea si opporrà a tutte queste riforme riducendo l’accesso dei prodotti e servizi britannici al proprio mercato.
Boris Johnson non se ne preoccupa, è convinto che se il Regno Unito accetta il suo nuovo ruolo, e cioè di essere un concorrente dell’Unione europea e non più un membro o un partner – come è stato sottolineato da molti leader europei tra cui Angela Merkel – allora il ridotto accesso all’Ue non sarà poi cosi problematico: Londra guarderà ad altri mercati e farà di tutto per aumentare la competitività.
A tal fine, la Gran Bretagna potrebbe svalutare la sterlina e anche annacquare gli standard europei, spesso eccessivi, relativi alla produzione. In alcune aree, poi, come i servizi digitali, lo sviluppo di software e l’editing genetico nella biotecnologia, il Regno Unito potrebbe abbandonare la normativa dell’Ue e introdurne una sua. Così facendo diventerebbe una nazione molto più attraente dove fare affari e condurre ricerche.
Il 2020 sarà un anno interessante per il Regno Unito, ma forse la vera svolta avverrà nel 2021 quando sapremo che strada prenderà Londra fuori dall’Unione europea.
A dieci giorni dalla Brexit Londra e Bruxelles sono già ai ferri corti. C’era da aspettarselo, Boris Johnson vuole trasformare il Regno Unito in una nazione con poche tasse, ancor meno restrizioni legislative e molte opportunità. Bruxelles vuole esattamente il contrario, e cioè continuare a condizionare il Regno Unito con le proprie leggi e minaccia di alzare barriere all’importazione se ciò non succede.
Al centro della disputa c’è una visione relativamente nuova: creare una sorta di Singapore sul Tamigi, uno stato diverso da quelli che lo circondano. Adesso che sappiamo con certezza che alla fine dell’anno Londra non farà più parte delle capitali dell’Ue vale la pena approfondirne il significato, anche se in questo blog ne ho già parlato.
Lanciata nel 2017 dall’ex cancelliere Philip Hammond, la visione di una Singapore sul Tamigi è piaciuta molto fin dall’inizio ai Brexiters che l’hanno spesso usata per descrivere il futuro assetto della nazione. Tuttavia, non è mai stata accompagnata a un chiaro piano d’azione. Più di un piano a lungo termine, la frase Singapore sul Tamigi è stata un motto, una promessa di modernizzare il paese e di reinventare il suo ruolo geopolitico una volta libero dal condizionamento di Bruxelles. Ciò non ha impedito le critiche. Tra queste la paura che il Regno Unito si trasformi in un paradiso fiscale, un paese con legislazione lassista ed economia non regolamentata, a pochi chilometri dal suo vicino super regolamentato, l’Unione europea.
Ma è proprio così? Singapore non è un paradiso fiscale per coloro che vogliono evitare le tasse, piuttosto è un sistema politico in cui il governo e l’economia sono indissolubilmente interconnessi, e infatti dopo il crollo finanziario del 2009 Singapore si è ripresa proprio grazie alla sua solida e onnipresente burocrazia che detiene quote di controllo azionario nella maggior parte delle più grandi imprese del paese. Tutto ciò, unito a una meticolosa pianificazione economica da parte di funzionari tecnocratici, consente al governo di Singapore di influenzare il proprio mercato per garantire che la crescita rimanga sulla buona strada. Boris Johnson vorrebbe disegnare il futuro del Regno Unito alla luce di una relazione altrettanto intima tra il governo e l’economia sullo sfondo di una liberalizzazione prodotta dall’uscita dall’Ue.
Poco ancora si sa sui dettagli, ma di certo l’agenda del governo includerà: l’introduzione di regolamenti finanziari meno rigidi; la riduzione delle imposte per attrarre società e investimenti stranieri; una deregolamentazione per dare una spinta alla produzione; finanziamenti statali per sostenere le imprese nazionali e quindi avvantaggiarle rispetto ai concorrenti europei; la negoziazione di nuovi accordi commerciali e una politica di immigrazione altamente selettiva, che di fatto consente solo alle persone di cui il paese ha bisogno di venirci a vivere.
I sostenitori di Johnson sono fermamente convinti che il Regno Unito sarà in grado di ridurre le tasse perché non più vincolato dalle norme Ue in materia di imposta sul valore aggiunto e potrà liberalizzare e investire nella propria economia perché controlla la moneta nazionale. Naturalmente, l’Unione europea si opporrà a tutte queste riforme riducendo l’accesso dei prodotti e servizi britannici al proprio mercato.
Boris Johnson non se ne preoccupa, è convinto che se il Regno Unito accetta il suo nuovo ruolo, e cioè di essere un concorrente dell’Unione europea e non più un membro o un partner – come è stato sottolineato da molti leader europei tra cui Angela Merkel – allora il ridotto accesso all’Ue non sarà poi cosi problematico: Londra guarderà ad altri mercati e farà di tutto per aumentare la competitività.
A tal fine, la Gran Bretagna potrebbe svalutare la sterlina e anche annacquare gli standard europei, spesso eccessivi, relativi alla produzione. In alcune aree, poi, come i servizi digitali, lo sviluppo di software e l’editing genetico nella biotecnologia, il Regno Unito potrebbe abbandonare la normativa dell’Ue e introdurne una sua. Così facendo diventerebbe una nazione molto più attraente dove fare affari e condurre ricerche.
Il 2020 sarà un anno interessante per il Regno Unito, ma forse la vera svolta avverrà nel 2021 quando sapremo che strada prenderà Londra fuori dall’Unione europea.
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