venerdì 9 novembre 2018

Cina e Usa, il derby della leadership globale può portare alla guerra fredda

Fonte: W.S.I. 9 novembre 2018, di Alessandro Piu
La Cina giocherà un ruolo sempre più centrale nelle dinamiche economiche e politiche globali. Lo sa Donald Trump, che cerca di opporsi alla crescita della leadership  cinese rischiando di scatenare una nuova guerra fredda, lo sa l’opinione pubblica globale come emerge da un sondaggio presentato da Natixis Investment Managers nel corso del summit 2018

“Si prenda tempo mantenendo un basso profilo, pur senza mancare di fare qualcosa” (Deng Xiaoping).
“Si continui a prendere tempo mantenendo un basso profilo, pur senza mancare di agire in modo proattivo per fare qualcosa” (Hu Jintao).
“L’economia cinese propone un nuovo modello per altri paesi e nazioni che vogliono accelerare il loro sviluppo preservando la loro indipendenza. Sarà un’era che vedrà la Cina spostarsi al centro della scena” (Xi Jinping).
Quello della Cina negli ultimi decenni non è solo un crescendo economico ma anche politico. Le tre citazioni dei tre leader che si sono succeduti alla guida della Repubblica popolare marcano la sempre maggiore convinzione che il Paese ha assunto, sulle sue capacità e sul ruolo che gli compete nello scacchiere internazionale.
L’America First ha trovato un difficile concorrente e anche se le distanze tra i due Paesi sono ancora grandi, si sono fortemente ridotte. Il timore che qualcuno stia pensando a una China First è ben evidente nei bastoni che il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, sta cercando di mettere tra le ruote dell’economia cinese, sotto forma di dazi commerciali.
Rischio guerra fredda
“Negli anni ’90 il Pil cinese era il 6% di quello Usa, oggi siamo al 60%. È un cambiamento molto forte. Inoltre il modello cinese ha evitato la crisi finanziaria e i governanti, a Pechino, hanno assunto maggiore convinzione nelle potenzialità del Paese”
ha evidenziato Minxin Pei, professore al Claremont McKenna College nel corso del Natixis IM summit2018 svoltosi a Parigi.
Questo spiega, insieme al carisma di Xi Jinping, la volontà cinese, ormai non più nascosta di assumere un ruolo centrale sulla scena globale.
“Oggi – prosegue Minxin Pei – assistiamo al tentativo degli Stati Uniti di fermare la Cina e tutto questo porterà, probabilmente, all’inizio di una nuova guerra fredda che avrà effetti sui mercati mondiali, sulla globalizzazione, sul commercio. La guerra commerciale non è in realtà solo una guerra commerciale. A Washington si pensa che permettere alla Cina di continuare a crescere come ha fatto finora sarebbe un grave errore strategico”.
Non tutti pensano che la Cina stia puntando così in alto. Come Andrew Y. Yan, managing partner di Saif Partners, una società di venture & growth capital che accompagna le aziende asiatiche alla quotazione, il quale afferma:
“Non credo che a Pechino ci sia una strategia razionale per scalzare gli Stati Uniti dalla leadership globale. Sanno bene che ci sono settori e aree geografiche dove non possono competere con gli Usa. I cinesi vogliono solo una posizione nel mondo che corrisponda alla loro quota del Pil mondiale. Non credo poi possa nascere una nuova guerra fredda. La Cina non ha un blocco di alleati come lo aveva l’Unione sovietica. Inoltre nei Paesi asiatici non c’è particolare calore verso la Repubblica popolare”.
Leadership globale? Meglio gli Stati UnitiIl basso gradimento per la leadership cinese non si riscontra solo in Asia. In molti paesi la gran parte dei cittadini preferisce l’America First alla China First ed è consapevole del ruolo che la Cina ha saputo guadagnarsi negli ultimi dieci anni. A dirlo è un sondaggio presentato da Natixis IM nel corso del summit.
Se gli Stati Uniti sono ancora ritenuti la prima potenza economica globale dal 31% del campione contro il 34% della Cina, è quest’ultima che negli ultimi dieci anni, secondo il 70% degli intervistati ha assunto maggiore importanza sullo scenario internazionale. Il 31% afferma invece che sono gli Stati Uniti ad aver accresciuto il loro ruolo.
La marcia della Cina suscita però preoccupazione.
Il 63% degli intervistati ha dichiarato di preferire gli Stati Uniti come potenza leader globale contro il 19% che sceglierebbe la Cina. Percentuali pro Usa più elevate si trovano in Canada, Svezia, Olanda, Polonia, Regno Unito, Francia. Leggermente più basse le posizioni a favore degli Stati Uniti in Italia (41%), Ungheria (44%) e Grecia (44%). Dappertutto la preferenza per la Cina rimane comunque contenuta con picchi del 26% in Spagna e Grecia, il 17% in Italia, il 21% in Francia.

giovedì 8 novembre 2018

La Russia e la corsa a trivellare l'Artico

Fonte: No all'Italia petrolizzata
E' l'ultima frontiera dei trivellatori, l'Artico, un tempo ostico ed impossibile da sfruttare ma sempre piu' appetibile grazie ai cambiamenti climatici, creati dai trivellatori stessi.

La Russia e' in prima fila nel piantare le proprie trivelle in cima al mondo, letteralmente e figurativamente, ma la Cina non sta a guardare.

E hai voglia a predicare.

Tutti sappiamo che l'aumento delle temperature porta allo scioglimento dei ghiacciai, anzi secondo le stime dell'IPCC, l'Intergovernmental Panel on Climate Change delle Nazioni Unite, se tutto va avanti come adesso, entro il 2040 l'Artico restera' senza ghiaccio.

Ovviamente questo e' musica per le orecchie dei trivellatori, con nuove rotte marine dove prima c'era ghiaccio e con la promessa di petrolio e gas sgorganti dal sottosuolo.

La Russia e' la piu' determinata di tutte, se non altro perche' e' la piu' vicina geograficamente all'Artico che si scioglie, perche' economicamente vive di idrocarburi e perche' prima di tutte ha deciso di sfruttare i mari dell'Artico e di accapparrarsene i diritti.

Lo scioglimento delle nevi significa non solo nuovi giacimenti, ma anche minori tempi per il trasporto di petrolio attraverso le nuove acque: si calcola che i tempi per navigare dall'Asia all'Europa si accorcera' del 35-40% rispetto al passaggio attraverso l'Asia rispetto al passaggio attraverso il canale di Suez o dell'oceano indiano.

E cosi Venta Maersk e' stata la prima nave ad attraversare l'Artico da Vladivostok a San Pietroburgo, qualche mese prima la ditta russa Novatek ha mandato un carico di gas liquefatto in Cina dalla Siberia attraverso l'Artico con 19 giorni invece dei tradizionali 35 lungo il canale di Suez.

La Russia ha pure 40 navi rompighiaccio, incluso alcune che vanno ad energia nucleare, piu' potenti e che non abbisogano di rifornimenti. Gli USA invece hanno solo due navi rompighiacchi.

Ci vogliono un miliardo di dollari a nave, e dieci anni per costruirle.

USA, Canada, Norvegia, Danimarca, Svezia, Finlandia e Islanda hanno tutti interessi in Artico, e quindi e' comprensibile che vogliano contrastare la Russia. La Cina pero' afferma che l'Artico non e'  di nessuno e che quindi e' di tutti.

Vogliono acchiappare anche loro quel che possono.

E infatti si sono definiti una superpotenza polare nel 2014. Nel 2018 hanno pure rilasciato una politica cinese dell'Artico per difendere i propri interessi e quindi hanno iniziato a costruirsi rompighiacci pure loro e annunciano di volere costruire una via della seta polare.

L'Artico e' governato da una serie di trattati fra cui uno delle Nazioni Unite del 1982 chiamato United Nations Convention on the Law of the Sea (UNCLOS).  Questo UNCLOS delinea le estensioni dei mari territoriali, zone economiche, diritti di passaggio, diritti e doveri di sviluppo, protezione ambientale. Non si parla di sicurezza militare.

Ci sono gia' litigi: il Lomonosov ridge e' lungo 1800 chilometri ed e' al cuore di dispute fra la Russia, Canada e Danimarca. Il motivo?

Petrolio.

Si pensa infatti che il Lomonosov ridge sia particolarmente ricco di idrocarburi e la Russia vuole che siano tutti loro. Per esempio, gia' nel 2007, una spedizione russa, Arktika 2007 giunse alla conclusione che questo Lomonosov e' una estensione della massa continentale russa e piantarono qui bandiere russe.

Canada e Danimarca dicono di no; anzi la Danimarca dice che e' una estensione della Groenlandia.

Putin non ha mai fatto mistero di queste sue ambizioni polari che esistono da piu' di dieci anni.

Nel 2012 i russi hanno proposto di chiamare l'oceano artico l'oceano "russo" come dire e' cosa nostra. Il paese sta anche creando una presenza militare in artico, con un Arctic Joint Strategic Command, e addrittura sta rimodernando aereoporti costruiti durante il tempo della guerra fredda.  E' stata istituita una Northern Sea Route Administration, una agenzia russa che ha lo scopo di governare il passaggio di navi e il traffico in Artico.

Putin cerca pure di aumentare i suoi alleati strategici in zona, per esempio creando accordi con India (perche' India? non si sa, ma forse perche' India e Cina non sono tanto amiche...)

Ovviamente non e' solo il controllo dell'Artico ma anche proprio dello sfruttamento petrolifero. La ditta Rosneft ha gia' iniziato a trivellare in Artico nel 2017 in una concessione detta Khatangsky nel  Laptev Sea.

Si parla di 590 milioni di barili di petrolio di alta qualita' - leggero e a basso tenore sulfureo; un enorme ricchezza.

Oltre a Rosneft c'e' Gazprom che invece gestisce la piattaforma Prirazlomnoye nel Pechora Sea e le cui trivelle sono state inaugurate nel 2013. Anche qui si parla di 513 milioni di barili di petrolio.

Rosneft vuole trivellare nel Barents Sea, nel Kara Sea e in tutta l'area russa dell'Artico: hanno almeno 28 concessioni per un totale di 250 miliardi di barili. Sono numeri impossibilmente grandi.

Sanzioni o non sanzioni, i russi vanno avanti: non possono usufruire di beni e servizi tecnologici da paesi terzi, per via di queste sanzioni, ma dicono che troveranno i fondi fuori dalle sanzioni perche' l'Artico e' importante per la loro economia. Vogliono che il 20-30 percento di tutto il loro petrolio e gas venga dall'Artico entro il 2050.

La morale della favola e' che in questa corsa geopolitica a chi arriva prima in Artico, ci sono tanti calcoli: petrolio, navi, risorse, sogni di vanagloria.

E al resto del pianeta chi ci pensa?

Davvero Russia e Cina avranno a cuore la biodiversita' del pianeta, davvero sapranno "controllarsi"? Come gia' ci mostra la russia, non credo. La cosa piu' ironica e' che tutto questo nuovo sfruttamento dell'Artico e' reso possibile dai cambiamenti climatici, che le azioni dei russi rendera' piu' estremo, con questo maggior petrolio estratto, venduto, consumato.

 Ci vorrebbe solo un grande accordo: "l'Artico non si trivella".

mercoledì 7 novembre 2018

Populismo o momento Polanyi? Ecco come il mercato distrugge la società

Fonte: Il Fatto Quotidiano  Economia & Lobby | 6 novembre 2018 

Vi è un fenomeno che negli ultimi anni si è fatto sempre più evidente e pervasivo nella scena politica del cosiddetto occidente: una sorta di rivolta contro le élite (reali o percepite che siano) che viene definito, col consueto semplicismo imbelle che caratterizza i mezzi di comunicazione di massa, col termine di populismo o, più cacofonicamente, con quello di antipolitica (come se la politica fosse mera questione di ortodossia nei confronti del potere costituito). Naturalmente, codesti sono semplici significanti vuoti atti a definire, senza spiegare, un movimento che si sta espandendo a macchia d’olio in tutto l’emisfero occidentale e che, nella sua manifestazione fattuale, è iniziato nel Regno Unito con la cosiddetta Brexit, si è esteso dall’altra parte dell’oceano con l’elezione di Donald Trump – sineddoche di un “contropotere” rispetto a quello che potremmo definire “globalismo finanziario” – e ha toccato il nostro Paese, in occasione del referendum costituzionale del 2016 e delle elezioni politiche di quest’anno.
Siccome le categorie di “populismo” e di “antipolitica” non possono ambire alla funzione di interpretare alcunché – ma al massimo a quella di stigmatizzare un fenomeno – per cercare di comprendere quello che sta accadendo ci avvarremo della chiave di lettura fornitaci dagli epigoni degli storici della “lunga durata”, in particolare del lavoro di Giovanni Arrighi (Il lungo XX secolo, 2014). Secondo questa interpretazione, il fenomeno storico denominato capitalismo può essere diviso in cicli periodici di accumulazione, che si sono succeduti dal suo avvento.

Ogni ciclo di è costituito da tre fasi:
1. Un periodo iniziale di espansione finanziaria – che si potrebbe definire di “accumulazione originaria” – nel quale un nuovo ciclo si sviluppa in maniera “parassitaria” sul capitale accumulato dal ciclo precedente.
2. Un periodo di sviluppo e consolidamento, nel quale si verifica l’espansione materiale: il periodo del capitalismo produttivo/manifatturiero.
3. Una fase terminale di espansione finanziaria, ovvero di “conversione” del processo di accumulazione, dall’economia produttiva alla cosiddetta speculazione finanziaria. Questo fenomeno è l’espressione di una crisi nella quale quello che è definito “l’agente dominante dei processi sistemici di accumulazione del capitale” riscontra difficoltà crescenti a creare un adeguato profitto tramite la produzione di merci materiali. Pertanto, il “capitale mobile” viene indirizzato verso la finanza.
Questa sequenza di fenomeni ha conseguenze piuttosto rilevanti sull’assetto dell’economia-mondo. Il periodo di espansione finanziaria comporta notevoli costi sociali, poiché al contrario della modalità di produzione materiale non può sostenere economicamente una vasta classe media, siccome solo una parte esigua della popolazione può spartire i profitti della speculazione e dell’intermediazione finanziaria. Le criticità di questo fenomeno sono ben osservabili in tutto il mondo occidentale attraverso fenomeni quali l’allargarsi della forbice tra salari e profitti, le bolle finanziarie, l’aumento del debito a carico dei cittadini, la recessione, la deindustrializzazione, eccetera.
Inoltre la finanziarizzazione dà luogo a quello che David Harvey ha definito “accumulazione per espropriazione”, nella quale i capitali accumulati diffusamente durante gli anni dell’economia “produttiva” vengono concentrati verso le élite che controllano gli strumenti finanziari: questo comporta una diffusa espropriazione di capitale fisico (beni) accumulati dalla società nel suo assieme. Qualsiasi tipo di bolla speculativa implica una espropriazione di capitali e una concentrazione di strumenti monetari nelle mani di chi la controlla: “Questo è ciò che accadde nel sudest asiatico nel 1997-1998, in Russia nel 1998, in Argentina nel 2001-2002. E quello che è successo nel mondo intero nel 2008-2009″. (Harvey, 2010). Un esempio di questo fenomeno sono le cosiddette privatizzazioni, che non sono altro che la svendita di beni degli Stati “in crisi”, la cui accumulazione è avvenuta grazie all’opera dell’intera cittadinanza.
Un altro aspetto connesso alla finanziarizzazione è la liberalizzazione dei movimenti dei capitali e delle merci che ha favorito le cosiddette delocalizzazioni, ovvero il trasferimento degli impianti produttivi verso aree o Paesi nei quali il costo del lavoro sia più basso che nei paesi d’origine. Questo processo ha avuto la conseguenza di mettere in concorrenza i lavoratori di tutto il mondo in un’universale licitazione verso il basso del costo del lavoro. Tuttavia, un minore potere d’acquisto diffuso comporta minori consumi in beni e servizi e tende a favorire la recessione. Questo ha determinato l’insorgenza di due problemi. Il primo: l’impoverimento del ceto medio, ha eroso la base per la riproduzione capitalistica stessa. Il secondo è che questo impoverimento unito ai tagli dei servizi pubblici avvenuto in tutti i Paesi dell’occidente ha comportato, alla lunga, instabilità sociale e perdita di credibilità delle istituzioni.
Da qui le origini della crisi del modello sociale che a partire dagli anni 80 si è verificato in tutto il mondo occidentale. Una crisi di tal fatta non poteva che dare origine al cosiddetto “momento Polanyi“, la cui descrizione sintetica è formulata ne La grande trasformazione: “La nostra tesi è che l’idea di un mercato autoregolato implicasse una grossa utopia. Un’istituzione del genere non poteva esistere per un qualunque periodo di tempo senza annullare la sostanza della società […]. Era inevitabile che la società prendesse delle misure per difendersi, ma qualunque misura avesse preso essa ostacolava l’autoregolazione del mercato“. Certo, non possiamo non convenire che sia molto più facile (ancorché vacuo) chiamare tutto questo “populismo”.

martedì 6 novembre 2018

Mario Draghi difende l’indipendenza della Bce. Ma è davvero così?

Fonte: Il Fatto Quotidiano  Zonaeuro | 3 novembre 2018 

“L’indipendenza di una banca centrale è essenziale”, ha affermato recentemente il presidente della Bce, Mario Draghi. “Se le banche centrali fossero meno indipendenti, e il pubblico percepisse che la politica monetaria può essere condizionata in una direzione o nell’altra, ciò alla fine destabilizzerebbe le aspettative d’inflazione e minaccerebbe la stabilità dei prezzi, proprio come negli anni 70″.
Draghi si riferisce indirettamente agli attacchi che il presidente statunitense Donald Trump ha sferrato contro la Fed, la banca centrale americana, per avere deciso di alzare il tasso di interesse, cioè di aumentare il prezzo del dollaro (manovra questa che ha provocato un brusco calo della borsa di Wall Street). Tuttavia, al di là della legittima (e scontata) difesa d’ufficio dell’indipendenza della sua istituzione, Draghi sbaglia. E non solo perché l’inflazione ormai da molti anni non è più il pericolo principale dell’economia. La minaccia che grava sull’eurozona è infatti quella ben più grave della deflazione, cioè del ristagno dell’economia e della conseguente disoccupazione.
Il cuore del problema è però un altro: la Bce indipendente ha il monopolio della moneta, ma la crea solo a favore delle banche e non degli Stati. Le banche d’affari nazionali e internazionali e gli altri operatori finanziari – fondi di investimento, fondi speculativi, fondi pensione, assicurazioni, fondi sovrani, ecc – diventano così i “padroni della moneta” e gli Stati – che pure con le loro tasse sono i garanti ultimi del valore della moneta e sono formalmente “sovrani” – sono costretti a diventare servi dei mercati per ottenere i soldi necessari per finanziare scuole, ospedali, ricerca, sicurezza, giustizia, pensioni, ponti e strade, ecc. Senza una banca centrale prestatrice di ultima istanza, gli Stati sono in balia dei mercati finanziari. I mercati però non sono enti di beneficenza: prestano soldi dietro lauti interessi svuotando le casse dello Stato. Non a caso, da quando c’è stato il divorzio tra il Tesoro e Bankitalia, tra il 1980 ed il 2014, l’Italia ha pagato ai creditori interessi per 3.450 miliardi di euro (parametrati al 2014), una somma di proporzioni enormi (vedi Scenari economici). E questo non è comunque bastato perché il debito è continuato ad aumentare.
Torniamo al presente: attualmente il governo giallo-verde di Giuseppe Conte avrebbe in teoria tutti i mezzi per realizzare il suo programma. Infatti il bilancio della pubblica amministrazione registra un avanzo primario (entrate meno uscite al netto degli interessi) consistente, pari al 2% circa del Pil, cioè a circa 20-30 miliardi: ovvero i cittadini pagano in tasse 20-30 miliardi in più di quanto ricevono, cioè di quanto lo Stato spende in scuole, ospedali, pensioni, sicurezza, servizi pubblici, ecc. Da 26 anni – con l’eccezione di due soli anni – l’Italia registra un surplus di bilancio primario: questo però non è bastato per pagare tutti gli interessi sul debito. Quindi lo Stato italiano ogni anno è costretto a fare altro deficit – circa 30 miliardi all’anno – non per ripagare il suo debito ma solamente per pagare agli investitori finanziari gli interessi sul debito pregresso. Così il debito pubblico continua ad aumentare. E’ una spirale perversa alimentata dai crescenti tassi di interesse (i più alti in Europa dopo quelli della Grecia) applicati all’Italia dai giganti della finanza. Lo Stato italiano è in deficit solo perché deve pagare gli interessi crescenti ai creditori senza essere coperto da una banca centrale pronta a monetizzare il suo debito – ovvero a stampare denaro a favore dello Stato come fa per le banche.
La Bce, nata a Maastricht sul modello della Bundesbank tedesca, è poi, rispetto alle altre banche centrali, quella più restrittiva. La Bce negli ultimi anni ha salvato le banche dell’eurozona finanziandole per migliaia di miliardi di euro ma – a differenza per esempio della Fed, della Bank of England, della Bank of Japan – non può coprire i debiti degli Stati, neanche quando i debiti pubblici sono necessari per rilanciare l’economia e l’occupazione e uscire dalla crisi. La Bce “indipendente” non può soccorrere neppure temporaneamente gli Stati indebitati ma solvibili (come l’Italia) anche se sono colpiti dalla speculazione, ed è anche l’unica banca centrale al mondo che non può farlo.
Da questo punto di vista sono pienamente giustificate le richieste di Paolo Savona, il ministro per i rapporti con l’Unione Europea, per il quale la Bce dovrebbe potere intervenire in caso di attacco speculativo (come fanno tutte le altre banche centrali).
Dal momento che gli Stati dell’eurozona non hanno lo scudo della Bce, essi costituiscono una facile e ricca preda per la speculazione. Da qui la crescente divaricazione tra Stati creditori e Stati debitori, e la possibile rottura dell’eurozona. Dal mio punto di vista, una moneta non sostenuta dalla Banca Centrale di emissione è infatti strutturalmente fragile, pronta a sciogliersi al primo accenno di crisi monetaria.
Il problema è che le banche centrali sono (apparentemente) indipendenti dai governi ma sono invece troppo dipendenti dalle banche che dovrebbero regolamentare. Tuttavia quando le banche precipitano nella crisi per le loro speculazioni finanziarie, sono gli stati a salvarle con i soldi dei contribuenti. I debiti delle banche diventano debito dello Stato. L’indipendenza della banca centrale diventa allora formale. Inoltre troppo spesso le banche centrali fanno politica. Basti ricordare il contenuto della lettera inviata dalla Bce al governo italiano nel 2011 e firmata dall’ex presidente Trichet e da Mario Draghi: la Bce imponeva di modificare la Costituzione per raggiungere il pareggio di bilancio, di liberalizzare il mercato del lavoro e di privatizzare tutto ciò che era possibile privatizzare. La Bce ha dettato ai governi le nefaste politiche liberiste che hanno devastato e impoverito il nostro paese.
In conclusione: la moneta è un bene comune troppo importante per essere lasciato esclusivamente nelle mani dei banchieri. Il Parlamento dovrebbe avere la possibilità di decidere le linee guida delle politiche monetarie e creditizie. La Banca Centrale dovrebbe godere di autonomia operativa ma non di indipendenza assoluta. Lo Stato democratico dovrebbe ritornare ad avere almeno in parte una sua potestà monetaria; nel quadro dell’Eurozona, l’unica maniera possibile è di emettere dei titoli fiscali quasi-moneta che funzionino da moneta complementare all’euro.
Zonaeuro | 3 novembre 2018

lunedì 5 novembre 2018

Crisi euro, “perché l’Italia non è la Grecia”

Fonte: W.S.I. 5 novembre 2018, di Alberto Battaglia

“Non vorrei che dopo aver superato la crisi greca ricadessimo nella stessa crisi con l’Italia”: così affermava a inizio ottobre il presidente della Commission europea, Jean-Claude Juncker, suscitando aspre critiche da parte di Matteo Salvini (con la battuta “parlo con persone sobrie”). E’ possibile che la crisi fra Italia e Ue possa portare a conseguenze analoghe a quelle sperimentate da Atene?
Per rispondere a questa domanda è necessario fare un passo indietro e domandarsi quali siano le rispettive cause della crisi e le relative situazioni di partenza. Ha cercato di compiere questo esercizio Martin Hüfner, ex capo economista di Hvb (banca tedesca del gruppo Unicredit). Secondo Hüfner, non è vero, come affermato dall’economista Carmen Reinhart, che un’eventuale crisi in Italia farebbe sembrare la Grecia “roba da bambini”, in quanto “alcune cose sono peggiori, altre migliori, altre semplicemente differenti”.
  • La grandezza del Pil. E’ noto come la rilevanza dell’economia italiana, la terza in Europa, sia di gran lunga superiore a quella greca, il cui prodotto interno lordo è otto volte inferiore. Questo, in un senso o nell’altro, rende la questione più importante.
  • L’accesso al mercato dei capitali. “I greci avevano bisogno di soldi al momento dell’inizio della loro crisi”, ha precisato l’economista su The Globalist, “i prestiti erano in scadenza e non avrebbero potuto aumentare ulteriormente il debito sul mercato dei capitali. L’Italia non ha (ancora) alcuna difficoltà a rifinanziare il proprio debito”. Questo appare come uno dei punti chiave per interpretare la situazione: il deficit proposto dal governo italiano è superiore a quello precedentemente concordato, ma non sarebbe un problema di finanza pubblica in senso stretto. “Il problema di Roma non riguarda i soldi, ma l’osservanza delle regole dell’unione monetaria” scrive l’economista tedesco, per cui per Atene il percorso di aggiustamento pilotato dai creditori internazionali fu una condizione necessaria. In Italia tali misure “sembrano comunque necessarie per risolvere i veri problemi del Paese”.
  • La struttura del debito pubblico. La rilevanza di un default greco è stata particolarmente sentita fuori dai confini ellenici anche perché l’80% di tale debito era detenuto all’estero. La situazione italiana, al contrario vede tale quota ridotta a circa il 30% e “ciò rende la soluzione più facile in molti modi”, ha scritto Hüfner.
Queste differenze sono sufficienti per affermare che i casi di Grecia e Italia “abbiano poco in comune”. Tuttavia, molti interrogativi restano in attesa di risposta. In particolare, sarà opportuno chiarire se e in che modo i trattati europei possano essere modificati nella direzione sollecitata da Roma, e con quali supporti fra gli altri stati membri. “Ma anche se si trovasse una soluzione per questo, rimane il problema dei crescenti tassi d’interesse in Italia”, ha aggiunto l’economista, “sono ancora sopportabili al livello attuale del 3,5%, ma le cose sarebbero diverse una volta raggiunto un livello del 4,5%”, ha concluso Hüfner evocando in questo caso la necessità di concordare, come avvenuto in Grecia, un piano di aiuti finanziari condizionati a riforme di austerità. Ma il governo italiano, almeno per ora, è nella posizione di poter evitare questo tipo di risultato

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