sabato 27 gennaio 2018

Orologio dell’Apocalisse, due minuti alla mezzanotte ed è sempre colpa di Trump

Fonte: Il Fatto Quotidiano di F. Q. 25 gennaio 2018
Lo avevano già fatto un anno fa quando Donald Trump era stato eletto: spostare le lancette di 30 secondi verso la mezzanotte dell’Apocalisse. E un anno dopo il mondo è ancora più vicino al punto di non ritorno. Citando i dodici mesi della nuova presidenza americana, l’associazione degli scienziati atomici che mantengono il Doomsday Clock hanno spostato nuovamente le lancette che ora si trovano ad appena due minuti dalla mezzanotte. “Non succedeva dal 1953, all’apice della guerra fredda”, ha avvertito Rachel Bronson, la presidente dell’organizzazione. L’annuncio della nuova valutazione, raggiunta in coordinamento con un comitato di 15 premi Nobel e resa nota nel giorno del debutto di Trump a Davos, è stato dato a Washington dal Bollettino degli Scienziati Atomici, un gruppo di esperti fondato dopo la Seconda Guerra Mondiale. “Trump deve moderare la retorica nucleare, negoziare con la Corea del Nord, restare nell’accordo con l’Iran, ridurre le tensioni con la Russia e insistere per un’azione globale contro il cambiamento climatico”, affermano gli scienziati, secondo cui “nel 2017 i leader mondiali non sono riusciti a rispondere efficacemente alle minacce della guerra nucleare e del cambiamento del clima, creando la situazione più pericolosa per il mondo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale”.
Nei decenni dalla sua istituzione l’orologio dell’Apocalisse era arrivato a due minuti dalla mezzanotte solo nel 1953, il momento più pericoloso nel secondo dopoguerra per le sorti del mondo. Quell’anno gli Stati Uniti avevano deciso di aggiornale i loro arsenali nucleari con la bomba all’idrogeno. Nel 2015 l’orologio era stato spostato da cinque a tre minuti dalla mezzanotte, mentre nel 2017, a causa dell’elezione di Trump, le lancette erano arrivate a due minuti e mezzo dall’Apocalisse. Al momento della sua ideazione, le lancette furono impostate a sette minuti dalla mezzanotte. In questi 70 anni si sono mosse una ventina di volte, toccando il loro minimo appunto negli Anni ‘50, con appena due minuti d’intervallo dal baratro. In passato, il pericolo numero uno per il mondo, uscito dal secondo conflitto bellico diviso in due blocchi contrapposti, era quello di un olocausto nucleare. A questa, nel tempo, si sono aggiunte altre emergenze, come per l’appunto i mutamenti climatici o la ricerca di nuove fonti energetiche sostenibili e sicure.
Il report del Bulletin of the atomic scientists sul Doomsday clock 2018

giovedì 25 gennaio 2018

Il salario minimo in Europa, tra i sistemi anche quelli in cui è solo il governo a decidere

Fonte: Il Fatto Quotidiano Economia & Lobby | 25 gennaio 2018

di Manuel Marocco*
Il salario minimo è presente in tutti i paesi europei e costituisce una pietra angolare del modello sociale europeo. Nel Pilastro Europeo dei diritti sociali (volto all’individuazione di un nucleo di principi e diritti sociali europei, derivanti dalla ricognizione dell’acquis sociale della Ue e da fonti di diritto internazionale) , del resto, oltre ad essere richiamato il diritto a retribuzione eque e sufficienti, sono fissati due principi per l’ipotesi in cui sia la Legge a determinare il salario minimo . Il Pilastro non si spinge, come si è discusso, sino alla fissazione di una soglia minima europea; d’altro canto, sulla base dei Trattati europei (art. 153, TFUE), la materia salariale è saldamente di competenza nazionale.
La distinzione fondamentale tra i regimi europei concerne il campo di applicazione, di tipo universale, in quanto applicabile a tutti i lavoratori, ovvero settoriale, poiché destinata a settori o gruppi di occupati. Nettamente prevalente è il primo regime, presente in 22 paesi su 28; nel secondo rientra l’Italia, insieme ai paesi inventori della flexicurity (Danimarca, Finlandia e Svezia) e l’Austria. Al campo di applicazione corrisponde, di fatto, lo strumento di determinazione del salario minimo: i paesi con regime universale utilizzano a tale scopo la Legge, gli altri il contratto collettivo, eventualmente accompagnato da meccanismi di estensione legale (Austria e Finlandia). Si tratta di paesi in cui l’assenza di un intervento pubblico è tradizionalmente controbilanciata da alti livelli di copertura della contrattazione collettiva, nonché di densità associativa, e/o da meccanismi legali di sostegno della membership, a garanzia del salario contrattuale. Solo di recente (gennaio 2015) la locomotiva d’Europa – la Germania – ha abbandonato questo modello e ha deciso di introdurre il salario minimo legale (SML).
Nei paesi del primo gruppo, varia notevolmente il valore nominale del SML, la frequenza degli aggiornamenti, i parametri di calcolo e le procedure di determinazione.
Particolarmente delicate sono queste ultime. Da questo punto di vista, possono essere distinti tre modelli (European Commission, 2016), sulla base della più o meno rigorosa formalizzazione della stessa procedura e, di conseguenza, del livello di discrezionalità del governo.
In alcuni sistemi – pochi – il processo è privo di formalità: lo strumento è nella piena discrezionalità dell’Esecutivo, non esistendo specifici obblighi di negoziazione o consultazione di altri attori, ma solo una generale previsione di consultazione e cooperazione con le parti sociali nel caso di interventi in materia di lavoro.
In altri, è prevista la partecipazione di altri attori, variandone forma e valore. In questo gruppo, quello più numeroso, rientrano, innanzi tutto, i casi in cui è il SML è determinato da un organismo terzo, partecipato o meno dalle parti sociali. In Germania, inizialmente il livello è stato fissato dal governo, dopo aver consultato parti sociali ed esperti; tale compito spetta ora ad una apposita Commissione, i cui componenti sono nominati dal Ministero del Lavoro su indicazione delle parti sociali. Sempre nello stesso gruppo, rientrano i paesi in cui il governo procede dopo aver consultato le parti sociali: in alcuni casi questa consultazione è solo eventuale, in quanto è l’Esecutivo a decidere, in altri la consultazione è prevista, ma si svolge in via informale ed, infine, in altri ancora si realizza in forma istituzionale. Nell’ambito di questo gruppo risultano accorpate tradizioni istituzionali molto diverse, e, di conseguenza, spesso la prassi varia al variare degli equilibri politici. Nel 2016-17 (Eurofound, 2017) in diverse nazioni, il SML è stato fissato unilateralmente dal governo, poiché, diversamente dal passato, le parti sociali sono solo state informate, ma non coinvolte nella decisione (Spagna), ovvero perché le stesse non hanno raggiunto un accordo (Croazia, Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia). In Ungheria e Grecia (rispettivamente dal 2011 e dal 2012), le parti sociali sono state relegate ad un ruolo solo consultivo.
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*INAPP – Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche

mercoledì 24 gennaio 2018

Elezioni, i mercati vogliono le larghe intese con Gentiloni ma il premier: “Al governo con Berlusconi? No”

Fonte: Il Fatto Quotidiano  di | 24 gennaio 2018
L’uomo che i mercati vorrebbero alla guida di un governo di larghe intese è contrario alle larghe intese. “Un governo in coalizione con il centrodestra guidato da Silvio Berlusconi? Per rispondere direttamente alla sua questione, no. Non sarei interessato”, ha detto il premier Paolo Gentiloni, intervistato dalla Cnbc al World Economic Forum di Davos. Dopo Matteo Renzi, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, anche quello che è indicato come l’uomo perfetto per guidare un governo sostenuto dal Pd e Forza Italia, dunque, si dice contrario a una nuova Grosse Koalition. Almeno a parole.
“Sono in buona salute – ha detto il premier – ma il mio impegno, 13 mesi fa, era portare il paese alla fine della legislatura, portare avanti le riforme e affrontare alcune crisi serie come quella migratoria e delle banche. Questo era il mio impegno e termina con le elezioni. Dopo, vedremo”. Eppure, come ha scritto ilfattoquotidiano.it, infatti, secondo un rapporto degli analisti di Credit Suisse sul voto italiano, l’ipotesi più probabile per il post 4 marzo è un parlamento “appeso, e la “formazione di una grande coalizione trasversale” con il Pd, Forza Italia e gli altri partiti di centro guidata proprio da Gentiloni. Opzione che, per l’istituto elvetico sarebbe “sufficientemente rassicurante per i mercati”. A proposito di un parlamento senza maggioranza, però, Gentiloni si è espresso in maniera negativa. “Speriamo che non sia questo il caso e che il centrosinistra che rappresento abbia la maggioranza. In ogni caso penso che saremo il pilastro di una possibile coalizione: abbiamo una certa expertise in materia di flessibilità nel mio paese”, ha detto il premier rivendicando per il suo partito il ruolo di interlocutore più affidabile per l’Unione Europea.
“È un errore sottovalutare le ragioni che sostengono i populisti e gli anti europei. Ma non trionferanno Dobbiamo essere molto attenti con queste elezioni a non interrompere il processo di riforme che abbiamo realizzato negli ultimi cinque anni con lo sforzo dei lavoratori e delle imprese italiane. Sarebbe molto grave”. Chi sono per il presidente del consiglio italiano i populisti? Sicuramente il Movimento 5 stelle, come ha detto nei giorni scorsi. Ma anche la Lega e Fratelli d’Italia. Berlusconi, invece no. “Non chiamerei Berlusconi un populista, ma prendo atto del fatto che nella sua coalizione populisti e anti europeisti non solo sono presenti ma sono predominanti“.
di | 24 gennaio 2018

martedì 23 gennaio 2018

Debito pubblico, senza evasione fiscale si estinguerebbe in 18 anni

Fonte: WSI 23 gennaio 2018, di Livia Liberatore

Se non ci fosse più evasione fiscale, il debito pubblico italiano si estinguerebbe in 18 anni. Lo dice un articolo di Il Sole 24 Ore che mette a confronto diversi dati. Innanzitutto, una ricerca dell’Università Ca’ Foscari, pubblicata dall’Ufficio valutazione impatto del Senato. Questo studio mette in relazione la propensione delle persone a sottostimare i propri redditi nelle rilevazioni statistiche con l’inclinazione a nasconderli anche al momento di pagare le tasse. Una relazione che sarebbe diretta.
La ricerca dell’università definisce in un range tra 124,5 e i 132,1 miliardi l’evasione fiscale sui redditi, commisurata al 14,4% della base imponibile. Le precedenti stime si attestavano sul 7,5%. Michele Bernasconi, uno dei docenti della Ca’ Foscari che ha realizzato il documento, spiega:
“applicando l’under reporting ai dati statistici derivanti da indagini sulle famiglie si arriva molto vicino alle valutazioni del Mef 2016 riferite al 2010″.
Da considerare che il debito è stato accumulato in 47 anni: nel 1970 era di 236 miliardi di euro attualizzati. Ma secondo il Sole 24 Ore, “le speranze sono poche”. L’evasione fiscale dei lavoratori dipendenti si attesta sul 3,5% dei redditi, mentre per i redditi da lavoro autonomo e d’impresa è il 37% per cento. Sugli affitti è del 44%, nonostante l’introduzione della cedolare secca del 21%, che avrebbe attenuato ma non cancellato l’evasione. Precisa l’articolo:
“Il dato va letto, infatti, con il rapporto evasione 2017 del Mef: tra il 2010 ed il 2015 il tax gap sugli affitti sarebbe passato da 2,3 a 1,3 miliardi di euro, mentre la propensione al gap avrebbe avuto una discesa dal 25,3% al 15,3%. E qui la trama della statistica mostra qualche buco.

lunedì 22 gennaio 2018

Schiaffo UE all’Italia: legalizzato Made in Italy “tarocco”

Fonte: WSI 22 gennaio 2018, di Francesco Puppato
Il “made in” viene attribuito in base al luogo nel quale viene effettuata l’ultima trasformazione sostanziale. Quindi, se comprate un salame Made in Italy, non vuol dire che la filiera è italiana, ovvero che gli animali sono stati allevati in Italia secondo le regole di qualità ed igiene italiane, ma che in Italia si è svolta solo l’ultima trasformazione sostanziale dell’ingrediente usato per fare il salame.
Un maiale, ad esempio, può essere allevato, nutrito e trattato in Germania, in Austria, in Cina o chissà dove, secondo le regole in materia di igiene e qualità vigenti in quel Paese, ma la sua carne può essere venduta come Made in Italy; è sufficiente, appunto, che l’ultima trasformazione sia avvenuta in Italia.
Il nuovo Regolamento che la Commissione europea ha pubblicato sul proprio sito, dove rimarrà a disposizione per la consultazione pubblica anche se solo in lingua inglese fino al primo febbraio, data in cui entrerà in vigore, punta finalmente a regolare i prodotti confezionati in un determinato Paese ma con materia prima straniera e, nei casi in cui la confezione potrebbe trarre in inganno i consumatori, indica che l’origine va dichiarata sull’etichetta.
Il problema, dunque, in prima battuta sembra essere risolto. Vediamo invece, innanzitutto, che il medesimo regolamento (1169 del 2011) sarebbe dovuto essere stato approvato entro il 2014 ed ha quindi regalato quattro anni di business all’industria dell’anonimato.
Poi, come riporta “Libero”, notiamo anche che la Commissione ha escluso dall’obbligo di dichiarare l’origine le denominazioni generiche (pasta, prosciutto, formaggio, mortadella, latte a lunga conservazione, mozzarella, olio e via dicendo) e pure i marchi.
È infatti sufficiente che nel logo del produttore vi sia, ad esempio, un nastro o una coccarda tricolore e l’obbligo di dichiarare da dove provenga l’ingrediente primario decade.
Il caso più emblematico è quello della Pasta Miracoli; prodotta in Germania ed etichettata con una enorme profusione di tricolori, non ha l’obbligo di dichiarare la provenienza.
Ancora, l’obbligo non vale neanche per le Igp (Indicazioni geografiche protette), così i produttori potranno continuare ad importare la materia prima che impiegano senza dover scrivere nulla a riguardo.
Il produttore dovrà dichiarare da dove provenga la materia prima dell’ingrediente primario soltanto qualora dovesse indicare chiaramente “Made in Italy” sulla confezione. In questo caso, però, potrà cavarsela con un generico “Paesi Ue” piuttosto che “Paesi non Ue” o ancora “Paesi Ue e non Ue”, a seconda della provenienza.
come fa notare Dario Dongo, uno dei massimi esperti di diritto alimentare:
“Una dichiarazione che equivale a scrivere “Pianeta Terra”.”
Siamo davanti ad un altro schiaffo da parte dell’Unione europea nei confronti dell’Italia; il Made in Italy, che KPMG censisce come terzo marchio al momndo per notorietà dopo Coca-Cola e Visa, sta subendo uno smantellamento epocale per mezzo delle normative europee che, così facendo, favoriscono addirittura i mercati non comunitari ed i taroccatori.
Sa infine di presa in giro anche la consultazione pubblica cui la Commissione europea ha sottoposto il provvedimento tramite il proprio sito web: il testo è esclusivamente in inglese e non vi è stata nessuna informazione di pubblicazione; inoltre, non solo non vi è traccia nelle comunicazioni ufficiali di Bruxelles sull’apertura della consultazione, ma il documento è quasi introvabile sul sito web della Commissione, nascosto nelle pagine di una delle tante direzioni generali.
Un’informazione, insomma, più utile ai fini delle grandi imprese e delle associazioni di categoria strutturate a livello europeo, più che per i cittadini.

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