venerdì 3 marzo 2017

Un altro pezzo di Jobs Act

Oggi sul Foglio Tommaso Nannicini – il docente della Bocconi che è anche l’economista più influente del renzismo – spiega in che cosa consiste il “lavoro di cittadinanza” proposto dall’ex premier:
«Non un piano di lavori socialmente utili di massa ma una sfida culturale. (…) Non è lo Stato chioccia che trova lavoro a tutti, ma una visione per tenere insieme crescita e inclusione sociale continuando sul percorso tracciato dal Jobs Act, attraverso un menù di policy diverse che favoriscano l’attivazione e mettano al centro il capitale umano. (…) Ad esempio, servizi di riattivazione sociale con offerte formative che trovino sbocchi lavorativi, una dote messa dallo Stato che si spende per un processo formativo in un circuito di soggetti (…), un esonero contributivo individuale che il giovane si porta dietro in qualunque azienda. È il pezzo mancante del Jobs Act».
Nannicini ha ragione: così, è un altro pezzo di Jobs Act.
Perché è ispirato alla stessa cultura, alla stessa ideologia.
Secondo questa proposta, infatti, la società, attraverso le sue istituzioni e la sua fiscalità, non deve intervenire a ridistribuire i capitali accentrati a causa del mix recente di mutamenti tecnologici e scelte economiche; né ritiene che vi sia un problema di rarefazione del lavoro, determinato dalla robotizzazione e degli algoritmi, che rende indispensabile (per il mantenimento stesso della stabilità sociale ed economica) un meccanismo diverso da quello classico (salario in cambio di manodopera) per consentire a tutti un’esistenza dignitosa e una partecipazione alla dinamica di produzione e consumo.
La società, attraverso le sue istituzioni, così si limita invece ad agevolare i tuoi skill, le tue chance di essere utile al mercato del lavoro. Nella piena fiducia che, se tu ti aggiorni, sarai assorbito da detto mercato.
C’è appunto un’ideologia, alla base della convinzione che un intervento di questo tipo sia risolutiva e rappresenti un’alternativa al reddito minimo: l’affidamento mani e piedi al mercato. La convinzione che questo possa risolvere da solo, una volta oliati i suoi meccanismi, i disastri da esso stesso creati: disoccupazione, precarizzazione, diminuzione e discontinuità di reddito, emarginazione ed esclusione sociale.
Il Jobs Act, nella sua impostazione, andava nella stessa direzione: era cioè basato sul teorema che se lo Stato offriva al mercato del lavoro il diritto di demansionare, telecontrollare e licenziare a piacere, il mercato del lavoro sarebbe rifiorito. Abbiamo visto com’è andata.
Ha ragione Nannicini, questo è un altro pezzo di Jobs Act. Lo è non tanto in sé (agevolare i know how va sempre bene, ci mancherebbe) ma come presunta ricetta (alternativa al reddito minimo e al welfare reale) per combattere il crac sociale che si è verificato negli ultimi dieci anni.
Ed è un pezzo di Jobs Act perché nell’affidare tutto al mercato contiene il rifiuto di un intervento che bypassi il mercato stesso e ne sia indipendente.
Con tutto il rispetto: l’agevolazione degli skill funziona davvero (ha cioè un’incidenza reale) quando un’economia cambia crescendo, quando l’ascensore sociale si muove, quando le dinamiche nazionali e internazionali sono positive; nella disastrata situazione attuale, accanto al problema di creare competenze c’è il problemuccio che il mercato assorbe sempre meno competenze, quali che siano. Quindi siamo lontanissimi da un intervento realisticamente d’impatto. Siamo di fronte a cosmesi, nel migliore dei casi; nel peggiore, a un imbroglio.
Non so, con precisione, che cosa ci sia dietro il rifiuto ideologico dei renziani verso il reddito minimo (condizionato o universale che sia). Ed è curioso che, nel suo viaggio alla Silicon Valley, Renzi non abbia maturato un po’ di interesse verso il dibattito e gli esperimenti in merito che avvengono proprio da quelle parti.
Nannicini, di scuola bocconiana, forse ha una reale fiducia nella famosa “mano invisibile”.
O forse anche lui crede, come dicono diversi della sua parte, che «un reddito non basta, è il lavoro a dare dignità alla persona». Il che ha un suo fondamento – la questione è lunga – ma curiosamente proviene dalla stessa area politico-culturale che (anche prima di Renzi, s’intende) in nome dell’affidamento al mercato ha svuotato il lavoro proprio della sua dignità. E lo ha fatto avvicinandolo ogni giorno di più alla schiavitù: riducendolo a chiamata, all’ora, a voucher, senza diritto alla malattia o alle ferie, telecontrollabile, demansionabile, ricattabile, sottopagabile, a cottimo – e licenziabile a uzzolo.
Prima hanno svuotato il lavoro della dignità. Ora ci spiegano che il reddito minimo non si può fare perché è il lavoro a dare dignità.
Difficile capirli, onestamente.
Da gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it
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.. e cosa vogliamo dire in più se non che alle prossime elezioni, per favore, non votate per questi qui?

giovedì 2 marzo 2017

Voucher, tutte le giravolte di Poletti. Da “basta qualche correttivo per evitare abusi” a “devono usarli solo le famiglie”

Nel 2014 e 2015 il ministro non riteneva necessarie modifiche. Anzi, con uno dei decreti attuativi del Jobs Act ha innalzato il tetto massimo che ogni lavoratore può percepire in buoni. E si è opposto alle proposte per restringerne i settori di utilizzo. Nel 2016 ha cambiato idea: occorreva renderli tracciabili per “evitare furbate”. Dopo il via libera al referendum della Cgil per abolirli si è lasciato scappare che era meglio votare prima per rinviarli. Poi ha ritrattato. Ora l’ultima capriola.“Conservarli seppur introducendo qualche correttivo”. Ma anche: “Riportarli allo spirito originario”. O meglio: “Rimettiamoci mano per evitare abusi”. E quindi? “Le aziende possono utilizzarli, certo, ma senza fare furbate”. Anzi, no: “Li usino soltanto le famiglie”. Tra capriole ed equilibrismi, dichiarazioni d’intenti contrastanti e tentennamenti, il Poletti-pensiero sui voucher si arricchisce di una nuova sfumatura.
L’ultima esternazione del ministro del Lavoro, fresca di giornata, recita: “Io credo che i voucher vadano modificati lasciandoli tendenzialmente per le famiglie, per i piccoli lavori, e non per le imprese, che hanno già i contratti di lavoro”. L’affermazione di Giuliano Poletti di per sé sembrerebbe esaustiva, ma si tratta dell’ennesimo cambio di rotta sui buoni del lavoro da 10 euro diventati la frontiera più estrema del precariato. Con l’ultima giravolta l’ex presidente di Legacoop si allinea di fatto con l’orientamento della commissione Lavoro della Camera, che sta lavorando a un testo unificato di riforma dei voucher e il cui presidente Cesare Damiano proprio mercoledì ha preannunciato che “è stata fortemente sostenuta la tesi di prevedere l’uso esclusivamente per le famiglie e non per le imprese e la pa”. Ma fino a poco tempo fa (prima che la Consulta desse il via libera al referendum sull’abolizione dei buoni) Poletti non era certo di questa opinione.
Prima la sottovalutazione del rischio, poi il tentativo di ridimensionare il problema – All’inizio sembravano non essere affatto una grana da risolvere. Nei primi mesi d’incarico come ministro del Lavoro del governo Renzi, nel 2014, Giuliano Poletti il problema dei voucher semplicemente non se lo pone. Se ne parla sempre di più, soprattutto in rete: emergono le prime denunce di abusi, ma negli uffici del ministero di Via Veneto si continua a fare spallucce. Il momento a partire dal quale non si può più far finta di niente ha una data precisa: il 29 maggio 2015. Quando, cioè, a denunciare i voucher come “la nuova frontiera del precariato” è Tito Boeri in persona, ovvero il presidente dell’Inps scelto da Matteo Renzi. Il quale, da Palazzo Chigi, prova a cavarsela con la più vecchia delle giustificazioni: “Quello dei buoni lavoro è uno strumento che abbiamo ereditato dai precedenti governi”. Il premier e il suo ministro del Lavoro rivendicano che al loro esecutivo non va attribuita alcuna volontà di estenderne l’utilizzo. Cosa che Poletti ripete ancora oggi: “Non abbiamo fatto nulla per ampliare e agevolare i voucher”. E forse dev’essersi distratto, visto che nel Jobs Act che lo stesso Poletti ha tante volte incensato, è stato introdotto l’innalzamento del tetto che ogni lavoratore può percepire in voucher nell’arco di un anno: da 5mila a 7mila euro.
La battaglia ai tempi del Jobs Act. M5S: “Poletti si oppose a qualsiasi limitazione dell’uso dei voucher” – La possibilità d’intervenire sui voucher, limitandone l’uso e riducendo i rischi di abuso, c’era già stata nell’autunno del 2014, ai tempi della discussione in Parlamento della delega sul Jobs Act. Ma Poletti non ne volle sapere: del resto, si era ancora in una fase in cui dei buoni lavoro erano in pochi a parlare. Sia in Commissione sia in Aula, le opposizioni (SelCinque Stelle) evidenziarono i rischi legati alla scelta di proseguire sulla strada della liberalizzazione dei voucher. Ci furono proposte volte a restringere i settori d’utilizzo dei buoni, vietandoli alle imprese e alla pubblica amministrazione, e a tornare al perimetro esclusivo delle “prestazioni meramente occasionali”. Ricorda il deputato pentastellato Claudio Cominardi, che in quella discussione fu relatore di minoranza: “Facemmo le barricate, e da Poletti ricevemmo solo dei No. A noi era chiaro il pericolo della precarizzazione estrema connessa al lavoro accessorio, ma il governo preferì marciare a tappe forzate senza ascoltare alcuna critica”.
La tracciabilità non funziona. Poletti: “Le imprese? Possono usare i voucher, ma impediremo le furbate” – Dopo mesi di sottovalutazione del rischio, finalmente nella primavera 2016 anche Poletti ammette che quello dei voucher è un problema da affrontare. Pur ribadendo i meriti di questo strumento: “Non possiamo buttare il bambino con l’acqua sporca: i voucher – dichiara – hanno aiutato l’emersione del lavoro nero. Ma dobbiamo contrastare chi li usa male”. Come? “Rendendoli pienamente tracciabili: solo così riusciremo ad evitare le furbate delle aziende”, afferma convinto. Però quando, nel maggio scorso, Sel lo incalza su questo argomento alla Camera, nel corso del Question time il ministro si limita a parlare di “criticità” in modo così timido che alcuni giornali titolano: “Poletti difende i voucher”. Lui precisa, dice di volerli riformare, e s‘impegna a farlo nel decreto correttivo del Jobs Act che viene approvato a settembre 2016. Poletti esulta: “Abbiamo deciso di introdurre la tracciabilità piena per contrastare con ancora maggior forza il loro utilizzo irregolare”. Un successo, secondo il ministro, che infatti esalta questa modifica in ogni circostanza in cui, d’allora in poi, si ritrova a parlare dei voucher. I sindacati protestano: “La misura non funziona perché i controlli sono troppo scarsi”. Ma Poletti non ci sta: “Noi abbiamo introdotto la legge, i controlli seguiranno”. E invece non è così, almeno stando a quanto affermano i tecnici dello stesso ministero del Lavoro a ilfattoquotidiano.it nel dicembre scorso: “Impossibile effettuare tutti i controlli necessari”.
Gaffe e rettifiche: “Referendum per abolirli? Meglio anticipare le elezioni per evitarlo. Anzi no” – Cambia il governo, ma Poletti resta al suo posto. E conserva la sua tendenza a contraddirsi da solo. Quando la Cgil presenta i 4 referendum sul Jobs Act, proponendo – tra l’altro – l’abolizione dei voucher, il ministro del Lavoro del nuovo esecutivo Gentiloni afferma: “Se si vota prima del referendum il problema non si pone. Diventa ovvio che per legge l’eventuale referendum sul Jobs Act sarebbe rinviato. Insomma, meglio aggirare lo spauracchio accelerando la fine della legislatura: sembra questo il suggerimento di Poletti. Sembra ma non è, perché passa appena qualche ora e Poletti si corregge, spiegando ai colleghi del governo appena insediatosi che quella dichiarazione è stata una semplice “scivolata”. Un anticipo di ciò che avverrà di lì a pochi giorni con la questione dei giovani emigrati all’estero in cerca di lavoro: prima la figuraccia, poi la rettifica e l’ammissione di colpa.
Nuovo cambio di strategia e giravolta: “Le imprese? Hanno i contratti di lavoro. Per loro niente voucher” – Intanto vengono diffusi i dati ufficiali sull’esplosione dei voucher: nel 2016 ne sono stati utilizzati 134 milioni. Cifre di fronte alle quali si pretende un pronunciamento definitivo da parte del ministro del Lavoro. Poletti allora prima – è la fine di dicembre – cerca di prendere tempo (“Abbiamo introdotto la tracciabilità, e dal prossimo mese vedremo l’effetto e in caso interverremo di nuovo”); poi, a inizio gennaio, dichiara “aperta la riflessione sull’utilizzo dei voucher” e infine, il 30 dello stesso mese, annuncia: “Pensiamo di intervenire con modifiche normative per andare nello spirito originario dei voucher, il lavoro accessorio e occasionale”. Ovvero, in sostanza, le stesse modifiche che invocano da anni sia i detrattori del Jobs Act sia Damiano e altri esponenti del Pd nelle Commissioni Lavoro di Camera e Senato. Ora, infine, il ribaltamento totale delle tesi fin qui sostenute: ovvero, spiega il ministro, bisogna vietare i voucher alle imprese e lasciarli solo alle famiglie. Ma come? Non si era detto che le aziende potevano utilizzarli, pur senza furbate, e che le misure di controllo messe in campo bastavano ad evitare gli abusi? Misteri del Poletti-pensiero, che più che compreso va evidentemente interpretato.

mercoledì 1 marzo 2017

Autodeterminazione e responsabilità (STEFANO RODOTÀ)

LE cronache ci mostrano quasi ogni giorno come vi sia una intensa richiesta di autodeterminazione, che davvero investe l’intero arco della vita.
CASI come quello di Fabiano Antonini, il dj Fabo, individuano il punto più intenso della libertà esistenziale, perché pongono non solo la questione di chi abbia il potere di scrivere il “palinsesto della vita”, di individuarne il perimetro, ma soprattutto fanno divenire ineludibile il problema di chi possa avere il potere di determinarne la durata, di stabilire se debba continuare o no l’essere nel mondo di una persona.

Ma l’area da governare non riguarda soltanto il fine vita, il morire, anche se qui il potere di scelta si fa più drammatico, perché estremo, irreversibile. È ben più vasta, comprende l’insieme delle decisioni riguardanti ogni momento dell’esistenza — dal suo inizio alla sua fine — e la determinazione dei casi e delle modalità che riguardano la possibilità di dare voce e potere anche a persone diverse dal diretto interessato.
La discussione di questi giorni, dominata, com’è inevitabile e pure giusto, da una forte emotività, potrebbe indurre a ritenere che si viva in una situazione caratterizzata dal disinteresse istituzionale, dall’assenza di significativi principi di riferimento. Non è così, e lo dimostra anche il linguaggio comune quando adopera espressioni come “morire con dignità”, dove il fatto naturale della morte è distinto dal processo del morire, che appartiene ancora alla vita, sì che è ben evidente la consapevolezza di persone e istituzioni della possibilità di intervenire in questo processo per associare il morire ad un principio ormai così fortemente collocato nella dimensione istituzionale, qual è appunto quello di dignità. Fin dall’inizio, infatti, nel delineare il sistema istituzionale si è avuta piena consapevolezza dei rischi legati all’intervento nel mondo della vita, tanto che l’articolo 32 della Costituzione si chiude con queste parole: “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. È una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, una sorta di nuovo habeas corpus, con il quale il moderno sovrano, l’Assemblea costituente, promette ai cittadini che non “metterà la mano” su di loro, sulla loro vita. Al centro del contesto istituzionale si pone quindi il consento informato della persona. Proprio questa è la linea seguita dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 438 del 2008. Qui si legge che «la circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute».
Le istituzioni, dunque, hanno una ben chiara responsabilità. Non possono limitarsi ad un riconoscimento formale, ma rendere effettivi questi diritti proprio perche definiti fondamentali, rimuovendo gli ostacoli che ne rendono difficile o addirittura impossibile l’attuazione.
Articolo intero su La Repubblica del 28/02/2017.

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Gli italioti sanno leggere?

lunedì 27 febbraio 2017

Nemmeno nella morte...

In questo paese non solo i vivi ma pure chi vorrebbe andarsene in silenzio e senza clamore diventa un problema. DJ Fabo è solo l'ultimo della serie: per poter dire addio in dignità è dovuto emigrare in Svizzera. La vicenda la conosciamo e quindi non sto a raccontarla però segnalo come, ancora una volta, questo paese sa essere veloce se si tratta di qualcosa che interessa chi detiene il potere, e i suoi sodali, e lento se non fermo se si tratta di problemi e vicende che riguardano gente comune o problemi dirimenti, per chi non lo sapesse qui gli do la valenza di "questione che fa perdere voti o nascere polemiche con Chiesa e suoi credenti elettori", che è meglio non dover affrontare: solo che cominciano a essere un pò troppi questi problemi e quello di poter lasciare liberi i cittadini di morire in piena dignità non è certo il meno importante, vero?
Naturalmente si è liberi ognuno di pensarla come si vuole ma ci sono cose che non possono non essere affrontate.. se vogliamo essere annoverati fra i paesi laici dell'occidente e nno uno stato confessionale!!!

domenica 26 febbraio 2017

Nel paese del tempo perduto e rapinato (Antonio Padellaro)

Nel Paese del tempo perduto la legge fondamentale non è la Costituzione ma il decreto Milleproroghe. Infatti serve a poco interrogarsi sul perché il governo abbia fatto l’accordo con i tassisti dopo e non prima le cinque giornate di scioperi, bombe carta e tirapugni, se non si ha ben chiaro lo spirito del gioco di ruolo in corso. Io, dice lo Stato al cittadino tassista (o creditore della Pubblica amministrazione o parte civile in un processo o in lista per una tac), lasciando marcire il tuo problema ho rubato il tuo tempo: tu vieni pure a riprenderlo se ne sei capace.
Dai e dai può anche succedere che il cittadino tassista sbrocchi (siamo a Roma) pensando agli Uber che fanno tanto figo o ai noleggiatori venuti da lontano ad accaparrarsi clienti in nero.
E lui che deve finire ancora di pagare la licenza di platino (fino a 400 mila euro) fa casino in piazza (male, malissimo c’indigniamo noi dai nostri divani), però finalmente ottiene l’attenzione del ministro Delrio. Tempo rapinato (spesso con l’aggravante dei futili motivi) è la prescrizione che ogni anno cancella oltre 130 mila processi con altrettante parti lese a cui neppure sarà concesso di scendere in piazza per recuperare con la forza (male, malissimo) ciò che hanno perduto per sempre. Come la donna stuprata vent’anni fa quando era una bambina e che da ieri potrebbe anche incrociare per la strada il suo violentatore. Che condannato in primo grado a 12 anni l’ha fatta franca poiché il fascicolo è riemerso troppo tardi dal pozzo nero del tempo perduto.
E anche se al ministro Orlando “ribolle il sangue”, ci dica a cosa serve ora che il tempo stesso ha sentenziato: sia premiato l’orco? Sarà la festa collettiva dei colpevoli prescritti: vieni a prendermi, così canzoneranno la giustizia con la g minuscola.
Il tempo è denaro ma quello speso dagli americani della Roma per dotarsi di uno stadio non vale più nemmeno la Pizza di fango del Camerun, moneta sgarrupata resa celebre dalla tv di Avanzi. Mai e poi mai alle colate di cemento proclamano oggi i 5Stelle, all’unisono con il noto ambientalista Caltagirone.
Giusto, ma perché far perdere inutilmente tre anni e vagonate di soldi a chi sapendolo prima sicuramente nell’Urbe neppure ci avrebbe portato un pallone? Semplice: come il potere per Andreotti il tempo logora chi non ne ha più voglia dopo essersi macerato nell’attesa. Si potrebbe andare avanti così all’infinito (ideale unità di misura della nostra burocrazia) citando per esempio le porzioni di vita e di salute che nessuno mai restituirà alle moltitudini incolonnate ogni giorno nel traffico della Capitale, poiché il tempo della “Metro C”, come quello del messia si calcola nei secoli dei secoli.
Ci fu, è vero, Matteo Renzi l’ex premier futurista che vrooom accelerò le lancette degli orologi approvando a tambur battente riforme su riforme (stiamo cambiando l’Italia, diceva gioiosamente saltellando sulle vette della modernità). Solo che (le riforme) risultarono tutte sbagliate. Memori della lezione ricevuta nessun politico fateci caso si azzarda più a smuovere una scartoffia. Nell’Italia al rallentatore anche la scissione nel Pd avviene alla moviola e perfino la dinamica Bruxelles adegua i suoi tempi a quelli della nazione debitrice scalando le marce della procedura d’infrazione: tra un mese o forse tra un anno chissà.
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 23/02/2017.
 

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