giovedì 4 aprile 2019

L’ideatore del deficit al 3%: non ha mai avuto basi scientifiche

Fonte: W.S.I. 4 Aprile 2019, di Alberto Battaglia

Il tetto al disavanzo pubblico, la cui entità non deve superare il 3% del reddito nazionale, è una regola che non nasce con il trattato di Maastricht, bensì in Francia, vari anni prima, durante la presidenza di Francois Mitterand. Un funzionario del ministero del Bilancio, Guy Abeille, fu incaricato di elaborare un principio che stabilisse “una regola semplice e utilitaristica” che consentisse il governo di giustificare un freno alla spesa pubblica. Era il 1981, e la Francia era reduce da una svalutazione monetaria, dagli strascichi della crisi petrolifera e da un’inflazione a doppia cifra. La regola del 3% nacque così: “in meno di un’ora, senza l’assistenza di una teoria economica”. E’ quanto racconta lo stesso Abeille in un’intervista rilasciata a Vito Lops sul Sole 24 Ore.
L’aspetto che accomuna il pensiero di Abeille con quello degli euroscettici è che concordano sul fatto che non esistano basi scientifiche tali per cui il 3, il 2 o un altro indicatore del rapporto fra deficit e Pil esprima qualcosa sulla qualità della politica economica e sulla solvibilità di un Paese. La regola, insomma, è servita e serve ancora per sancire il principio (ampiamente condiviso) che il governo non dovrebbe spendere senza limiti. La decisione del 3%, però, fu puramente simbolica: “Un numero, magico, quasi sciamanico”, si pensi alle “Tre grazie, ai tre giorni della resurrezione”.
Entrando nel merito, Abeille, ha affermato che “il deficit/Pil è un rapporto che può al massimo servire da indicatore, ma in nessun caso può essere una bussola perché non misura nulla, non è un vero criterio. Ciò che conta è ottenere un valore che calcoli la solvibilità di un Paese, la capacità di rimborso del debito da un’analisi ragionata”.
Per questo, Abeille ha suggerito di cambiare la regola da egli stesso ideata con un tetto agli interessi pagati dallo Stato e ai titoli di stato che possono essere emessi, in rapporto non più con il reddito nazionale, un flusso, bensì con le risorse nazionali, uno stock. “In questo modo si replica il principio di solvibilità tipico di un’azienda”.

mercoledì 3 aprile 2019

Il sistema vuole distruggere la società. Ma il popolo (e la tecnologia) gli fanno comodo

Fonte: Il Fatto Quotidiano Economia & Lobby | 3 Aprile 2019 
di Lelio Demichelis
La crisi della democrazia è legata all’egemonia della tecnica nel capitalismo moderno. Solo ri-democratizzando l’impresa e la tecnica sarà possibile uscire dalla crisi politica dei nostri giorni
La democrazia politica è in crisi. Scriverlo è scrivere niente di nuovo. Ma la relazione di causa-effetto tra capitalismo e crisi della politica e della democrazia nasce non solo dal 2008 o dagli anni 70, ma dall’egemonia della tecnica come apparato/sistema tecnico integrato al capitalismo; dall’immaginario collettivo che questo tecno-capitalismo sa produrre; ma soprattutto dal fatto che la forma/norma tecnica è in sé e per sé a-democratica/antidemocratica, ma tende a divenire forma/norma sociale e oggi anche politica. Ovvero, il tecno-capitalismo confligge in premessa con la democrazia. E produce antidemocrazia.
Il populismo e la disruption tecno-capitalista della democrazia
Perché i populismi, fomentando la rabbia popolare contro caste ed élite (ma non contro le vere nuove caste/élite globali, quelle della Silicon Valley) in realtà sono il proseguimento dell’egemonia tecno-capitalista con altri mezzi, perché tutti i populismi al potere oggi sono neoliberali e insieme tecnici nel sostenere questo modello di crescita. Perché se non deve esistere la società – obiettivo del neoliberalismo, ormai pienamente raggiunto – può essere invece utile al sistema creare il popolo: molto più attivabile e plasmabile, molto più bisognoso di un pastore o di un Capitano, molto meno riflessivo/responsabile, ma soprattutto funzionale a sostenere l’incessante disruption (il populismo incarnando esso stesso la disruption del demos) richiesta dal sistema.
Uno degli elementi del populismo, uno dei suoi usi politici infatti, è anche quello di ottenere la modernizzazione e di proseguire nella rivoluzione industriale mediante il ricorso alle figure della tradizione e dell’identità, cioè a meccanismi/dispositivi di compensazione emotiva/identitaria utili a ristabilire (in apparenza) un certo equilibrio psichico individuale e sociale. Perché il rancore e la rabbia e la paura e l’amico/nemico e il capro espiatorio servono a costruire l’identità e sono soprattutto funzionali (attivano e riproducono anch’essi la competizione sociale, in perfetto spirito del tempo) all’istituzionalizzazione dello stato di natura neoliberale, dopo avere prodotto la disruption dell’uguaglianza e della solidarietà, del contratto sociale e del compromesso tra capitale e lavoro novecentesco. In sintesi, i populismi odierni sono populismi neoliberali.
E l’invenzione (la produzione industriale) dell’identità da un lato serve a impedire di vedere la complessità e la molteplicità (semplifica il mondo, gli dà ordine dividendolo in categorie e schemi semplici e calcolabili: casta/popolo, noi/loro-altri, ma anche io-competitore/altri competitori-auto-imprenditori-startup nel mercato) in una perfetta logica di razionalità strumentale/calcolante tecno-capitalista. Che mette al lavoro e a profitto per sé anche l’identità – che è oggi un prodotto capitalistico e tecnico, prima che produzione politica – estraendo valore da quella che è comunque una modalità esistenziale di ogni uomo, cioè la coesistenza psichica in ciascuno di voglia di individualizzazione/personalizzazione anche se apparente (dei mezzi di produzione via rete, dei beni di consumo via marketing, della politica via social e blog – e narcisismo e pigmalionismo come forme di attivazione prometeica di ciascuno a vivere creativamente e imprenditorialmente nel mercato); e insieme il bisogno di omologazione/aggregazione (il popolo, ma anche le imprese-comunità, i social, le brand community e poi il dover essere connessi e il dover condividere, la creazione di comunità online sempre più autoreferenziali).
L’identità quindi – nelle sue diverse forme – è un espediente ideologico per contrastare tutto ciò che è fluido, precario e instabile, ma anche e appunto per garantire la continuazione con altri mezzi dell’instabilità e della precarietà neoliberale e tecnica: perché l’identità drammatizza e questo aiuta a sostenere la drammatizzazione – l’attivazione del suo pathos – di ciascuno nello stato di natura della società della prestazione.
Continua su economiaepolitica.it

martedì 2 aprile 2019

GUERRA IN YEMEN, coinvolte "segretamente" anche le truppe speciali della Gran Bretagna

Fonte: Informazione Consapevole Di Salvatore Santoru

Nella guerra dello Yemen gli Stati Uniti non sono l'unico paese occidentale impegnato. Difatti, come riportato da Analisi Difesa e da 'Gli Occhi della Guerra', nel conflitto risulterebbe coinvolta anche anche la Gran Bretagna.

Difatti, proprio nello Yemen sono state inviate le forze speciali della Marina al fine di combattere una guerra ormai sempre meno "segreta". Andando maggiormente nei dettagli, le truppe d’élite britanniche (Special Boat Service) sono operative da diverso tempo nel paese mediorientale.

Così come gli Stati Uniti, anche la Gran Bretagna sostiene gli Emirati Arabi e l'Arabia Saudita nel conflitto contro i ribelli filo-iraniani Houthi.

lunedì 1 aprile 2019

Perché la Russia liquida dollari per accumulare oro

Fonte: W.S.I. 1 Aprile 2019, di Daniele Chicca

Le ultime misure intraprese dalla Russia contro  sono l’esempio di come la de-dollarizzazione sia una minaccia reale che va presa sul serio per l’economia degli Stati Uniti. Visto che mette in discussione il predominio del dollaro nel mondo. La Cina non è più la sola a mettere gli Usa all’angolo liquidando posizioni nei titoli del debito Usa.
Nello spazio di un decennio il Cremlino ha quadruplicato le sue riserve auree con il 2018 che è diventato l’anno con l’accumulo più intenso finora. Quest’anno il trend sembra rispettato. Preferendo l’oro al dollaro Usa, il piano di Vladimir Putin è chiaro e prevede l’indebolimento della potenza americana, nemico dei russi dai tempi della Guerra Fredda.
Gli ultimi dati pubblicati dalla banca centrale dicono che l’oro in possesso della Russia è salito di 1 milione di once in febbraio. È l’incremento più alto da novembre, è dimostra che Mosca si sta sforzando a diversificare ed essere sempre meno dipendente dall’America. Bisognerà vedere, tuttavia, se la Russia riuscirà a tenere questi ritmi forsennati.
Fenomeno de-dollarizzazione sempre più diffuso: l’impatto sull’economiaAlcuni commentatori sostengono che il paese dovrà importare più oro per mettersi al riparo dagli shock geopoliticii eventuali e dalla minaccia di nuove sanzioni Usa. Per la prima volta, infatti, il numero di operazioni di acquisto di oro è stato più alto dell’offerta delle miniere. Se la domanda di oro rallenterà, Putin non dovrebbe avere problemi a mettere in atto i suoi piani.
I rapporti tra Washington e Mosca continuano a deteriorarsi e gli analisti, che hanno coniato il termini “de-dollarizzazione”, speculano sull’impatto economico che avrà questa ondata di “anti americanismo”, che si sta diffondendo anche in Europa. In un’intervista concessa alla CNN a novembre l presidente francese Emmanuel Macron ha detto a novembre che le multinazionali europee sono troppo dipendenti dal dollaro americano, definendo questo fenomeno una “questione di sovranità”.
L’anno scorso Polonia e Ungheria hanno sorpreso gli analisti quando hanno annunciato il primo acquisto di oro significativo da parte di uno o più membri dell’Unione Europea in più di un decennio di tempo. Se i paesi Ue, oltre a Russia e Cina, iniziano ad adottare tale filosofia, l’appetibilità del dollaro americano, valuta di riserva globale, ne uscirà compromessa o per lo meno scalfita. Altri asset come l’oro e lo yuan cinese diventeranno così più appetibili, come osserva un analista a Bloomberg.
Dopo l’atteggiamento improvvisamente accomodante assunto dalla Federal Reserve, ultimamente di notizie positive ce ne sono state poche per il biglietto verde.

domenica 31 marzo 2019

Brexit, adesso che succede? Tre opzioni per la May e per l’Europa

Fonte: Il Fatto Quotidiano Economia Occulta | 31 Marzo 2019 

Il 29 marzo è stata una bellissima giornata di sole, primaverile, la prima dopo l’inverno. E così ce la ricorderemo, non come il giorno in cui il Regno Unito ha lasciato l’Unione Europea.
Sulla Brexit ormai si è detto di tutto e si continuerà a dire di tutto fino a quando arriveremo a una risoluzione del problema. Intanto, però, è il caso di spiegare alcuni punti. Venerdì non c’è stata nessuna Brexit. Il motivo va ricercato nelle difficoltà incontrate dal primo ministro Theresa May a far approvare in Parlamento l’accordo da lei stipulato con l’Unione europea. All’indomani del referendum il Parlamento aveva ratificato il risultato, si badi bene secondo la legge britannica il Parlamento poteva anche non farlo, ma l’ha fatto, quindi bisogna presumere che due anni fa la maggioranza era d’accordo sulla separazione da Bruxelles.
Le cose sono cambiate perché ci si è accorti che di Brexit non ce ne è solo una, le possibilità sono infinite dal momento che non esiste un protocollo specifico sull’uscita dall’Unione. In altre parole quando l’Ue è nata non si era pensato che qualcuno, in un ipotetico futuro, potesse volerne uscire, quindi le modalità di separazione non sono state studiate e legiferate, esiste l’articolo 50 che mette in moto il processo di negoziazioni per l’uscita e nulla di più. Il caos politico in cui il Regno Unito è precipitato, dunque, a causa della Brexit era prevedibile, ma nessuno ci ha pensato né a Londra né a Bruxelles. E questo è stato un grosso errore per entrambe le parti.
I problemi della May sono anche i problemi di Junker, l’incertezza riguardo ai rapporti tra Londra e Bruxelles è negativa su tutti i fronti. Basta menzionare il flusso di beni e servizi tra i due. Su entrambe le sponde della Manica in previsione della Brexit del 29 marzo si sono spesi soldi: per aumentare le scorte, per assumere più personale e gestire le nuove pratiche di dogana, senza parlare delle coperture finanziare legate ai tassi di cambio. La sterlina questa settimana è scesa e salita disegnando un grafico da montagne russe e con molta probabilità questo andamento erratico e volatile continuerà nelle prossime settimane.
Quali le opzioni che abbiamo davanti?
1. In primis va detto che proprio perché non esiste un iter legale ben definito tutto è possibile, le decisioni sono prese dai Paesi membri, dai loro leader, quindi tutto può cambiare purché la maggioranza assoluta sia d’accordo. L’unica mossa che il Parlamento britannico può fare da solo, senza che l’Ue abbia alcun potere, è revocare l’articolo 50, e quindi restare nell’Unione. Succederà? È improbabile, ma la possibilità esiste.
2. In secondo luogo il Parlamento britannico avendo rifiutato per la terza volta l’accordo stipulato dalla May deve decidere cosa fare e farlo sapere a Bruxelles. Le due opzioni che hanno la possibilità di essere votate dalla maggioranza lunedì prossimo sono l’unione doganale, simile al vecchio Mercato economico comune europeo, o un nuovo referendum.
3. La terza opzione, che non verrà votata ma che potrebbe verificarsi se Theresa May decide di gettare la spugna, sono le elezioni politiche. Tuttavia, il pericolo per i conservatori è non soltanto di perderle ma di ritrovarsi con un partito dimezzato.
Che succederà?
Difficile, quasi impossibile a questo punto fare qualsiasi previsione, le alleanze, le pugnalate politiche alla schiena e la serratissima lotta per guidare il Paese creano scenari che cambiano costantemente. Una cosa è però certa, la Brexit ha messo a nudo i pericoli della propaganda politica nell’era virtuale, si è votato senza conoscere le conseguenze tecniche del voto, si continua a discutere su come l’uscita debba essere strutturata senza conoscere gli ostacoli che si hanno davanti, si manipola la crisi per avanzare personalmente in politica, senza tenere conto degli interessi del Paese e della popolazione.
È vero, tutto ciò è già successo, la storia è piena di esempi simili, ma oggi è particolarmente difficile districarsi all’interno della complessità dei fatti veri e falsi perché viviamo sotto un bombardamento di notizie. Non ci resta che sperare che lunedì una delle opzioni venga votata, a quel punto almeno usciremo dall’incertezza attuale. Ma siano ancora molto, molto lontani dalla risoluzione finale.
Economia Occulta | 31 Marzo 2019

test velocità

Test ADSL Con il nostro tool potrete misurare subito e gratuitamente la velocità del vostro collegamento internet e ADSL. (c) speedtest-italy.com - Test ADSL

Il Bloggatore