lunedì 21 dicembre 2020

Brexit, da gennaio 2021 si dovrà trovare il modo di gestire il futuro dell’Europa. Con o senza accordo

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Zonaeuro - 20 Dicembre 2020 Loretta Napoleoni

 

Fino all’ultimo momento non sapremo cosa succede con la Brexit, ed anche dopo il 31 dicembre non c’è nessuna certezza riguardo a come si svilupperanno i rapporti tra Regno Unito ed Europa Unita. Premesso che una nazione sovrana in quanto tale può cambiare idea su tutto – è infatti un suo diritto e a riprova c’è la stessa Brexit – qualsiasi accordo stipulato oggi e che in futuro verrà reputato dannoso per il Regno Unito o per la stessa Unione Europea potrà essere invalidato. Certo bisognerà fare i conti con le conseguenze di tali decisioni, e qui Brexit docet!

È così per tutti gli accordi internazionali. La storia ci insegna che le alleanze si formano e si sciolgono nel tempo. A volte questo succede di comune accordo, altre volte anche all’insaputa del partner. Il tira e molla infinito tra Londra e Bruxelles appare motivato da risentimenti personali più che da motivi politici: la prima non vuol dare a vedere che sta cedendo di fronte alle richieste dell’altra e Bruxelles vuole dare una lezione a Boris Johnson che serva da monito per chiunque pensi di seguire il suo esempio. Il risultato è pessimo dal momento che mette a nudo meschinità e piccolezze di entrambi.

L’Unione europea, che comanda un mercato di quasi mezzo miliardo di persone, potrebbe essere più magnanima e invece si ostina a trattare una nazione di poco più di 67 milioni di abitanti come una seria minaccia. Certo nel settore dei servizi finanziari Londra è sempre stata all’avanguardia, ma se è vero che il Regno Unito può rappresentare una minaccia per il mercato unico allora la teoria che l’unione fa la forza, che un mercato di quasi 500 milioni di persone è più forte di uno di 60 milioni crolla.

L’idea che Johnson trasformi Londra nella Singapore sul Tamigi e così facendo attiri i capitali europei oltre manica e che Bruxelles non possa fare nulla per evitarlo è anch’essa poco fondata. Esistono altri paradisi fiscali al mondo, anche in Europa, si pensi a Montecarlo, e l’Unione non ha stipulato con loro accordi ad hoc, ha fatto in modo che non la disturbino. Perché Londra dovrebbe far paura e Montecarlo no?

Tralasciamo la questione della pesca – l’industria ittica contribuisce per lo 0,1 per cento al Pil britannico – che naturalmente non può da sola impedire un accordo commerciale e contriamoci invece sui danni veri, quelli già esistenti. Dopo anni di negoziazioni né il Regno Unito e né l’Unione europea hanno prodotto, se non leggi, almeno procedure da seguire per quanto riguarda i movimenti di merci e di persone dal primo gennaio del 2021. A due settimane dall’uscita dall’Ue i due partner non hanno un protocollo per l’ingresso o l’uscita dal loro territorio. Con o senza accordo a gennaio avremo il caos alle frontiere e a rimetterci, almeno nel breve periodo sarà principalmente il Regno Unito.

La Gran Bretagna invia il 43 per cento delle sue esportazioni nell’Ue; Germania, Francia e Italia inviano tutte circa il 6 per cento delle loro esportazioni nel Regno Unito. La popolazione del Regno Unito è di quasi 67 milioni; quella dell’Ue è di 447 milioni. Anche senza il Regno Unito la l’Unione Europea ha un mercato unico di dimensioni paragonabili a quello degli Stati Uniti o della Cina.

Finché l’Unione europea manterrà la sua unità, i due blocchi, sebbene entrambi sovrani, non saranno mai uguali in termini di potere. Morale: vince l’Europa. Le dimensioni dei mercati, ecco ciò che dovrebbe contare in questi negoziati e quello che sicuramente conterà dopo il 31 dicembre. Questo è il motivo per cui la Gran Bretagna ha fatto una serie di dolorose concessioni negli ultimi quattro anni, in particolare accettando uno status separato per l’Irlanda del Nord, che vedrà i controlli doganali sulle merci che attraversano il Mare d’Irlanda, dividendo di fatto il Regno Unito.

A questo punto perché continuare a discutere? Il danno è fatto, e da gennaio 2021 con o senza accordo si dovrà trovare il modo di gestire il futuro dell’Europa.

martedì 15 dicembre 2020

Coronavirus, la disuguaglianza viaggia nella solita direzione ma ha invertito il verso

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Società - 15 Dicembre 2020 Renzo Rosso

Negli ultimi dieci anni, vari scenari hanno sensibilizzato il mondo sui rischi pandemici. Quello elaborato da Air Worldwide – società specializzata in modelli di catastrofi – stimava che una epidemia influenzale pericolosa come quella del 1918 avrebbe potuto produrre tra 21 e 33 milioni di vittime nel mondo. Una mortalità compresa tra 270 e 430 per centomila abitanti.

Si trattava di uno scenario affatto ragionevole, dove si teneva conto dei molti fattori di progresso che differenziano il mondo odierno da quello di cent’anni fa, giacché la mortalità della Spagnola viene stimata attorno a 2.500 per centomila, a scala globale. E i dati della John Hopkins University indicano come il mondo sia fortunatamente lontano da questo scenario, poiché le attuali vittime sono circa 1,6 milioni, circa 20 ogni centomila abitanti.

Il modello indicava anche i luoghi dove con maggiore probabilità si sarebbe accesa la miccia: Cina, India e Indocina; assieme ad alcuni spot africani, prossimi alle sorgenti del Nilo. E, al momento, la genesi sembra confermata.

La distribuzione geografica dell’impatto, tuttavia, sovverte completamente quanto atteso. A 13 mesi da inizio pandemia, lo scenario di Air-Worldwide prefigurava – per la Cina e la maggior parte dei paesi dell’Africa centrale e del Centro America – tra 50 e 100 vittime ogni centomila abitanti. Invece, il conto da pagare è stato, finora, dieci volte meno caro.

 

Non così per i paesi dell’occidente progredito dove – sullo stesso orizzonte temporale – si prevedevano meno di 25 vittime per centomila abitanti; e meno di 50 a fine pandemia. Che cosa accade, invece? Gli Stati Uniti, con 91 vittime per centomila abitanti, moltiplicano per quattro questo scenario, così come l’Italia, che ha superato quota 100 e, a meno di un anno dall’inizio del disastro, si avvicina a quota 110.

Al contrario, l’India resta a quota 11; i paesi africani, pur colpiti, mantengono una mortalità assai contenuta; e in estremo oriente – comunista e non – la mortalità rimane tuttora uno o due ordini di grandezza inferiore a quella occidentale. Scendendo di scala, il Belgio – faro dell’Unione Europea – traguarda quota 160.

Per spiegare il fenomeno, la metafora usata da due ricercatori della Banca Mondiale, Schellekens e Sourrouille, è abbastanza convincente. Come un missile a infrarossi – un’arma inesorabilmente guidata sull’obiettivo dal calore emesso dal bersaglio stesso – Covid-19 accelera verso i bersagli più vulnerabili della società affluente. Gli anziani.

La metafora varrebbe non solo per i soggetti più vulnerabili nel mondo ricco, giacché gli individui più vulnerabili nel resto del mondo non sono più immuni dei ricchi. Tuttavia, nonostante l’ampia diffusione del virus, la mortalità rimane altamente concentrata nei paesi ad alto reddito. I paesi poco sviluppati rappresentano circa l’85 percento della popolazione mondiale, ma piangono meno del 20 percento delle vittime della pandemia.

L’inesorabile bersaglio dell’Angelo Sterminatore – greve ma solenne allegoria di un comico genovese – si riproduce tal quale anche a scala regionale. La Lombardia, con le stesse dimensioni del Belgio, traguarda 240 vittime per centomila abitanti. Tra le aree metropolitane che contano, è quella più fragile: tre volte più letale della Grande Londra e dell’Ile de France parigina, il 30 per cento più dello Stato di New York. La Calabria, per contro, è ferma a 21 vittime ogni centomila abitanti, dieci volte di meno rispetto alla Lombardia: il Pil pro-capite è un terzo di quello lombardo, il reddito per abitante meno della metà di quello di un cittadino del Nord-Ovest, la sanità ostentatamente malmessa.

L’insolita disuguaglianza viaggia nella solita direzione, ma ha invertito il verso. Il mondo è soggetto a due diverse pandemie? L’eccessiva inclinazione dei modelli di scenario a riprodurre le peculiarità dei paesi ricchi non va d’accordo con la demografia. Le simulazioni di infettività e mortalità suggeriscono che la quota dei paesi in via di sviluppo potrebbe anche aumentare anche di un fattore tre (dal 20 a più del 60 percento). Fattori ambientali e specifici influenzeranno questi risultati ma è improbabile che li ribaltino. La qualità dei dati ha certamente un ruolo nello spiegare questa “eccessiva disuguaglianza” e, senza dubbio, la pandemia deve ancora fare tutto il suo corso attraverso le distribuzioni per età del mondo. Ma, più si va avanti, più l’apparente anomalia storica del disastro si conferma.

Forse è troppo presto per le spiegazioni. Fioccano le ipotesi di lavoro: ambiente, inquinamento, stile di vita, latitudine, assieme a proporzione di anziani, apporto calorico e diffusione del diabete. Ma sono soprattutto le impressioni epidermiche, senza fondamento scientifico, a occupare militarmente social e media. Dove, talvolta, si oltrepassa il confine dell’assurdo.

Nella trasmissione radiofonica serale di un canale privato a diffusione nazionale, l’illustre ospite ha recentemente sentenziato che “i meridionali resistono di più al coronavirus perché sono africani bianchi: è una questione genetica”.

Non ricordo chi sia, ma è stato presentato quale personaggio istituzionale in servizio permanente effettivo, non come tifoso di una frangia demenziale dell’ultra-tifo calcistico. A cui, forse per mancanza di tempo o per svista culturale, mancava solo l’accenno alle teorie lombrosiane.

A loro volta, i paesi ricchi si stanno accaparrando l’intera produzione di vaccino dei prossimi due anni. Come scrive il Sunday Times: “La maggior parte dei poveri del mondo affronterà il coronavirus senza un vaccino perché i paesi ricchi stanno accumulando dosi sufficienti per immunizzare le loro popolazioni tre volte”. Questa prepotenza basterà a invertire l’impatto dell’Angelo Sterminatore, del tutto improvviso e imprevedibile per le classi dirigenti dell’occidente e per la fazione più edonistica di quelle società?

domenica 6 dicembre 2020

Il Mes e la riforma che non serve a niente. Jaques Delors Centre: “Il fondo dev’essere completamente ripensato”

 

fonte: Il Fatto Quotidiano  | 26 Novembre 2020

 

Così com’è oggi il Meccanismo europeo di stabilità (Mes o Esm in inglese) non serve più a niente, o quasi. E’ una verità che l’emergenza Covid-19 ha reso evidente. Il problema è che la riforma che gli stati europei si apprestano a varare e che sta generando aspre tensioni politiche all’interno della maggioranza di governo, cambia poco le cose, anzi forse persino le peggiora. E’ una riforma che è stata pensata, ed era già pronta, prima dello scoppio della pandemia e che oggi risulta quindi vecchia ancora prima di vedere la luce. Il mondo è cambiato e lo ha fatto persino la farraginosa Unione europea. Ha creato il Recovery fund, strumento che, per la prima volta, prevede una parziale condivisione dell’onere del debito tra gli stati membri. Bruxelles ha testato, con successo, strumenti come il Sure (Support to mitigate unemployment risks in an emergency), per reperire sul mercato il denaro per finanziare misure a sostegno del lavoro, come la cassa integrazione, nei paesi membri. Un successo.

In entrambi i casi tutto passa attraverso la Commissione Ue e quindi, in qualche misura, sotto lo scrutinio del parlamento Europeo. Una differenza fondamentale rispetto al Mes che è un’entità giuridicamente esterna alla struttura dell’Unione, giustificando così la percezione dei paesi membri di avere a che fare un soggetto “terzo”. E’ questo assetto, più che i termini contrattuali con cui vengono erogati i prestiti, che implicitamente rimanda all’idea di condizionalità. Chi riceve i finanziamenti si trova, in ogni caso, debitore di un creditore che ha regole diverse e fuori da qualsiasi possibilità di scrutinio. Paradossale visto che a garantire la capacità del Mes di ripagare i prestiti che contrae sui mercati sono, alla fine, gli stessi stati europei.

Il piccolo Fmi all’europea – Non è un caso che sia così. Quando è stato creato nel 2012, per evitare il ripetersi di un crisi dei debiti sovrani, il Mes è stato concepito e voluto esattamente in questo modo. Se c’è da prestare soldi a qualcuno Germania e satelliti non si fidano né degli altri stati né della Commissione Ue. Meglio che ad aiutare chi è in crisi sia un piccolo “Fondo monetario internazionale all’europea” che non faccia sconti e che non li possa fare. Di fatto però il Mes non ha mai svolto questa funzione. E’ stato coinvolto nel sostegno finanziario a Spagna e soprattutto Grecia. A Madrid sono stati prestati 40 miliardi di euro, in cambio sono state pretese riforme, compresa quella del mercato del lavoro con licenziamenti più facili e maggiore flessibilità. Quello che è successo ad Atene è tristemente noto. Nessuno, naturalmente, ha un buon ricordo di questi interventi, nessuno ha mai più suonato al campanello del Mes. I suoi soldi sono diventati politicamente “tossici”. Il famigerato stigma riguarda al fine più il fondo in sé che gli stati che vi ricorrono. Durante la pandemia l’idea è stata quella di dirottare il denaro a disposizione del Mes per erogare prestiti destinati ad interventi tesi a migliorare i sistemi sanitari. Questi finanziamenti verrebbero erogati senza condizionalità, ossia non vengono chieste in cambio riforme o interventi di politica fiscale, e a tassi di interesse che, per alcuni paesi risultano vantaggiosi rispetto ai prestiti contratti direttamente sui mercati emettendo titoli di Stato. Per un paese come l’Italia il risparmio sarebbe tra i 200 e i 300 milioni di euro l’anno, su una spesa per interessi complessiva di circa 60 miliardi. Una convenienza troppo modesta per vincere i timori con cui, legittimamente, gli stati europei guardano al Mes.

Un fondo costruito sulla sfiducia – Così, le risorse di cui il Mes dispone rimangono lì, inutilizzate e quindi, fondamentalmente, sprecate. Nessuno ha fatto ricorso ai prestiti destinati all’emergenza sanitarie. Come nota il vicedirettore del Jacques Delors Centre, Lucas Guttenberg, il Mes si basa sulla sfiducia tra i paesi europei. Al contrario Recovery fund e Sure sull’approccio opposto. Così come è oggi il Mes, e come sarà dopo la riforma, può avere una qualche utilità solamente in situazioni davvero pessime. Quando il disastro finanziario è così vicino da indurre uno Stato a mettere da parte la sua legittima ritrosia a ricorrere all'”aiuto” del fondo. In pratica, scrive Guttenberg, il Mes verrebbe usato solo quando ormai è già troppo tardi. La soluzione? “Riportare a casa” il fondo, sotto il controllo della Commissione Ue e all’interno di una cornice giuridica Ue.

Una riforma priva di sostanza – Niente di tutto questo è previsto nella riforma che ci si avvia ad approvare. In sostanza le novità sono due. Il Mes potrà essere usato anche come fondo per le risoluzioni bancarie. In sostanza per salvare banche che stanno per fallire o, almeno, attutirne la caduta. E poi l’aspetto politicamente più delicato: il finanziamento agli Stati in difficoltà. L’erogazione dei soldi sarebbe preceduta da una analisi della sostenibilità del debito. In caso di esito negativo si potrebbe arrivare alla ristrutturazione del debito, in sostanza al default. Secondo i critici della riforma questa decisione finirebbe per essere attribuita al fondo, strappando il timone dalle mani dei singoli stati. Anche perché l’introduzione delle cosiddette Cac (clausole di azione collettive), che permettono un voto unico per tutti i creditori del paese e non più voti diversi per ogni tipo di titoli di Stato, agevolerebbe la procedura di ristrutturazione. Contestare la riforma adesso serve comunque a poco, gran parte delle novità erano già state votate, anche dall’Italia, ed entreranno in ogni caso in vigore. Il veto posto dall’Italia prima pandemia ha comportato solo un allungamento dei tempi.

@maurodelcorno

sabato 28 novembre 2020

Joe Biden, la sua sarà una presidenza debole. Altro che ‘l’America è tornata’

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Elezioni USA 2020 - 27 Novembre 2020 Centro studi Unimed

di Roberto Iannuzzi*

La presidenza di Joe Biden aprirà certamente una nuova fase in America e nel mondo, ma la sofferta transizione presidenziale conferma che gli Stati Uniti non usciranno rapidamente dalla crisi nella quale sono progressivamente sprofondati negli ultimi anni. Lo dimostrano le prime settimane post-elettorali con l’interminabile conteggio delle schede, il risultato finale incerto per giorni, il rifiuto del presidente uscente di riconoscere la sconfitta, il presidente eletto costretto ad avviare i preparativi della transizione senza la collaborazione dell’amministrazione in carica.

Trump le ha provate tutte per ostacolare il suo avversario. Ha avviato una campagna legale per contestare il risultato elettorale, poi rivelatasi fallimentare. Per venti giorni (fino a lunedì scorso) ha impedito alla General Services Administration di riconoscere il nuovo presidente, negando così al team democratico di transizione l’accesso ai briefing dell’intelligence e ai fondi federali – una cosa mai verificatasi dal 1963, allorché le attuali procedure della transizione presidenziale vennero tradotte in legge. Ha suscitato allarme e interrogativi nominando figure a lui fedeli ai vertici del Pentagono. Tutto ciò non impedirà il passaggio di consegne alla Casa Bianca, ma indebolisce ulteriormente la democrazia americana.

Trump non è però l’unico responsabile del deterioramento del processo democratico negli Usa. Sebbene regolarmente eletto nel 2016, egli stesso era stato vittima di una campagna di delegittimazione ad opera dei democratici, della stampa e dell’intelligence ben prima del suo insediamento alla Casa Bianca, in quello che sarebbe poi divenuto il tormentone del Russiagate, ridimensionato dopo anni di indagini a un teorema senza prove.

Che la crisi statunitense precorra l’ascesa di Trump, e che non terminerà con la sua uscita di scena, lo dimostra una semplice osservazione: quella guidata da Biden è la quarta amministrazione consecutiva che promette di ricostruire l’America, dopo che le tre precedenti (Trump e Obama per due mandati) hanno fallito in questo stesso obiettivo. La verità è che, dopo il tracollo finanziario del 2008, la ricostruzione del tessuto economico e infrastrutturale degli Stati Uniti non è avvenuta perché non è stato ripensato il modello neoliberista che ha prodotto quel tracollo (erodendo i diritti dei lavoratori e della classe media, producendo precarietà e disuguaglianza, provocando devastazioni ambientali).

Analogamente, non è stato ripensato il modello strategico americano adottato a livello internazionale (in particolare l’interventismo militare, diretto o indiretto, che ha provocato o alimentato conflitti disastrosi in Iraq, Afghanistan, Siria, Libia e Yemen). Sia i repubblicani sia i democratici si ostinano a non voler rinnovare né la propria classe dirigente né i propri schemi ideologici. Il risultato è che, mentre i primi sono divenuti ostaggio di un outsider imprevedibile come Trump, i secondi continuano ad essere dominati da un’oligarchia gerontocratica che ha portato Biden, il quale proprio una settimana fa ha compiuto 78 anni, a diventare il più anziano presidente mai eletto negli Stati Uniti (si pensi che l’età media dei presidenti americani, al momento del loro insediamento, è di 55 anni).

Biden ha vinto, ma non ci sarà nessuna “restaurazione” dell’immagine e del ruolo dell’America. Con il Congresso spaccato e il senato forse destinato a rimanere in mano repubblicana, e con il paese reale profondamente lacerato, quella Biden sarà una presidenza debole. Sebbene Trump abbia perso, il risultato elettorale conferma che il trumpismo rimane vitale e radicato nel tessuto sociale statunitense. Solo l’élite di Washington, così disconnessa dal paese reale, poteva credere che Trump fosse un interludio bizzarro e passeggero nella vita politica americana. Il trumpismo è la conseguenza, non certo la causa, della crisi democratica degli Usa.

Con un Congresso ampiamente schierato a suo favore, Obama non riuscì a rimettere in sesto l’America. Difficilmente ci riuscirà Biden con una fragile maggioranza, con una Corte suprema ostile, e con un partito democratico diviso al proprio interno nel quale la sinistra rivendica quello spazio che le è stato troppo a lungo negato. Fra l’altro con la prospettiva, se la leadership democratica dovesse continuare a rifiutare di rinnovarsi, di un prepotente ritorno repubblicano in salsa trumpiana già alle elezioni di medio termine nel 2022.

Le prime nomine annunciate da Biden – a cominciare dal clintoniano Antony Blinken alla segreteria di Stato, uno dei fautori delle disastrose politiche condotte in Libia, Siria e Yemen – non lasciano presagire né un rinnovamento ideologico né un nuovo impianto strategico, facendo invece sospettare che il neo-presidente sarà una sorta di Obama 2.0.

L’America è tornata, ha detto Biden. Egli si porrà alla guida di una superpotenza profondamente indebolita, aspramente divisa al proprio interno, con l’ambizione alquanto velleitaria di ristabilire il primato di Washington a livello internazionale. La strada appare a dir poco accidentata, a cominciare dai rapporti con Cina e Russia. Ci sarebbe da augurare buona fortuna a tutti noi, prima ancora che a lui.

* Autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (2017).

sabato 21 novembre 2020

Calabria, Morra: “Noto a tutti che............

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano  | 19 Novembre 2020

Sono diventate un caso le parole pronunciate dal presidente della commissione Antimafia Nicola Morra dopo l’arresto del presidente del Consiglio regionale calabrese Domenico Tallini. Intervenuto a Radio Capital, il senatore M5s (a lungo insegnante al Sud) ha dichiarato che “Tallini è stato il più votato nel collegio di Catanzaro, se non il più votato in Calabria. È la dimostrazione che ogni popolo ha la classe politica che si merita”. Poi aggiunge: “Sarò politicamente scorretto, ma era noto a tutti che la Presidente della Calabria Jole Santelli fosse una grave malata oncologica. Umanamente ho sempre rispettato la defunta Jole Santelli, politicamente c’era un abisso. Se però ai calabresi questo è piaciuto, è la democrazia, ognuno dev’essere responsabile delle proprie scelte”.

Immediata la reazione del centrodestra che ne ha chiesto le dimissioni: Matteo Salvini ha definito quelle di Morra “parole vomitevoli”, dedicando” un pensiero per la cara Jole Santelli”, in riferimento alla governatrice calabrese scomparsa a ottobre. Per la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, “questo signore, oltre che essere un parlamentare della Repubblica italiana, è anche presidente della commissione parlamentare Antimafia. Indegno, dimettiti!”, ha scritto sui suoi social. A stigmatizzare le dichiarazioni di Morra sono intervenuti anche la forzista Licia Ronzulli, che chiede al governo e al Movimento 5 stelle di prendere le distanze dalle parole del senatore, e Maria Stella Gelmini: “Si dimetta o blocchiamo i lavori in Antimafia”.

Attacchi durissimi che hanno spinto lo stesso Morra a intervenire nuovamente. “Salvini ed altri esponenti del centrodestra chiedono le mie dimissioni facendo un truffaldino taglia e cuci di mie dichiarazioni, strumentalizzandole”, si legge in una nota. “Nel giorno in cui Domenico Tallini, di Forza Italia, viene arrestato per concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso, per un business che la ‘ndrangheta ha fatto a danno della Sanità – infatti era stato messo nella lista degli impresentabili – guarda caso parte un attacco nei miei confronti, basato sul nulla“. Il presidente della Commissione torna quindi a difendere quanto dichiarato a Radio Capital: “Ho parlato di dati di fatto. Se poi qualcuno vuole fare il taglia e cuci come fosse il vestito di Arlecchino faccia pure, ma non è informazione, non è verità

domenica 15 novembre 2020

Coronavirus, ‘io speriamo che me la cavo’ anche stavolta

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Antonio Marfella Società - 13 Novembre 2020

 

Maschio, over 60, diabetico, iperteso, sovrappeso o anche leggermente obeso, non ricco, magari pure ammalato di cancro e/o di altra patologia cronica concomitante. Questo è l’identikit sempre più preciso di chi muore, oggi, per Covid-19 in oltre il 95% dei casi. Tutti gli altri pare che la facciano in gran parte franca “quoad vitam” in questa pandemia di inizio XXI secolo. E pare proprio che “pittano” a me!

Covid-19 è a caccia per uccidere me? Non certo Cristiano Ronaldo, ma neanche Silvio Berlusconi. Il mio principale impegno quotidiano diventa così non solo cercare di non infettarmi ma anche superare la depressione che questo secondo lockdown, per me indispensabile, provoca in tutti noi ormai ogni giorno.

Ho fatto tanto per evitare di morire di cancro e ora posso morire in qualunque momento per un virus del raffreddore – secondo Montagnier addirittura artificialmente manomesso e messo in circolazione con pezzi di altri virus come l’Hiv! – che lo rendono imprevedibile, negli effetti a breve e lungo termine.

Riepilogherò un attimo quanto siamo riusciti a comprendere sinora di questo virus, senza taglio pseudo-scientifico, ma ragionando da semplice cittadino con una laurea di Medicina, usando solo e semplice buonsenso nella contraddittoria marea di informazioni che ci sta massacrando. Dunque:

1. Covid-19 appare un virus democratico nella eccezionale contagiosità ma altamente classista per la letalità: uccide i poveri e i pensionati e non tanto i ricchi che a quanto pare, anche ultraottantenni e pluriammalati, se ben paganti riescono a sopravvivere bene e anche in poco tempo. Questo vuol dire, senza ombra di dubbio, che la possibilità di curarlo adeguatamente, se ci sono i soldi, già ci sarebbe. In attesa del ‘vaccino miracoloso’.

I medici di famiglia hanno imparato che gestendo bene i pazienti essi non muoiono e si possono curare bene pure a casa – esclusi quelli con il “trait” ad alto rischio sopra descritto, con farmaci a basso costo e fuori brevetto come eparine e cortisonici. Monitorando attentamente temperatura, saturazione di ossigeno e grazie ad analisi comuni e a basso costo (d-dimero, parametri di infiammazione come proteina C reattiva, emocromo e linfopenia, ma anche markers più specifici della iperattivazione inefficace dei monociti macrofagi alveolari come la omocisteina e la neopterina) è possibile individuare per tempo e indirizzare in ospedale solo chi realmente peggiora in breve tempo.

Mi duole molto che tra i farmaci generici oggi essenziali per queste cure efficaci non rientri ancora a pieno titolo anche la idrossiclorochina, vittima a mio parere di una stranissima “cospirazione” che danneggia soprattutto i pazienti ad alto rischio e diabetici come me che non possono ricorrere a casa precocemente all’efficace cortisone.

2. E’ un virus antilegalità e antialtruisti: uccide i “buoni” , gli altruisti e i legalitari che si muovono secondo le leggi cercando aiuto dallo Stato e dal suo servizio sanitario nazionale. Uccide i medici di famiglia che fanno le visite e non quelli che, da tanti anni, si guardano bene dal visitare i propri pazienti, specie a casa.

Nel festival dei virologi che impazza ormai da un anno, nessun immunologo e tantomeno tossicologo ha potuto rilevare un’altra importante osservazione clinica che andava studiata ed approfondita molto meglio:

3. E’ un virus pro-social e filo-fakenews con tutto il peggio che ne consegue sul piano delle relazioni umane: rende conosciuti e affidabili “personaggetti” del tutto privi non solo di adeguate competenze ma soprattutto di adeguata e dimostrata etica, empatia e competenza, rendendo ampiamente un favore alla eccezionale diffusione di fake news, creando confusione e terrore.

E’ ormai ben chiaro a tutti che l’esito mortale della infezione da Covid-19 non dipende tanto da una azione diretta del virus ma dalla reazione immunitaria violentissima quanto inefficace dei soggetti a rischio. In questi pazienti la “tempesta di citokine” non viene adeguatamente contrastata prima di rendere necessario il ricovero ospedaliero con interventi invasivi, e non sempre salvavita.

Si doveva immediatamente dare una spinta eccezionale a studi e ricerche sulla immunità innata e cellulare, che renderebbe pressoché immuni senza vaccino i giovani, gli sportivi, i tossicodipendenti e chi viene trattato con antimalarici – palesemente quindi sicuri e non cardiotossici come si vuole invece far credere. E sulle analisi e terapie precoci domiciliari che rendono possibile comunque ben curare oltre l’85% dei contagiati. A casa!

Solo che una ricerca medica basata sulla clinica, autonoma, statale e pubblica nel rispetto del nostro art. 32 della Costituzione, oggi, quando tutti notiamo come la ricerca in Medicina sia completamente controllata dalle ditte farmaceutiche private, non esiste già più, con tutte le conseguenze tragiche che stiamo vivendo in questi giorni, a cominciare dal fatto che le sperimentazioni cliniche devono essere solo ospedaliere! Ed è un errore gravissimo!

Questo microscopico mostro sta mostrando ampiamente quanto schizofrenica, folle e malata sia l’Umanità nella quale, per spillover naturale, si sta diffondendo. Io speriamo che me la cavo, almeno per raccontare questa ennesima follia dopo Terra dei Fuochi.

lunedì 9 novembre 2020

3 mln della vergogna..

 

Per tanti gli usa sono un faro.. di tutto; ma per chi usa i pochi neuroni ancora sopravvissuti al bombardamento mediatico di questi anni alcune cose non le può non notare: in primis i mali del sistema e in secundis i problemi che questi mali producono lì, cosa di cui non me ne può importare di meno (affari loro se non fosse per quella non poco importante teria del caos che sostiene che un battito d'ali in un punto crea un uragano altrove), e qui nel vecchio mondo.

A me Trump non va giù per niente ma alcune cose vanno dette: ha messo all'angolo la Cina stanandola dall'angolo dorato in cui s'era nascosta; ha approfittato della favorevole congiuntura per mantenere le promesse fatte agli ex blu collar e all'ex ceto-medio (america first ecc.); ha letteralmente protetto l'america e la grande finanza, wall street gliene dovrebbe essere riconoscente (i soldi, si sa, però, che non guardano in faccia nessuno e i mercati già scontavano la sua sconfitta e applaudivano Biden), e tante altre cose... errori fatti? Tra i molti il più importante è il covd-19; il suo negazionismo gli ha fatto enormi dani di immagine e di voti.

Detto ciò, però la sconfitta, come dicono i media, tale non è dato che ha ...... vinto le elezioni. Ha preso circa 3 mln di voti più del suo avversario, ma il perverso sistema americano lo sconfigge come lo sconfiggono anche i brogli (che ci sono stati.. i democrats sono storicamente famosi per aver fatto brogli lungo tutta la storia di qel paese). Ha preso più voti di Clinton, di Obama, ecc. e trovo che abbia tutte le ragioni di chiedere un ricontrollo dei voti dato che gli stessi media che lo danno per sconfitto quando poi pubblicano le slide non possono cancellare il dato reale: 77 contro 74 milioni di voti.

A questo punto in ballo non c'è solo lo Stato americano ma il concetto stesso di voto e di sua espressione visto che anche qui ormai è chiaro che chiunque e qualunque cosa votialla fine decidono i mercati, quel commissario tedesco aveva ragione ahinoi, e Bruxelles... il sistema è in crisi e, come diveva Sartori ai tempi, ormai alcuni concetti forti, espressi in parole, del sistema occidentale sono ormai svuotati di ongi significato: sono simulacri, nel senso che ne dava P.K. Dick, del tempo che fu e servono solo come specchio delle allodole per noi comuni mortali.... prima ce ne accorgiamo e ne traiamo le conseguenze meglio sarà per porvi rimedio, se del caso, o crearne un altro meno verticale e.... meno elitario?

mercoledì 4 novembre 2020

Usa 2020, la Cnn fa invidia al telespettatore italiano: cosa sarebbe successo qui da noi?

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Elezioni USA 2020 - 4 Novembre 2020 Marco Lillo

Guardare la Cnn in questa lunghissima maratona elettorale americana provoca invidia nel telespettatore italiano. Non è facile raccontare correttamente la storia di un presidente in carica che proclama la sua vittoria, forte di numeri provvisori schiaccianti che lo danno vincente in molti stati, aggiungendo che in realtà probabilmente ha perso e sta mentendo.

Prima di andare a letto gli americani hanno visto Donald Trump in testa in molti stati chiave: dal Michigan al Wisconsin, fino alla Pennsylvania. Poi si sono svegliati al mattino con gli stessi stati passati a Joe Biden o in bilico nonostante un residuo vantaggio del presidente repubblicano. Mentre Trump twittava sull’ingiustizia e i suoi seguaci riempivano i social con le sue accuse strampalate di frode elettorale, i conduttori della Cnn si alternavano alla cartina luminosa e, con il tono dei professori che spiegano una lezione difficile ma molto importante, mostravano la ragione del fenomeno.

Nessuna frode, nessun furto, nessuna magia. Semplicemente il voto per posta proviene da zone urbane come Detroit nel Michigan, Philadelphia in Pennsylvania o Milwaukee nel Wisconsin, tutti feudi democratici.

Quando il presidente Trump ha proclamato con tanto di fanfara e bandiera a stelle e strisce la sua vittoria, la Cnn non ha semplicemente riportato le sue parole ma ha subito spiegato che si trattava di affermazioni false o non provate.

Il conduttore della notte della maratona elettorale della Cnn, Chris Cuomo, ha esplicitato il concetto nel momento più drammatico. Alla collega che spiegava ai telespettatori perché alcuni stati (dove a quell’ora in testa era Trump) potevano finire a Biden, Cuomo ha detto: “Stai svolgendo un compito molto duro (…) la nostra nazione è divisa ma su una cosa dobbiamo essere tutti d’accordo: i voti devono essere contati e Trump e Biden devono avere i voti che meritano. Questo allunga i tempi. Io capisco la frustrazione. Capisco che Trump diventi nervoso, che Biden diventi nervoso. Ma questo è un loro problema. Il nostro problema è che tutto sia fatto correttamente”.

Il conduttore ovviamente sottolineava anche gli elementi che in alcuni Stati in sospeso facevano presagire la vittoria di Trump, ma dal conto complessivo il telespettatore capiva che tirava una brutta aria per Donald. In studio non c’era un giornalista fazioso vicino ai repubblicani per indorare la pillola all’elettore di Trump e non c’era nemmeno uno vicino ai democratici che parteggiasse per la riscossa di Biden. Gli esperti chiamati a parlare con gli anchor erano tutti della Cnn.

Da cosa nasce l’invidia? Dalla scoperta di un giornalismo che prende posizione e si assume le sue responsabilità anche nei confronti del presidente in carica senza nascondersi dietro il contraddittorio per conto terzi.

Cosa sarebbe accaduto in una situazione identica nelle dirette che seguono le notti italiane? Non è difficile immaginare il solito pollaio. Da un lato ci sarebbero stati i giornalisti delle testate vicine a Biden, dall’altro quelli delle testate vicine a Trump. Il conduttore non avrebbe preso posizione e si sarebbe limitato a riportare la versione del presidente lasciando poi i giornalisti a scannarsi tra loro a beneficio dello share.

Alla fine i cittadini si sarebbero svegliati in un contesto caotico senza capire bene quel che era successo nella notte. Avrebbero cercato informazioni nella rete e il seme della polarizzazione delle opinioni, avviata dal talk tv, avrebbe trovato terreno fertile.

Comunque finiscano queste elezioni i giornalisti americani ci ricordano invece come si può fare informazione orientando correttamente i cittadini in un contesto polarizzato, anche sfidando il polarizzatore più potente, cioè il presidente in carica. Un giornalismo che svolge un servizio pubblico in tempi rischiosi per la democrazia e non si cura troppo di deludere quella parte del pubblico che vuol solo sentire la conferma della vittoria del suo beniamino.

C’è un’obiezione possibile: i giornalisti della Cnn avrebbero fatto lo stesso a parti inverse con un Trump che risale la china? Se – come è possibile – i dati cambiassero ancora nelle prossime ore, lo scopriremo presto.

domenica 25 ottobre 2020

Pannicelli caldi e contagi che volano

A me De Luca non piace, né nel modo di fare né nel modo di esprimersi ma devo dore che stavolta aveva ragione: il paese andava chiuso, completamente e per almeno 40 giorni. Dati alla mano non ci sono alternative e le esprienze contemporanee  degli altri paesi ce lo dimostrano: non si convive con il covid-19; non ci sono vie di mezzo né scorciatoie e stesso noi prima di questa estate scriteriata (dove influencer, scienziati da strapazzo, ecc. dicevano, insieme a molti media, che il virus non c'era più e/o era a bassa carica virale e altre fesserie del genere.... in realtà era lì) abbiamo dimostrato che l'unica via era quella del lockdown duro e puro e i risultati si son visti, prima e meglio degli altri (in certi casi il contagio, come in inghilterra, non si è mai fermato) abbiamo dimostrato la via maestra da seguire in attesa di vaccini, medicinali ecc. e invece......

Invece il Governo, sull'onda delle Regioni che hanno premuto per evitare di chiudere, ha messo in campo pannicelli caldi anzi tiepidissimi che non fermeranno il contagio e faranno danni enormi perchè se il virus sarà incontrollabile, ossia supera la soglia del 1 su 3 - 4 (ora siamo a 1 su 7 è contagiato),  anche coloro che oggi protestano domani potrebbero essere contagiati e contagiare a loro volta in una spirale, questa si pericolosa anche economicamente, dolorosa che provocherà vera miseria e problemi sociali: non un intervento ma il laissez faire farà danni: ma questo lo sappiamo fin dalla prime letture di A. Smith e della sua ricchezza delle nazioni lo sappiamo e il covid non fa altro che, ancora una volta, confermare la sua ottusa visione: intanto oggi abbiamo superato i 20 mila contagi, ancorchè con un minor numero di tamponi, e certo non consola i 40 mila della Francia e gli 80 mila americani..... ed è stupido sperare di nascondersi dietro i cosiddetti 'asintomatici' perchè sono parte della fenomenologia e non un problema a parte.

Non ci siamo e davvero dobbiamo sperare di cavarcela con poco visto che stanno rimandando tutto a dopo natale... devono vendere e trovo allarmante che il Governo nazionale, sulla scia di quelli locali, si 'distragga' e ignori i dati che sono lì e ci fanno capire che con questa pandemia non si scherza e  che a volte è meglio l'interesse generale che quello particolare delle singole corporazioni cui si dovrebbe dare attenzione ma solo DOPO aver ottemperato al mandato degli elettori e MAI, comunque, il suo contrario come invece da decenni avviene: per fare un esempio nella sanità regionalizzata e buco nero di clientele e favori l'eccellenza non manca eppure soffre e sapeteperchè perchè i tagli si fanno sentire; tagli fatti orizzontalmente dai governi, fin dal 1992, e dalle regioni e ora ne paghiamo lo scotto ma non basterebbe se non ci fosse anche il clientelismo con il privato: infatti anzichè fargli spazio in concorrenza si è distrutto il pubblico e si sono spostati soldi da un punto all'altro.. questa tenaglia ha creato l'attuale situazione dove le strutture al primo scossone vanno in sofferenza e al politica fatica a riprendere il controllo della situazione facendo fronte al problema....

Eccolo il punto: siamo messi così perchè è stato pervicamente perseguito l'obiettivo della privatizzazione e della sparizione del servizio pubblico che viene mantenuto giusto per salvare ... le forme. Da qui il lockdown: una misura estrema ma che è necessaria per far riprendere fiato alla nostra disastrata, dalla politica e dai suoi interessi (assicurazioni, sanità privata, ecc.) sanità come abbiamo fatto nella prima parte dell'anno, alternative non ce ne sono...

 

mercoledì 21 ottobre 2020

... l’Italia che vuole Confindustria....

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano 12 Ottobre 2020 Lobby

Le parole volano, gli scritti rimangono. E capita persino che, ogni tanto, qualcuno se li legga. Nel volume di 385 pagine “Il coraggio del futuro” in cui Confindustria delinea la sua visione dell’Italia di domani, gli industriali, discettano un po’ di tutto tra. Non solo di industria e lavoro, ma anche di assetti istituzionali, regolazione bancaria, politiche europee, formazione, sanità, pubblico impiego. Il comun denominatore è che il “modello impresa” dev’essere replicato più o meno in ogni ambito. Nel testo ci sono tutti i tradizionali cavalli di battaglia di viale dell’Astronomia e quindi si ai prestiti del Mes, no al reddito di cittadinanza e al salario minimo, richiesta di incentivi alle imprese e sgravi per chi investe. Nelle quasi 400 pagine la parola mercato compare 160 volte, il termine società, intesa come collettività una ventina. “Evasione fiscale” appare appena nove volte, per chiedere meno controlli (“la lotta all’evasione fiscale che deve essere fondata anche e soprattutto sull’azione non massiva ma casistica di controllo e verifica, concentrati sui soggetti economici che presentano maggiori profili di rischio fiscale”) e sanzioni più blande (“all’inasprimento delle sanzioni tributarie penali si attribuisce ciclicamente il potere, quasi taumaturgico, di far arretrare l’evasione fiscale. Un obiettivo che dovrebbe essere invece, più efficacemente, perseguito con altri strumenti che passano per la valorizzazione degli istituti cooperativi”). Fin qui più o meno tutto già noto. Ma nel volume sono presenti anche nuovi “affondi”, sul tema dei licenziamenti, della flessibilità e del welfare.

Il licenziamento che “non è un trauma” Il capitolo forse più importante, quello dedicato al lavoro, si intitola “Prendersi cura del lavoro e dei lavoratori”. Leggendo si capisce però che a prendersi cura dei lavoratori non sono le imprese, che anzi dovrebbero poter licenziare più o meno come e quando vogliono, ma lo Stato che deve incaricarsi di sostenere e riqualificare il dipendente silurato. Si arriva infatti velocemente al sotto capitolo “Un mercato del lavoro più libero e leggero” in cui si auspica che le procedure di licenziamento vengano rese più semplici, facilmente percorribili, estendendo i meccanismi introdotti dalla legge Fornero del 2012, con cui il reintegro sul posto è stato sostituito da compensazioni economiche. Nel testo si legge “Si propone di generalizzare la c.d. procedura Fornero applicandola anche ai rapporti sorti sotto il regime del contratto a tutele crescenti, superando l’istituto dell’“offerta conciliativa”. In concreto si propone di far sì che ogniqualvolta il datore di lavoro si veda costretto a recedere dal rapporto per giustificato motivo oggettivo possa attivare una procedura di confronto, non solo da vanti agli Ispettorati del lavoro ma anche avanti alle Commissioni di conciliazione costituite dalle associazioni datoriali e dalle organizzazioni sindacali Sempre meno giudice del lavoro insomma, e pratica da gestire semplicemente con i sindacati. Anni fa Elsa Fornero raccontò in un’intervista delle pressioni ricevute da ambienti confindustriali per rendere ancora più semplici e rapidi i licenziamenti. “In Italia non abbiamo i giudici che ci sono in Germania”, argomentavano gli industriali. “Può darsi, ma non abbiamo neppure imprenditori come quelli tedeschi”, replicò l’allora ministro del Lavoro. Nel capitolo “Una gestione non traumatica della risoluzione del rapporto di lavoro per motivi oggettivi” Confindustria spiega che “occorre avere il coraggio di affrontare in modo equilibrato anche il tema dei licenziamenti per motivi oggettivi, in modo tale che non costituiscano più un evento traumatico ma possano essere vissuti dal lavoratore in un quadro di garanzie tali da renderlo un possibile momento fisiologico della vita lavorativa”.


Flessibili e partecipativi ma senza antagonismi – Non sorprende che l’associazione degli industriali apprezzi e celebri la flessibilità nei rapporti di lavori auspicandone anzi un’estensione. “Occorre ripensare profondamente, rispetto all’attuale regolamentazione, l’apporto al mercato del lavoro che può derivare dall’utilizzo dei contratti “flessibili”, contratto a termine e somministrazione a termine in primis, che assicurano la piena parità di trattamento rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato di pari livello. Per rendere concreta l’attenzione al capitale umano, occorrerebbe poi che l’apprendistato costituisca la porta d’ingresso al mercato del lavoro per i giovani (…) l’apprendistato offre quelle garanzie di flessibilità e adattabilità del rapporto che vanno valorizzate e incentivate. Anche sotto questo profilo un ruolo importante può svolgere la somministrazione di lavoro come strumento “flessibile”, adatto a verificare le competenze del lavoratore e, nel contempo, in grado di fornire una formazione al lavoratore, risolvendo, per le imprese più piccole o meno strutturate, il problema di impostare validi piani di formazione“. Sullo smartworking, la novità del momento, Confindustria scrive: “lo smart working può essere un terreno ideale per portare avanti questa maturazione culturale che chiede di “essere” partecipativi: non è certamente foriero di risultati stabili pensare la partecipazione in termini di “avere” – cioè ottenere attraverso la contrattazione –se poi la mentalità di fondo è e rimane quella antagonista”. I lavoratori devono quindi maturare culturalmente e smettere di avanzare pretese. Si arriva persino a prospettare quella che sembra essere l’idea di un lavoro a cottimo, con una retribuzione parametrata ai risultati. “Occorre disciplinare questo rapporto non restando rigidamente ancorati a tutte le caratteristiche del contratto di lavoro classico, connotato da uno spazio e da un tempo di lavoro. Serve una regolamentazione che consenta, da un lato, di vedere il lavoro “in purezza” come creatività, sempre più orientato al risultato, e, dall’altro, di remunerarlo per il contributo che porta all’impresa nel processo di creazione del valore”, scrivono gli imprenditori. Il lavoro “in purezza”. In tema di spirito partecipativo, Confindustria chiude una porta blindata sull’ipotesi di una presenza di rappresentanze di lavoratori negli organi dirigenziali delle fabbrica, come avviene diffusamente in Germania. L’idea degli industriali italiani è quella di una partecipazione a senso unico in cui bisogna dare tutto senza ricevere nulla.

 

Ai dipendenti pubblici, su cui consulenti di viale dell’Astronomia amano sparare ad alzo zero, si mostra il pugno duro: “La valutazione (dei risultati, ndr) dovrebbe prevedere l’utilizzo di competenze tecniche specialistiche esterne, volte a garantire maggiore indipendenza del processo. Ciò dovrà accompagnarsi a misure sanzionatore in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi, come blocchi della carriera, rimozioni dall’incarico, retrocessioni economiche, in modo da evitare una deriva autoreferenziale dell’intero processo valutativo e favorire, al contrario, l’incremento della produttività”

La scuola al servizio dell’impresa – La strada per avere il tipo di lavoratore sognato, flessibile, comincia dalla scuola. Un posto dove, nella visione confindustriale, si formano lavoratori più che persone. “Al sistema educativo nel suo complesso, dalla scuola dell’infanzia all’università, è affidato il difficile compito di preparare le nuove generazioni a gestire e non subire il cambiamento tecnologico: formare donne e uomini artefici del proprio destino”. Qui il documento inizia a introdurre il concetto di “homo faber” che è la chiave di volta della visione confindustriale. “Il sapere, scrive viale dell’Astronomia il saper fare, il saper essere insiti nelle risorse umane, combinati insieme, influiscono positivamente sulla produttività del lavoro a
livello di singola azienda e, per aggregazioni successive, innalzano il potenziale di crescita del sistema nel suo complesso”. Purtroppo, o per fortuna, quello dell’uomo artefice unico del proprio destino è concetto già da tempo sconfessato e accantonato dalla storia. Si insiste molto sull’attribuzione alla scuola del compito di dotare gli studenti non meglio precisate “competenze digitali”. Vale qui forse la pena ricordare quanto disse anni fa il co fondatore di Microsoft Paul Allen: “mettere bambini di 6 anni davanti ad un computer non serve a nulla. La scuola deve insegnare a pensare. Se riesce in questo un computer si impara ad usare in due settimane”. C’è un vago richiamo all’importanza della creatività in un’epoca di robotizzazione. Ma non in quanto valore in sé, tutto è infatti declinato in funzione della sua resa produttiva.

Una strana idea di sanità Finita, per ovvie ragione di decenza, la stagione della richiesta di tagli senza se e senza ma Confindustria adotta una nuova strategia per quanto riguarda gli interventi sul nostro sistema sanitario nazionale. Si chiedono più soldi, si ribadisce l’opportunità di accedere ai fondi europei del Mes. E poi si aggiunge: “è necessario misurare gli effetti delle politiche sanitare in base al loro impatto sulla struttura industriale (occupazione e produzione) e sulla capacità di attrarre investimenti (…) Occorre valutare le prestazioni, non solo in base al costo, ma anche al rendimento, quindi ai risultati generati, che nel caso della sanità sono di natura clinica, scientifica, sociale, ma anche economica. Abbandonare modelli di gestione che non tengono conto delle forti interazioni nei percorsi di cura e determinano costi molto elevati per le imprese, a danno dell’innovazione e della sostenibilità industriale”. Un giro di parole per dire, in modo accattivante, che le prestazioni sanitarie e l’offerta ospedaliere deve essere gestita in base a criteri di ritorno economico più che guardare a quelle che sono le reali esigenze della popolazione. Il piatto della sanità è talmente ricco (oltre centro miliardi di euro l’anno) che la voglia di banchettare è tanta. E quindi si chiede di sviluppare assicurazioni private e cliniche private. Con il duplice risultato di ridurre il carico di welfare in capo alla contribuzione aziendale e spostare risorse dal pubblico verso l’imprenditoria privata. Scrive Confindustria: “Sul fronte della sanità integrativa, lo sviluppo del settore – ormai divenuta fenomeno di massa soprattutto nel mondo del lavoro dipendente – è essenziale per “organizzare” la spesa sanitaria privata in modo più efficiente e per diffondere nella popolazione la cultura della previdenza sanitaria che consenta ai cittadini di tutelarsi per le spese sanitarie, evitando di essere finanziariamente colpiti nel momento dell’emersione del bisogno sanitario”. Pur riconoscendo a parole i meriti del modello di Welfare europeo, si pianta quindi un seme per tendere verso il modello Usa. Perché “in vista dell’invecchiamento della popolazione l’assistenza sanitaria dev’essere sostenibile”

E poiché la sanità non sarà più solo pubblica, le prestazioni sanitarie entrano a far parte della merce di scambio tra imprese e lavoratore, a scapito della retribuzione. Esattamente la linea che Confindustria sta seguendo nei rinnovi contrattuali di questi giorni: niente aumenti in busta paga ma pacchetti di welfare. Il documento spiega: “La contrattazione, dunque, si svolgerà sempre più su tematiche che non atteranno puramente e semplicemente alla determinazione dei valori salariali da corrispondere tempo per tempo ai lavoratori ma si articolerà sugli interventi, anche e soprattutto, di welfare aziendale, che costituiranno, in prospettiva, forme di “copertura” sempre più ampia per i lavoratori: dalla sanità alla previdenza integrativa, già diffuse nella contrattazione, alla garanzie relative alla non autosufficienza, al concorso alle spese per l’istruzione e la formazione, per il lavoratore e il suo nucleo familiare, fino ai servizi alla persona in senso lato”. L’operazione è ingegnosa. Quello che prima era fornito a tutti (sanità, pensioni decenti, scuole di buon livello) e pagato con la fiscalità generale ora ce lo “vendono” le aziende e ce lo fanno pagare in forma di mancati aumenti di stipendio.


Confindustria auspica poi anche una riflessione sul rapporto tra Stato e mercato. Infatti, “la crisi innescata dalla pandemia ha accentuato una tendenza già in atto presso la classe politica e l’opinione pubblica, vale a dire prospettare e richiedere forme di intervento pubblico più intense nel sistema economico”. Questa visibile mano pubblica tesa alla imprese a Confindustria può stare anche bene (“non siamo pregiudizionalmente contrari”) ma ad alcune condizioni “E’ imprescindibile il carattere temporaneo dell’intervento dello Stato, la cui permanenza e la cui uscita dagli assetti proprietari dovrebbe essere corredata da cautele che, da un lato, non compromettano le dinamiche concorrenziali e, dall’altro, consentano di assicurare una seppur limitata profittabilità dell’investimento pubblico”. Traduzione: va bene entrare nelle nostre aziende ma una volta che le avete risanate ce le ridate.

 

martedì 20 ottobre 2020

Covid, no mask e tanta sfiga: più che un anno funesto, a me sembra proprio un anno di m****

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Francesca Petretto Società - 19 Ottobre 2020

 

Tutto è cominciato con la quarantena e Barbara D’Urso che insegnava al Paese come lavarsi le mani, poi i virologi sono diventati le nuove star della tv rispedendo gli chef in cucina a fare tutorial su come fare una pizza a regola d’arte. Nel frattempo, nascevano piazze di spaccio di lievito di birra e di Amuchina in tutta Italia e il saturimetro diventava l’oggetto più ricercato su Amazon.

In tutto questo, il miglior Presidente del Consiglio che poteva capitarci in questo frangente subisce due attacchi incrociati: da una parte c’è chi vorrebbe riempirlo di botte e dall’altra c’è chi due botte se le farebbe dare volentieri da lui. Il tempo non è più scandito in giorni o mesi, ma in fasi e ondate. L’occasione però è ideale per imparare un po’ di inglese e infatti il nostro vocabolario si arricchisce di termini come: lockdown, droplet, termoscanner, smart working, Covid burnout.

Insomma, ce lo avevano detto o no che saremo stati migliori dopo tutto sto casino? Siamo persino diventati esperti in microbiologia e virologia applicata, attraverso corsi disponibili solo sulle migliori pagine e profili Facebook. Intanto, una minaccia ben più grave del Covid-19 incombeva sulle nostre quarantene fiduciarie: i “negazionisti”, detti anche “no mask”. Esseri umani apparentemente simili a noi, dotati di braccia e gambe, persino di occhi, orecchie e bocca, ma con cervelli sottosviluppati e sindrome del complotto aggravata. Scie chimiche, 5G, dittatura sanitaria, acidosi, terra piatta, no vax, “non ce n’è coviddi” sono solo alcuni dei concetti base delle loro teorie, supportate con grande rigore scientifico da Angela da Mondello (ora pentita), Enrico Montesano, Miguel Bosè e tanti altri esperti del settore.

La seconda ondata è caratterizzata, oltre che da un considerevole aumento dei contagi, anche da un notevole aumento della sfiga che coinvolge la città di Roma, la quale si trova a fronteggiare due candidature a sindaco da teatro dell’assurdo: quella di Massimo Giletti e quella di Vittorio Sgarbi, quest’ultimo probabilmente colto da demenza senile aggravata, a sua volta propone Morgan come sindaco di Milano (la sfiga mica poteva toccare solo a Roma!).

Più che di anno funesto, qui si parla proprio di un anno di merda!

Caro Babbo Natale, quest’anno desidererei tanto un potente e super efficace vaccino… contro l’imbecillità. Tua, Francesca.

giovedì 15 ottobre 2020

Coronavirus, la salvezza del corpo è la nuova religione e i medici i suoi pastori

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano  Società - 14 Ottobre 2020 Diego Fusaro

L’Occidente non crede più in nulla già da tempo. Almeno da quando “l’ospite più inquietante”, il nichilismo, si è insinuato nei suoi spazi, occupandoli integalmente e senza zone franche. Niente più valori e ideali, niente più dèi e idee eterne: tutto è precipitato nell’abisso, svalorizzandosi. Nichilismo, ci ha insegnato Nietzsche, è il processo di trasvalutazione di tutti i valori, al termine del quale non resta più, letteralmente, nulla. O, più precisamente, resta il nulla come unico valore superstite.

Per ciò stesso, rimangono ora inevase le domande più importanti, quelle sui fondamenti, alle quali l’Occidente aveva variamente provato a rispondere: perché? A che scopo? Verso dove? In balia del tecnonichilismo e dell’ombra del nulla che si estende senza lasciare alcunché fuori dal proprio campo, resta un unico punto fermo per l’uomo occidentale, un unico, estremo valore, condiviso con gli altri animali e, propriamente, neppure inquadrabile in quanto tale in quella sfera, sempre a suo modo ideale, dei valori: tale valore è la vita o, se si preferisce, la mera sopravvivenza del proprio corpo individuale. Il conatus sese servandi, come anche lo appella Spinoza.

Per l’Occidente, che già da tempo non crede più nell’anima e nel suo destino, resta solo la nuda materialità del corpo come punto di riferimento, come valore immanente a cui aggrapparsi, trasfigurandolo in valore sommo nonché esclusivo. Per secoli, come sappiamo, la Chiesa si era occupata della salvezza delle anime, premurandosi di operare affinché esse, anziché perdersi, si salvassero nell’eterna beatitudine e ascendessero al regno dei cieli. Perché ciò potesse realizzarsi con successo, era richiesta la tecnica che Foucault, in più luoghi, chiama “pastorale”: il pastore come salvatore di anime doveva controllare sempre e ovunque il suo gregge, ogni suo singolo membro.

Doveva, mediante la pratica della confessione, sapere cosa pensassero e come agissero, cosa desiderassero e che peccati commettessero le sue “pecore”. Ora, l’Occidente già da tempo ha abbandonato la sua figura storica della Chiesa: ove essa ancora esista, svolge un ruolo marginale, non più da protagonista, assai spesso – diceva senza troppe perifrasi Andrea Emo – da “cortigiana”. Ultimamente l’Occidente scristianizzato e abitato dal nichilismo si è consegnato a un’inedita figura: quella della Chiesa medico-scientifica.

Essa non promette di salvare le anime, in cui più nessuno crede, ma i corpi, che sono la sola cosa in cui tutti ormai credono: promette, cioè, di garantire la sopravvivenza fisica nel tempo della “valle di lacrime” della pandemia e del nuovo ordine terapeutico. Ne scaturisce una paradossale soteriologia materialistica, che altro scopo non ha se non quello di garantire la salvezza dei corpi in questo mondo, la loro sopravvivenza. La salvezza trascendente che la Chiesa prometteva per le anime viene promessa dalla scienza medica per i corpi, in forma rigorosamente immanentizzata.

Anche per la buona riuscita di questa operazione, v’è comunque bisogno di un pastore, per quanto diverso da quello a cui si affidava la Chiesa: un pastore – il medico, l’esperto, lo scienziato – che ai vecchi simboli, formule e riti ne sostituisce di nuovi. Egli soltanto, con il suo rapporto asimmetrico rispetto al “gregge” e alla sua eventuale immunità, come per curiosa analogia la si appella, detiene un sapere privilegiato, in grado di produrre la salvezza dei corpi e di garantire che, se al sapere da lui diffuso ci si attiene, si può vincere sul male sempre in agguato. È anche questa, come quella della Chiesa contro il demonio, una lotta contro un nemico invisibile e malefico, che l’uomo comune, a differenza del sacerdote, non sa riconoscere e da cui, anzi, facilmente si lascia ingannare.

Come il demonio assume spesso le sembianze dell’uomo onesto, facendosi indistinguibile e confondendo, così il nuovo nemico invisibile, e non di meno puramente e rigorosamente materiale, si occulta in chi – l’“asintomatico” – appare come tutti gli altri del gregge. Anche quella della scienza medica è una battaglia sacra contro un principio maligno, che può intaccare la cosa più preziosa, il corpo, negandogli la salvezza e corrompendolo. La massa profana, il nuovo gregge da salvare, non ne sa nulla: e deve solo, con fede e osservanza, affidarsi alle cure del pastore, confidandogli tutto, lasciandosi controllare nei gesti e nelle movenze, nelle operazioni e anche nei pensieri.

Ne va, appunto, della sopravvivenza del corpo, cioè dell’unica cosa in cui ancora si creda. La sola cosa in nome della quale si sia pronti a sacrificare tutto: comprese, ovviamente, quelle realtà – la libertà, in primis – in cui, prima dell’avvento del nichilismo tecnoscientifico, si era pronti a sacrificare la vita. Proprio in ciò si misura il mutamento radicale: il corpo come mera vita, come semplice sopravvivenza, ossia ciò che un tempo si era pronti a sacrificare per realtà valoriali giudicate più alte, per ideali ritenuti più nobili, è oggi innalzato esso stesso a sola realtà a cui ogni ideale possa essere sacrificato.

La stessa Chiesa, che sempre più sembra solo sopravvivere a se stessa, si è convertita alla nuova religione materialistica della scienza medica: a tal punto da abbandonare ogni anelito di trascendenza, ogni slancio di ulteriorità sovrasensibile: così si spiega il transito da Francesco da Assisi, che abbraccia i lebbrosi, e da Carlo Borromeo, che comunica gli appestati, all’odierno pontefice, che annulla i suoi viaggi pastorali per via del Coronavirus e accetta, con colpevole silenzio, la proibizione delle funzioni religiose per ragioni sanitarie.

È la resa senza resistenza della vecchia Chiesa, quella della salvezza delle anime, alla nuova, quella della salvezza dei corpi.

martedì 13 ottobre 2020

Nel lockdown la natura si è ripresa i suoi spazi. Ma non ci sono solo buone notizie

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano  Ambiente & Veleni - 13 Ottobre 2020 Fabio Balocco

Tutti coloro che amano la natura non possono non avere apprezzato quello che sembrava almeno uno degli aspetti positivi del lockdown: il fatto che si vedessero in giro più animali, o che il verde si prendesse spazi che prima gli erano preclusi. Era la natura che avanzava a causa del ritirarsi dell’uomo (fenomeno definito dagli esperti significativamente “antropausa”, proprio ad indicare la subitanea assenza/riduzione che si è verificata a livello globale della pressione antropica). In Piemonte, dove abito, circolavano fotografie sorprendenti, come quella famigliola di anatre con i piccoli in pieno centro, oppure quel lupo su un terrazzo a piano terra in montagna, o quegli stambecchi che passeggiavano sull’asfalto.

Del resto, gli studiosi hanno effettivamente verificato che il lockdown ha comportato degli effetti favorevoli per diverse specie faunistiche; alcune specie hanno potuto fruire maggiormente degli ambienti urbani, altre delle ore diurne avendo così maggiori possibilità di acquisire cibo. Inoltre diverse specie hanno registrato un maggiore successo riproduttivo; nel caso dei rondoni, ad esempio, il numero di uova deposte è stato maggiore; nel caso del fratino, lo spazio per nidificare indisturbato aumentando così le probabilità di sopravvivenza della prole, è stato maggiore. A livello internazionale, dalle notizie raccolte, si è evidenziato anche come ci siano state maggiori nidificazioni da parte di diverse specie di tartaruga marina.

Un’altra ricerca, questa volta americana, ha accertato come a San Francisco, in ambiente urbano, siano cambiate le modalità di vocalizzazione di alcune specie di uccelli. In particolar modo rispetto agli anni precedenti negli ambienti urbani gli uccelli hanno prodotto canti di maggiore qualità a frequenze più basse che quindi hanno potuto “viaggiare” a distanze quasi doppie rispetto al normale, aumentando probabilmente la possibilità dei maschi di trovare una partner.

La realtà però non è stata tutta così favolosa neanche per la natura. Tornando all’Italia, in molte regioni ad esempio si è continuato legittimamente a sparare e a tagliare boschi, così come si sono registrati fenomeni di bracconaggio, a causa del venir meno dei controlli.

Ma, a parte ciò, il lockdown per molti è stato anche un momento di ripensamento in merito al concetto stesso di natura, o meglio sulla bellezza associata alla natura. E qui mi spiego meglio. La natura che ci circonda, e ce ne accorgiamo anche noi in ambito urbano, non è tutta “naturale”, ma è spesso frutto di interventi umani, e altrettanto spesso di interventi errati. Qualche esempio? Le nutrie sulle sponde dei fiumi, lo scoiattolo grigio che soppianta lo scoiattolo rosso; oppure gli alberi di Ailanto, di Paulownia o gli arbusti di Buddleja che invadono città, campagne e rilievi. Specie animali o vegetali immesse dall’uomo o volontariamente o casualmente che arrecano danni spesso irreparabili.

A questo proposito, interessante è uno studio che è stato pubblicato di recente, frutto del lavoro di un team di ricercatori dell’Università Statale di Milano, coordinato dal professor Raoul Manenti.

Il team ha svolto una preziosa indagine anche sulla fauna alloctona che prospera nel nostro paese e sugli interventi che mirano a contenerla. Ovviamente, durante il lockdown tali interventi sono stati sospesi e la fauna ha continuato a prosperare e ad avere la meglio sulle specie native. E sforzi di contenimento fatti in passato potrebbero essere stati del tutto vanificati. Lo stesso team sta ora raccogliendo informazioni provenienti da altri paesi, e si potrà perciò avere un quadro più completo a livello globale. La natura, a causa nostra, talvolta è matrigna.

domenica 11 ottobre 2020

Vaccino Covid, le trattative.....

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano

Prima l’attività di lobbying da parte delle aziende del farmaco per continuare a trattare separatamente con i singoli Stati, in negoziati segreti che non consentono a un Paese di conoscere il prezzo a cui gli altri compreranno futuri trattamenti e vaccini. E poi, quando la Commissione ha comunque nominato un team di negoziatori europei per il futuro vaccino, l’inserimento nel gruppo dell’ex capo della Federazione svedese delle industrie farmaceutiche, ancora socio di due aziende attive nel settore. Infine, la decisione di sollevare uno dei gruppi che forniranno il vaccino da parte della responsabilità per danni eventualmente causati da effetti avversi. E’ il racconto di come e cosa l’industria farmaceutica ha ottenuto dalle istituzioni europee nel corso dell’emergenza Covid 19, secondo documenti ottenuti dal Corporate Europe Observatory e rivelazioni di Reuters.

I verbali degli incontri tra commissari Ue e industria in aprile – “Vorremmo continuare a fornire questi nuovi trattamenti attraverso i canali abituali e non con un approvvigionamento congiunto”. Il 9 aprile, in una situazione di estrema emergenza per la carenza di farmaci e attrezzature sanitarie, con queste parole un rappresentante dell’Efpia, la lobby europea dell’industria farmaceutica, si rivolgeva al telefono alla commissaria europea alla Salute Stella Kyriakides e al commissario al mercato interno Thierry Breton, chiedendo loro di non utilizzare procedure di acquisto congiunto, più trasparenti dei negoziati con i singoli Stati. Lo svelano verbali degli incontri tra i commissari e l’industria durante il picco dell’emergenza Covid 19, ottenuti dal Corporate Europe Observatory (Ceo) che in questi giorni ha pubblicato il dossier “Potere e profitto durante una pandemia – perché l’industria farmaceutica ha bisogno di maggiore controllo”.

“L’associazione rappresentativa di Big Pharma ha usato il suo potere per fare lobby contro un meccanismo (quello della negoziazione congiunta) disegnato per migliorare l’accesso e il prezzo equo dei trattamenti durante la pandemia”, sottolinea il rapporto. I “canali abituali” a cui il rappresentante dell’Efpia si riferisce – spiegano dall’osservatorio Ceo – “sono quelli dei negoziati segreti tenuti dall’industria con singoli Stati in cui nessun Paese conosce il prezzo a cui il prodotto è venduto altrove”, e quindi ha meno capacità negoziale.

In agosto nasce il team Ue. Dentro c’è l’ex capo della lobby farmaceutica svedese – Il dossier fa il punto su quanto l’industria ha ottenuto dalle istituzioni europee grazie all’emergenza Covid 19. Se è vero che – in agosto – un “Joint negotiation team”, ovvero un gruppo di negoziatori europei, è stato poi creato per la discussione dei contratti per i futuri vaccini, la Commissione tiene segreti i nomi dei suoi membri. Ad agosto il giornale belga Hln ha scoperto che uno di questi negoziatori è Richard Bergström, fino al 2016 il capo dell’Efpia svedese e tuttora titolare di interessi personali nell’industria farmaceutica. in quanto co-proprietario società (PharmaCCX e Hölzle, Buri & Partner Consulting) che forniscono servizi a Big Pharma. Sul sito della Commissione si garantisce che tutti i membri del Joint negotiation team sono stati nominati dai loro governi e che “hanno firmato una dichiarazione di assenza di conflitti di interesse”. Non si fa però alcun riferimento ad una valutazione indipendente sull’assenza di conflitti di interesse. Eppure, queste persone stanno negoziando condizioni che determineranno la spesa di milioni di euro per tutti i contribuenti europei.

Il contratto con AstraZeneca e la manleva sui danni da effetti avversi – Finora la Commissione ha firmato due contratti: uno con l’azienda Astra Zeneca, titolare del vaccino sviluppato a Oxford, da cui si è assicurata una fornitura di 300 milioni dosi (con un’opzione di ulteriori 100 milioni) da distribuire alla popolazione. Il prezzo pagato è – secondo quanto ha rivelato Reuters366 milioni di euro. Non si tratta di un anticipo per l’acquisto di dosi del futuro vaccino, bensì del costo della prenotazione. Se il vaccino funzionerà dovrà essere poi acquistato dagli Stati e se non funzionerà, la Commissione ha comunque pagato questa cifra ad Astra Zeneca per finanziare il suo sviluppo.

Come ha svelato sempre Reuters nei giorni scorsi, un accordo segreto tra la Commissione e l’azienda anglo-svedese ha stabilito che i governi europei pagheranno, entro certi limiti (non pubblici), al posto di Astra Zeneca per i danni eventualmente causati da effetti avversi del vaccino. Una condizione che costituisce un’eccezione alla legge europea: secondo la direttiva del 1985 sulla responsabilità dei prodotti (“liability directive”) solo l’azienda è responsabile di danni provocati da ciò che produce. Secondo un portavoce della Commissione, la condizione è stata ottenuta in cambio di uno sconto sul prezzo del vaccino di Astra Zeneca, fissato a 2,5 euro a dose. Mentre l’altro contratto firmato dalla Commissione per un vaccino anti-Covid 19, quello con Sanofi-GlaxoSmithKline, non prevede che gli Stati paghino per gli affetti avversi ma il prezzo per dose è più alto: 10 euro. Il gruppo di negoziatori della Commissione continua a trattare per conto di tutti i governi dell’Unione e oltre alla firma dei contratti con Astra Zeneca e Sanofi ha già concluso colloqui esplorativi con le società Johnson & Johnson, CureVac e Moderna.

Al palo l’iniziativa per condividere brevetti anti Covid – Intanto, mentre la “Coronavirus global response initiative” promossa dalla Commissione ha portato gli Stati e le organizzazioni aderenti a promettere 15,9 miliardi di euro per lo sviluppo di vaccini, trattamenti e sistemi di diagnostici contro il Covid-19, pochi governi sostengono il “Covid19 Technology Access pool”, iniziativa lanciata nell’ambito dell’Oms per condividere la proprietà intellettuale sulle tecnologie contro il coronavirus finanziate con fondi pubblici e garantirne l’accesso a tutti. Nonostante l’accesso globale ai trattamenti anti-Covid sia sulla bocca di tutti i leader, tra i governi dell’Unione Europea hanno finora aderito solo Belgio, Olanda e Lussemburgo.

Twitter: @ludojona

venerdì 9 ottobre 2020

La Confindustria di Bonomi in campo contro i ‘poveracci’

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Pierfranco Pellizzetti Economia & Lobby - 8 Ottobre 2020

“All’accusa che i leader sindacali hanno rivolto a Confindustria di non volere i contratti abbiamo risposto con chiarezza che Confindustria i contratti li vuole sottoscrivere e rinnovare. Solo che li vogliamo ‘rivoluzionari’, rispetto al vecchio scambio di inizio Novecento tra salari e orari”. Tradotto: in quanto autorizzino la piena mano libera delle imprese nelle decimazioni aziendali a mezzo licenziamenti, cancellando (rivoluzionariamente?) qualcosa come un secolo e mezzo di lotte per i diritti del lavoro.

Così strepita Carlo Bonomi, il grossista di apparecchiature elettromedicali scelto dagli industriali aderenti a Confindustria quale loro presidente per dare voce allo stato d’animo prevalente nella categoria: il revanscismo da ultima raffica, che li destina a massa di manovra al servizio (inconsapevole?) dei grandi tessitori anti-governo giallo-rosa; che sbavano all’idea di poter mettere le mani sul malloppo, in presumibile arrivo da Bruxelles (Recovery Fund o Next Generation che dir si voglia)-

Altri – anche su queste pagine – si sono fatti carico di mostrare in maniera convincente l’ipocrisia di chi – pur avendo ricevuto dal Conte Bis la quota più consistente di risorse per affrontare la crisi pandemica – ora non si accontenta del molto ma pretende il tutto. Io stesso ho provato a tratteggiare in questa sede – partendo proprio dalle carte ufficiali di Confindustria – le gravissime responsabilità di un ceto industriale assenteista nel declino inarrestabile del nostro sistema produttivo. Vere campane a martello sulle vanità padronali di gestire loro la ripresa nazionale.

Ciò dato per acquisito, ora vorrei accennare alle modalità argomentative con cui i confindustriali promuovono le loro pretese; e sui retro-pensieri su cui si fondano. Quel qualcosa tra la petulanza e l’arroganza tradotto in luogo comune di cui oggi è icastico interprete il Carlo Calenda, che prima di impegnarsi in politica e prima ancora di aver portato la borsa all’industriale da jet-set Montezemolo, faceva il funzionario nel palazzone nero dell’Eur, sede di Confindustria: la torpida convinzione di una superiorità genetica dei membri del consesso con il simbolo dell’aquilotto, in quanto portatori di una suprema idea di efficienza.

Convinzione coltivata già prima che il reaganismo e il neoliberismo ottundessero le capacità analitiche di un Paese colonizzato culturalmente – quale l’Italia – da una ricezione fideistica della cultura proprietaria di matrice anglosassone-

Baggianate riassumibili in due principi guida: la metafora della Mano Invisibile, intesa come naturale tendenza del mercato al cosiddetto “ottimo paretiano” (la migliore allocazione delle risorse), e il mito pericolosissime del Darwinismo Sociale: con buona pace di Charles Darwin, la credenza che le dinamiche competitive selezionino al meglio eliminando i perdenti. Lasciti di una tradizione che parla in lingua inglese, per cui Beniamino Franklin, non limitandosi a indicare nell’alcolismo la soluzione ottimale per fiaccare i nativi americani, dichiarava che meno si fa per i poveri “meglio riusciranno a cavarsela”. Gli faceva eco sull’altra sponda dell’Atlantico Francis Galton (cugino dell’incolpevole Darwin), inventore della pseudo-scienza Eugenics, proponendo la sterilizzazione dei “poveri inutili”, per la loro incapacità “costituzionale” di inserirsi nel mondo del lavoro.

Ora, nelle parole del confindustriale Bonomi c’è tutto il disprezzo (atlantico) nei confronti dei “poveracci” che non albergava in una cultura come quella italiana, almeno dal punto di vista formale e dichiarativo, intrisa del misericordioso messaggio evangelico delle beatitudini: “beati voi poveri perché vostro è il regno di Dio”.

Un’attitudine solidale cancellata dall’alluvione americanista a fumetti; mentre – nel dilagare delle diseguaglianze – assistiamo all’invadenza di un elitismo che si tinge di palesi retro-pensieri razzisti: i poveracci come specie inferiore. Anche se fa un po’ ridere che a manifestarlo sia la congrega dei padroncini; che si ritengono un’aristocrazia, mentre si aggirano alla ricerca famelica di sussidi statali.

domenica 19 luglio 2020

https://blog.libero.it/Karamazov/15040376.html

Fonte: Il Fatto Quotidiano Loretta Napoleoni Mondo - 19 Luglio 2020
Gli eventi straordinari cambiano il mondo e spesso non si riesce a stare al loro passo. E’ quello che successe a Winston Churchill alla fine della seconda guerra mondiale, considerato un grandissimo statista in tempo di pace non venne rieletto a guerra finita. Il motivo? Voleva riportare il Regno Unito ai tempi d’oro pre-bellici.
Anche il 78enne Joe Biden, candidato democratico per la presidenza degli Stati Uniti, vuole spostare le lancette del tempo a 12 anni fa, quando era vicepresidente, per cancellare con un colpo di spugna l’amministrazione Trump e la catastrofe del Coronavirus. E’ questa la buccia di banana sulla quale il prossimo novembre il partito democratico americano potrebbe scivolare.
Possibile che nessuno si renda conto delle mutate condizioni geopolitiche mondiali, che non abbia intuito che siamo entrati nella guerra fredda in 3D dove si combatte in digitale e tornare indietro non si può più? Basta menzionare un’impresa, Huawei, al centro della guerra del 5G, un conflitto con ripercussioni enormi sulla tecnologia del futuro, quella del trasporto senza autista. E chi dire degli hacker, i moderni guerrieri eccellenti, le spie digitali che rubano di tutto – dai potenziali vaccini contro il Covid ai profili dei politici e dei volti celebri di Twitter?
Sullo sfondo di questo scenario apparentemente fantascientifico le rassicurazioni di Biden sul ritorno all’alleanza atlantica nata nel dopoguerra e funzionale alla vecchia guerra fredda appaiono fuori tempo più che anacronistiche. Il futuro è arrivato, lo stiamo vivendo e né Biden né il partito democratico che lo sostiene vogliono accettare questa verità. Donald Trump è stato solo strumentale per il cambiamento epocale in atto dall’inizio del secolo, forse il suo modo schizofrenico di fare politica ha accelerato la rottura degli equilibri del passato, ma non è stato certo lui o la sua amministrazione a cambiare il mondo.
La transizione è frutto della globalizzazione, della trasformazione epocale del moderno capitalismo ormai inarrestabile e con la quale bisogna imparare a convivere. Ed ecco i punti chiave, i confini della guerra fredda in 3D.
A livello politico il mondo ha metabolizzato il nazionalismo spocchioso di Trump, si pensi a paesi come la Polonia o l’Ungheria, ma anche al Regno Unito della Brexit; il mondo ha anche imparato a non fidarsi degli Stati Uniti ed a guardare a Washington non più come un ombrello protettivo ma come una nazione tra molte altre, anche se ancora grande ed importante. In questo contesto Pechino ha smesso di evitare qualsiasi confronto con Washington per paura di pestare i piedi alla superpotenza e ha iniziato a tessere una politica estera in aperta opposizione all’amministrazione Trump, si pensi all’accordo recente con l’Iran.

Cosa propone Biden? Un ritorno al passato di Obama, che in politica estera non è stato affatto glorioso, e a quello ancora più remoto dell’amministrazione Clinton. Così l’amministrazione Biden si opporrà all’annessione da parte di Israele del 30% della West Bank, ri-confirmerà gli accordi nucleari del 2015 con l’Iran, che Trump ha abbandonato nel 2018, purché Teheran faccia quanto promesso, e avrà un atteggiamento più scettico nei confronti di Putin. Tutte proposte interessanti ma che serviranno a ben poco per frenare le trasformazioni geopolitiche in atto, per rilanciare il primato degli Stati Uniti o garantire un equilibrio mondiale.
Sul piano economico il mondo ha capito che la dipendenza dal dollaro quale moneta di scambio internazionale è pericolosa perché condiziona il commercio internazionale e i tassi di cambio ai bisogni del tesoro americano. L’Unione Europea ha persino iniziato a studiare meccanismi per sostituire nelle transazioni internazionali il dollaro con l’euro. Biden, lo sappiamo, è ben visto a Wall Street, ciò significa che continuerà la politica monetaria di Trump, pompando liquidità dovunque scarseggi.
Anche in materia di ambiente l’assicurazione che una vittoria di Biden farà tornare Washington tra i sottoscrittori dell’accordo sul clima di Parigi è poca cosa, tutti sanno che per salvare il pianeta dai cambiamenti climatici ci vuole ben altro.
Morale: con o senza una rielezione di Trump il declino degli Stati Uniti è inarrestabile, come fu per l’Unione Sovietica il viale del tramonto sarà lungo e passerà attraverso cambiamenti epocali, incomprensibili a una classe politica ferma ai tempi d’oro della supremazia americana.

domenica 12 luglio 2020

Il lavoro nero è diffuso dappertutto, ma tra Nord e Sud ha un peso diverso

Fonte: Il Fatto Quotidiano Lavoce.info
Dal punto di vista dei numeri, la diffusione del lavoro nero non è poi molto diversa tra Nord e Sud. Ma nel Mezzogiorno è probabile che i lavoratori irregolari siano i soli occupati in famiglia, mentre non è così nelle regioni settentrionali
L’occupazione irregolare in Italia: le tendenze
La discussione sulle misure per sostenere le famiglie che la pandemia Covid19 ha privato di ogni reddito da lavoro ha riproposto la questione dell’occupazione irregolare, che era scomparsa dal dibattito pubblico dopo i tentativi di favorirne l’emersione nei primi anni Duemila. Con la chiusura forzata di quasi tutte le attività economiche si è scoperto che il reddito di cittadinanza non sarebbe stato sufficiente a coprire tutte le situazioni di grave disagio causato dalla perdita del lavoro, perché non pochi occupati irregolari non ne avevano fatto domanda, per il timore di subire gravi sanzioni in caso fossero stati scoperti.
L’“invenzione” del reddito di emergenza nel “decreto Rilancio” è stata spiegata soprattutto così. E anche in questa occasione si è detto che le regioni meridionali sarebbero state le più interessate dalla nuova misura.
Ma è proprio vero che l’occupazione non regolare è più diffusa nel Mezzogiorno?
Da oltre 20 anni l’Istat stima nelle statistiche di contabilità nazionale anche gli occupati non regolari, la cui prestazione lavorativa è svolta senza il rispetto della normativa in materia lavoristica, fiscale e contributiva. I criteri di stima sono cambiati più volte, ma pur con qualche approssimazione è possibile delineare le tendenze del tasso di irregolarità dell’occupazione, nel complesso e per grandi settori.
Come mostra la figura 1, la percentuale di occupazione irregolare dal 1995 al 2017 presenta un leggero andamento a U, con un brusco calo dal 2001 al 2003, dovuto alla più grande sanatoria degli immigrati irregolari, e una ripresa dal 2009 negli anni della grande recessione. Sia pure in modi e tempi diversi, anche i tassi di irregolarità dei quattro grandi settori presentano un andamento simile. Ma la ripresa del lavoro nero non ha suscitato grande attenzione, benché l’Italia sia, con Spagna e Grecia, il paese dell’Europa occidentale con il tasso di irregolarità di gran lunga più alto.

Dal tasso di irregolarità al tasso di occupazione irregolare
Il tasso di irregolarità, cioè la percentuale di occupazione non regolare sul totale, è utilizzato dall’Istat anche per rilevare le differenze territoriali. Come mostra la figura 2, il tasso di irregolarità per il 2017, ultimo anno disponibile, varia da valori pari o inferiori al 10% per cinque regioni settentrionali su sei, sino a valori pari o superiori al 15% per tutte le regioni meridionali, con una punta intorno al 20% per Calabria e Sicilia. Alle differenze territoriali nel tasso di disoccupazione, le più ampie tra i paesi europei, sembra si aggiungano forti differenze nella consistenza del lavoro non regolare.

..... il resto di seguito a questo link sul fatto Quotidiano

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