venerdì 28 settembre 2018

Krugman contro Bernanke: due visioni a confronto sulla crisi del 2008

Fonte: W.S.I. 24 settembre 2018, di Alberto Battaglia

A dieci anni dal fallimento della Lehman Brothers, divenuto emblema della Grande Recessione, il dibattito fra gli economisti ha ripreso fiato nel tentativo di spiegare, una volta di più, perché un simile evento si sia verificato. E, soprattutto, perché i suoi effetti sono stati così persistenti.

Su quest’ultimo punto si sono confrontati a distanza il premio Nobel per l’economia Paul Krugman e l’ex presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, all’epoca dei fatti all’apice della politica monetaria americana.

In sintesi, Krugman attribuisce alla persistenza della crisi del 2008 un insufficiente stimolo della politica fiscale, ovvero dell’aumento della spesa pubblica, che non avrebbe sostenuto adeguatamente la ripresa. Dal canto suo Bernanke, pur non negando l’importanza dell’intervento dello stato, sostiene che la scarsa resilienza delle banche di fronte al crollo dei prezzi immobiliari ha comportato un aggravamento determinate delle condizioni del credito tale da spingere famiglie e imprese a tirare la cinghia – e ha rallentare a lungo l’economia.
Così Krugman:
“Cosa avremmo dovuto fare per raggiungere una ripresa più veloce? La spesa privata era depressa; la politica monetaria era inefficace perché eravamo al limite inferiore dei tassi di interesse. Quindi avevamo bisogno di espansione fiscale, una combinazione di spesa e tagli alle tasse”, scrive Krugman sul New York Times, imputando le responsabilità anche ai Repubblicani che allora ostacolarono politiche espansive più audaci. “Il risultato finale fu che la politica si mosse rapidamente e in modo abbastanza efficace per salvare le banche, e poi voltò le spalle alla disoccupazione di massa. E’ una storia triste e odiosa. E ci sono tutte le ragioni per credere che se avremo un’altra crisi, accadrà di nuovo”, conclude l’economista.
L’argomento di Krugman, in precedenza è stato condiviso da un altro premio Nobel, Joseph Stiglitz, che in questi giorni ha commentato la crisi del 2008 mettendo l’accento su questioni analoghe e dibattendo a distanza con un altro peso massimo fra gli economisti americani, Larry Summers.
L’argomento di Bernanke, frutto di un nuovo paper, mette al centro i limiti del sistema finanziario.
“Perché la Grande Recessione è stata così profonda? Certamente, il crollo della bolla immobiliare è stato il principale evento scatenante; i prezzi delle case in calo hanno depresso la ricchezza e la spesa dei consumatori e hanno portato a forti riduzioni dell’edilizia residenziale. Tuttavia l’aspetto più dannoso della bolla è stato il fatto che alla fine ha provocato un panico finanziario generalizzato”, scrive Bernanke sul sito della Brookings Institution, un panico che sarebbe stato più contenuto “se il sistema finanziario fosse stato abbastanza forte da assorbire il crollo della bolla immobiliare”.
L’ex numero uno della Fed entra nel dettaglio spiegando che “nel mezzo del panico, qualsiasi azienda che si affida al credito per finanziare le sue operazioni o che potrebbe aver bisogno di credito nel prossimo futuro dovrà affrontare forti incentivi verso il risparmio di denaro e aumentare le riserve precauzionali. Per molte aziende, il modo più rapido per tagliare i costi è licenziare i lavoratori, piuttosto che accaparrarsi manodopera e accrescere le scorte di fronte al rallentamento della domanda, come normalmente farebbero. (…) I lavoratori, a loro volta, essendo stati licenziati o sapendo che potevano esserlo, e in condizioni di mancanza di accesso al credito, hanno parimenti avuto tutti gli incentivi nella riduzione della spesa e verso l’accumulo di riserve di liquidità”.
Dal 2008 a oggi gli interventi di rafforzamento del sistema bancario sono stati sicuramente al centro dell’attenzione dei policy maker – anche se è difficile dire se ciò sia stato fatto a sufficienza.

martedì 25 settembre 2018

Legge di bilancio italiana darà spinta ai nazionalisti alle europee 2019

Fonte: Wall Street Italia 25 settembre 2018, di Alessandra Caparello

La legge di bilancio è uno degli appuntamenti più attesi per gli investitori e potrebbe rivelarsi la spinta fondamentale per i partiti nazionalisti alle prossime elezioni europee. Così alla Cnbc Stephen C. Gallo, responsabile europeo della strategia forex presso la Bank of Montreal. Vi sono ampie preoccupazioni sul fatto che il governo italiano presenterà una legge di bilancio che potrebbe superare il tetto del deficit ma in realtà le conseguenze potrebbero essere più ampie dice l’analista.
“Credo che il risultato del bilancio italiano fornirà una spinta ai nazionalisti di tutta l’Ue per le elezioni parlamentari del prossimo anno a maggio (…) Sto già guardando al 2019 e alle elezioni parlamentari europee, e a prescindere da come procedono i negoziati sul budget italiano, penso che Bruxelles uscirà con un aspetto peggiore di quanto non abbia già”.
I bilanci nazionali sono determinati singolarmente da ogni stato membro, ma la Commissione europea li analizza individualmente e stabilisce se rispetta il suo regolamento fiscale. Tuttavia, la Commissione europea ha precedentemente dimostrato che esiste un margine di manovra nel modo in cui le regole fiscali vengono applicate. Ciò significa che o Bruxelles criticherà il piano italiano per l’aumento della spesa pubblica o approverà un “percorso fiscale più flessibile” per l’economia italiana ma in ogni caso ne uscirà con le ossa rotte in un certo senso.
“Se la Commissione approverà un percorso fiscale più flessibile per l’Italia e il governo italiano sarà in grado di fornire una prospettiva di crescita migliore per il paese nel medio termine, sarà una cosa negativa per Bruxelles perché molte persone si chiederanno perché la Commissione non ha permesso ad altri paesi di deviare dal regime fiscale prima al fine di migliorare la crescita”.
I cittadini europei voteranno la prossima primavera sui nuovi parlamentari europei. Questa elezione si rivelerà fondamentale per il futuro dell’Europa e per i mercati finanziari, visto lo spostamento al potere dei recenti voti nazionali. L’Italia, la Francia, la Germania e i Paesi Bassi sono alcuni dei paesi in cui gli elettori hanno mostrato un crescente sostegno ai movimenti nazionalisti e ai partiti populisti.
“L’equilibrio dei poteri si sta spostando dai centristi e dai federalisti europei verso i nazionalisti, e questo processo ha potenzialmente enormi implicazioni per il blocco”.
Altri analisti sostengono che ci sono diversi fattori che influenzano il voto del prossimo anno e tra questi non c’è l’Italia come afferma Erik Nielsen, capo economista di UniCredit.
“Non sono sicuro che ci sia una chiara connessione tra il bilancio italiano del 2019 e il risultato elettorale dell’Unione europea, visto che ci sono così tante variabili in quest’ultimo caso che potrebbero mettere in ombra le questioni del bilancio italiano“.

lunedì 24 settembre 2018

La Francia dà il via a un maxi-taglio delle tasse: “Deficit-Pil al 2,8%”....

Fonte: Il Fatto Quotidiano di | 24 settembre 2018

Il governo della Francia prevede per l’anno prossimo un taglio delle tasse pari a 24,8 miliardi di euro, nel tentativo di dare impulso all’economia e creare più posti di lavoro. Per finanziare la misura, il deficit pubblico del Paese dovrebbe aumentare dal 2,6 per cento del Pil di quest’anno al 2,8 per cento l’anno prossimo, comunque sotto al 3 per cento. Le misure per il 2019 sono basate su una previsione di crescita stimata all’1,7 per cento. Nel dettaglio, le tasse sulle famiglie saranno ridotte di 6 miliardi di euro, quelle alle aziende di 18,8 miliardi. Sono tutte cifre presentate dai due ministri competenti, quello del Bilancio Gérald Darmanin e quello delle Finanze Bruno Le Maire. La prosperità, sottolinea Le Maire, “non deve basarsi su maggiore spesa pubblica, più debito e più imposte”. L’alleggerimento fiscale, infatti, ha rivendicato il presidente della Repubblica Emmanuel Macron, pur in presenza di un aumento del prezzo dei carburanti, sarà “il più consistente” degli ultimi dieci anni.
Un’iniziativa che ha suscitato, dopo pochi minuti, la reazione del vicepresidente del Consiglio italiano Luigi Di Maio. “La Francia – twitta il ministro per lo Sviluppo – per finanziare la sua manovra economica farà un deficit del 2,8 per cento. Siamo un Paese sovrano esattamente come la Francia. I soldi ci sono e si possono finalmente spendere a favore dei cittadini. In Italia come in Francia”. E’ la linea già annunciata e ripetuta più volte dal ministro M5s, fino a stamani, in un’intervista al Fatto Quotidiano: “Reddito di cittadinanza facendo deficit”. Vale la pena ricordare, peraltro, che le “cartelle cliniche” di Francia e Italia sono diverse: il rapporto tra deficit e Pil, per esempio, in Italia è al 133 per cento, mentre in Francia è al 97; lo spread tra buoni del tesoro francesi e tedeschi è poco sopra quota 30 contro l’indice di circa 240 del differenziale italiano.
Per i Cinquestelle, tuttavia, “da Monti in poi le manovre di austerity hanno fatto aumentare il debito pubblico italiano di 300 miliardi di euro, esattamente quello che non voleva l’Europa” come dice il capogruppo al Senato Stefano Patuanelli. Ecco perché serve quella che il parlamentare grillino definisce “Manovra del popolo” per utilizzare “anche le spese in deficit, non certo per violare i parametri Ue, ma per dare una boccata d’ossigeno ai cittadini più in difficoltà”.
In questa battaglia il governo italiano è unito, nonostante una “guerra di numeri”. Più precisamente, di uno solo, quello del rapporto deficit-Pil: Di Maio punta al 2 per cento, il ministro dell’Economia Giovanni Tria vorrebbe fermarsi all’1,6. Ma questa cifra, sottolinea il presidente della commissione Bilancio della Camera Claudio Borghi (leghista) non è mai uscito dalle labbra di Tria: “Io non ho mai sentito dire a Tria il numero 1,6” dice Borghi a Circo Massimo, su Radio Capital.
Quel numero, secondo Borghi, dovrebbe salire al 2,5: “Stiamo confondendo il numero del Def con la legge di bilancio, l’ex post con l’ex ante. Secondo me, ex ante, un numero vicino al 2,5 porterà come risultato una percentuale più bassa”, spiega Borghi. “Se mettendo un po’ di denaro in circolo aumenterà la crescita, e quindi il Pil, ex post il rapporto deficit-Pil sarà più basso. Con il 2,5 e una credibile politica di crescita, i mercati resteranno tranquilli”. Il resposabile economico della Lega poi nega che con l’aumento del debito lo spread tornerebbe a 500 punti: “Secondo me non c’è alcuna relazione fra debito e spread. I primi paesi che ebbero a che fare con lo spread nel 2011, come Irlanda e Spagna, non avevano debito”.

di | 24 settembre 2018

domenica 23 settembre 2018

La sanità italiana è quarta nel mondo per efficienza. Ma è più utile denigrarla

Fonte: Il Fatto Quotidiano Cronaca | 21 settembre 2018  

E’ stata pubblicata da qualche giorno la classifica di Bloomberg sull’efficienza dei servizi sanitari nazionali del 2018: l’Italia ottiene un risultato eccellente, risultando quarta classificata dopo Hong Kong, Singapore e Spagna. Fatta la doverosa premessa che queste classifiche vanno considerate con una certa cautela perché basate su parametri che offrono una visione parziale ed incompleta di strutture molto complesse, il risultato è comunque interessante. Infatti la classifica di Bloomberg si propone di misurare l’efficienza, piuttosto che la qualità assoluta dei servizi sanitari, e valuta il rapporto tra risultati ottenuti e costi. Non sorprendentemente, quindi, si classificano male alcuni servizi sanitari eccellenti ma costosi come quello tedesco (al 45° posto) o danese (al 41° posto). Va malissimo il costosissimo servizio sanitario Usa, quasi esclusivamente privato (al 54° posto).
In una classifica di efficienza, come quella di Bloomberg, gli sprechi sono molto penalizzanti. Evidentemente la sanità italiana utilizza bene le scarse risorse messe a disposizione dalla politica del paese (2.700 US$ all’anno per abitante: la metà della Danimarca e meno di un terzo degli Usa).
Ciononostante, molti italiani ritengono che la sanità pubblica, e in genere i servizi pubblici, siano il regno dello spreco e del malaffare: c’è una discrepanza tra ciò che gli italiani ricevono dallo Stato e ciò che ritengono di ricevere, tra ciò che pagano e ciò che credono di pagare. Il perché di questa discrepanza è materia di indagine per la psicologia sociale. Io avanzo una ipotesi: c’è un interesse della politica, soprattutto da parte dei partiti che non si trovano in quel momento al governo, a presentare lo stato dei servizi nella maniera peggiore. E’ ovvio infatti che se si riesce a far credere all’elettore che i servizi che riceve sono pessimi, se ne può anche promettere un più consistente miglioramento.
Il risultato è facile da conseguire: basta ignorare i confronti oggettivi, come la classifica di Bloomberg o altre analoghe, se non congruenti col messaggio che si intende dare, e indurre l’elettore a confrontare la realtà di ogni giorno con i suoi sogni più sfrenati. La realtà perderà sempre. Ovviamente questa strategia propagandistica è miope: costruisce consenso immediato, ma crea aspettative irrealizzabili, perché la sanità italiana ha molto meno spazio per migliorare di quanto non ne abbia per peggiorare. Dopo tutto l’Italia nella classifica di Bloomberg può salire, al massimo, di tre posizioni e scendere di oltre 50.
La denigrazione dei servizi pubblici, inoltre, getta discredito sui partiti in quel momento al governo. Il discredito è carburante della propaganda politica di opposizione: si realizza una campagna basata sull’odio, sul disprezzo e sul Vaffa Day e si gratifica l’insofferenza del cittadino nei confronti dell’istituzione e del potere, a tutti i livelli, dall’operatore al dirigente, fino al ministro. Consegue che citare le statistiche e le valutazioni indipendenti sui servizi significa opporsi alla propaganda politica corrente e fare cultura politica. Qualcosa di cui il paese oggi ha estremo bisogno.
Cronaca | 21 settembre 2018

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