venerdì 2 marzo 2018

ACQUA - La guerra è cominciata. nel nome della globalizzazione, in ogni angolo del mondo.

Fonte: il sapere è potere

Di Alessandro Taballione - Scuola di Giornalismo RadioTelevisivo Perugia www.sgrtv.it


La guerra è cominciata. nel nome della globalizzazione, in ogni angolo del mondo.
Le multinazionali hanno fiutato il business del nuovo secolo: le risorse idriche del mondo scarseggiano e sono mal distribuite. Quindi l'acqua sta diventando un bene prezioso.
Come il petrolio. E chi lo controllerà avrà potere e profitto. Parole d'oro per le multinazionali. Che non hanno perso tempo. E hanno sferrato il loro attacco. Scatenando una battaglia tra giganti, che calpestano, quasi fossero fastidiosi moscerini, diritti ed esseri umani.

La posta in gioco
Dal controllo sulle acque minerali alla battaglia per la gestione degli acquedotti, dalla costruzioni di dighe alla privatizzazione dei bacini idrici. Quella per l'acqua è una guerra discreta, che non si combatte con gli eserciti, che non si alimenta del fragore delle bombe, ma si decide nelle stanze silenziose di pochi grattacieli. Quelli del FMI (Fondo Monetario Internazionale), del WTO (OMC: Organizzazione Mondiale del Commercio), della Banca Mondiale e delle multinazionali.

La dichiarazione di guerra 
Lo scontro è aperto e la dichiarazione di guerra ha una data ed un luogo precisi: 2000, l'Aja, 17-22 marzo, data del 2° Forum mondiale sull'acqua. Voluto dal Consiglio mondiale sull'acqua, un organismo nato nel 1994 su iniziativa della banca mondiale, il Forum ha affrontato il problema delle risorse idriche, trovando una soluzione "globale". L'acqua cambia status: da diritto umano(svincolato dalle leggi di mercato) diventa un bisogno umano, che quindi può essere regolato dalle leggi della domanda e dell'offerta. Dal mercato. Quindi la parola d'ordine è privatizzare.
La dichiarazione di guerra.
I giganti che si contendono di privatizzare il nascente mercato dell'acqua sono soprattutto europei: le aziende francesi Vivendi e Suez-Lyonnais des Eux (ora Ondeo), la tedesca RWE. E poi i colossi Nestlé e Danone, l'americana Coca Cola. Ma anche l'italianissima ACEA concorre alla spartizione della torta: le bollette che pagano i cittadini di Erevan, capitale dell'Armenia, finiscono nelle casse del Comune di Roma, titolare del 51% delle azioni dell'ACEA, che gestisce l'acquedotto locale.

Le vittime senza colpe
Questa concorrenza spietata si sta sviluppando soprattutto nel sud del mondo, nei paesi dell'America Latina e dell'Africa, ma non solo.
Giacarta, Manila, Casablanca, Dakar, Nairobi, La Paz, Città del Messico e Buenos Aires, sono soltanto alcune delle città in cui l'acqua adesso è privatizzata. Ma non c'è da stupirsi: in Inghilterra, la privatizzazione dell'acqua è stata introdotta dal 1989 e le imprese Thames Water e Seven-Trent che la gestiscono, operano a livello internazionale da molto tempo. In Francia, dove la privatizzazione è vista come delega del servizio pubblico, si è avuto un aumento medio del prezzo dell'acqua del 50%, a Parigi in particolare del 54%. Con trovate anche bizzarre: l'estate scorsa nella capitale francese, la "cloud water", l'acqua delle nuvole veniva venduta a 35 franchi alla bottiglia.
Nel frattempo la Danone ha acquistato la gestione di tre sorgenti: una in Indonesia una in Cina e negli Stati Uniti. la Nestlè ha cominciato a commercializzare un'acqua "purificata" in Pakistan.

Il lato oscuro della globalizzazione
Questo tipo di sviluppo è sostenuto dagli organismi economici mondiali. In alcuni casi il Fondo Monetario internazionale e la Banca Mondiale hanno subordinato la concessione di prestiti a paesi poveri in cambio della gestione dei servizi idrici a società private estere. Casi del genere si sono avuti in Bolivia, a Cochabamba, a Manila nelle Filippine, in Cina. Sarebbe a dire: "noi vi diamo i soldi, ed in cambio ci prendiamo solamente la gestione, esclusiva, della risorsa più importante per vivere".
Qualcuno lo chiamerebbe ricatto. Ma è "solo" il lato più sporco della globalizzazione.
Anzi, per la precisione, di questa globalizzazione.

giovedì 1 marzo 2018

Mercati temono solo un esito: asse anti europeista M5S – Lega

Fonte: WSI 1 marzo 2018, di Marco Piersimoni (Pictet AM)

Solo la creazione di un asse anti europeista con la saldatura tra M5S e Lega potrebbe generare instabilità. Ma a mettere sotto pressione gli spread dei periferici potrebbe essere, proprio il 4 marzo, il mancato via libera alla formazione del governo di Berlino.
01 Marzo 2018 – Il termometro finanziario più accurato per misurare il rischio politico italiano, ossia il livello dello spread BTP-Bund, non segnala preoccupazione da parte degli investitori per l’esito elettorale. Il mercato ha una sua razionalità: tutti gli ultimi appuntamenti politici, anche quelli che si sono conclusi con esiti teoricamente poco graditi ai mercati (referendum italiano), non hanno avuto impatti. La pazienza dei mercati potrebbe essere messa alla prova dal fattore tempo: di fronte ad un esito incerto, ossia con un parlamento non in grado di esprimere una maggioranza chiara, quanto ci vorrà per formare un governo? Saranno necessarie nuove elezioni? Alla Germania i mercati hanno lasciato un beneficio a tempo indefinito, mentre per l’Italia non si potrà contare su tanta condiscendenza.
Un primo punto importante: le differenze rispetto alle elezioni presidenziali in Francia di un anno fa sono enormi. Il risultato non sarà interpretato come un voto di fiducia sull’Europa. Le motivazioni sono molteplici: è diversa l’architettura istituzionale, è diverso il contesto economico (notevolmente migliorato in tutta Europa) e questo induce gli investitori istituzionali ad essere più ottimisti. Lo spread Btp-Bund resta inoltre uno dei differenziali di rendimento più generosi: a fronte di 130bp del decennale italiano, un bond governativo spagnolo o irlandese offrono rispettivamente 80 e 40 punti base.
Analizziamo dunque di seguito in quale misura il differenziale dei rendimenti tra titoli di Stato italiani e tedeschi potrebbe variare in base ai diversi scenari politici che si profilano all’indomani delle elezioni. Basiamo le nostre ipotesi esclusivamente sui risultati degli ultimi sondaggi pubblicati il 16 febbraio, prima del silenzio elettorale, secondo cui il M5S con il 28% delle preferenze si configurava come il primo partito italiano, seguito da Forza Italia al 17% e dalla Lega al 14%; la coalizione di centrosinistra raccoglieva invece circa il 25% delle intenzioni di voto.
Tuttavia, con una quota di indecisi che si aggirava intorno al 20% e poco meno dei due terzi dei seggi che verranno assegnati con un complesso modello proporzionale, persistono alcuni elementi di incertezza che vale la pena non sottovalutare.

Gli scenari possibili, considerando i dati a nostra disposizione, sono tre:
L’ipotesi più probabile (circa il 60%) è la vittoria delle elezioni del centro – destra ma senza una maggioranza in parlamento in grado di esprimere un governo. Questa impone delle alleanze politiche trasversali di compromesso. La prima coalizione possibile in questo contesto include Forza Italia, PD e +Europa (il partito di Emma Bonino), con il reclutamento degli eventuali voti mancanti tra l’ala più moderata della Lega, tra i delusi del M5S e tra gli eletti all’estero. Questa intesa, che potrebbe essere guidata da Gentiloni o da Tajani, non sarebbe una soluzione invisa all’Europa e dunque non avrebbe impatto negativo sull’andamento dei mercati. Anzi, una volta formato il governo, lo spread potrebbe portarsi verso quota 100. Il problema tuttavia potrebbe manifestarsi nel processo di formazione del governo stesso, processo per il quale Roma non può permettersi il lusso del tempo di cui ha goduto Berlino. Pertanto, movimenti erratici nelle fasi immediatamente successive al voto per poi convergere verso un livello di spread minore.
La seconda ipotesi (circa 30%) è la vittoria del centro-destra con i numeri per fare un governo. In questo scenario il dato dirimente risulta senza dubbio quello relativo al partito che raccoglierà la maggioranza relativa all’interno della coalizione. Se dovesse prevalere Forza Italia, il primo ministro designato dovrebbe essere Tajani. Un tale esito sarebbe visto dunque nel segno della stabilità: immaginiamo che lo spread Btp-Bund si muoverà poco. Da un lato, il mercato accoglierà con favore il profilo fortemente Europeista del premier; in secondo luogo, il programma fiscale del centrodestra è espansivo, pur facendo la dovuta tara alle promesse elettorali. Esiste in alternativa la possibilità che il maggior numero di preferenze sia a favore della Lega con Matteo Salvini premier: questo risultato ci porterebbe in uno scenario meno gradito ai mercati che potrebbe creare un certo grado di instabilità, con spread in salita di almeno 30/40 punti base. Si tratterebbe in ogni caso di un governo che non potrebbe sposare la piattaforma della Lega sui temi europei, bensì che dovrebbe accontentarsi di muoversi nei binari di un programma ammorbidito sulle posizioni del partito di Berlusconi che è comunque considerato un garante della tenuta europeista dell’Italia.
Esistono poi probabilità inferiori per tutta una serie di scenari alternativi (in totale non più del 10%), alcuni dei quali inverosimili ma che potrebbero turbare i mercati semplicemente aritmeticamente possibili. Tra questi, la possibile coalizione tra M5S, PD e LeU. Questo scenario non rappresenta un rischio anti-Europeista, ma si baserebbe su un programma di politica fiscale molto espansiva. Sarebbe anche grossa una sorpresa cui il mercato non è preparato, con possibile allargamento dello spread di circa 30 punti base. Certo, un’ipotesi remota, che richiederebbe il compiersi di significative giravolte politiche: il cambio di rotta del Movimento rispetto all’idea originale di non allearsi con un partito, il sacrificio di Matteo Renzi come leader PD. Infine, con probabilità inferiore al 5%, la creazione di un asse anti-europeista con i 5S che trovano l’accordo di governo a destra con Lega e Fratelli d’Italia. Questo è l’esito più pericoloso, che potrebbe portare lo spread sopra quota 200.
Infine, l’appuntamento elettorale italiano rischia di essere oscurato, dal punto di osservazione dei mercati, da un altro evento politico. Ovvero il referendum interno alla Spd con cui il partito socialista tedesco si esprimerà su un nuovo governo di Große Koalition con i cristiano democratici di Angela Merkell. Secondo gli ultimi sondaggi, la possibilità di un No sono del 25-30%. In questo caso, i previsti passi di integrazione europea sul tema dell’unione bancaria subiranno una grossa frenata: per spread e listini della periferia non sarà di certo una buona notizia. Va però detto che, se gli esiti del voto italiano e tedesco rispettano i pronostici suesposti, si apre una possibilità concreta – e con la Francia di Macron crediamo accompagnata da volontà politica – di riprendere il percorso di integrazione della Moneta Unica, migliorandone la governance a partire dal completamento dell’Unione Bancaria.

mercoledì 28 febbraio 2018

Dopo la Cina anche Giappone inizia a vendere Bond Usa

Fonte: WSI 28 febbraio 2018, di Livia Liberatore

Nelle ultime tre settimane, gli investitori giapponesi hanno venduto titoli del Tesoro Usa e altre obbligazioni in dollari. A spingere verso questa direzione è la paura che il bilancio dell’amministrazione di Donald Trump e le altre politiche del presidente stiano puntando a un dollaro debole. Gli investitori e il governo del Giappone possiedono oggi quasi 1100 miliardi di dollari in Treasuries Usa ma questa cifra potrebbe risultare ridotta al prossimo conteggio.
Masahiro Kawagishi, Chief Investment Officer di Fixed Head di Nomura Asset Management, ha affermato che lui e il suo team hanno trasferito fondi da attività denominate in dollari a titoli di debito in India, Malesia e altre economie emergenti. Kawagishi sostiene che “un portafoglio centrato sul dollaro non è solido”, considerando che “l’avvento dell’amministrazione Trump sta causando preoccupazioni sul fatto che il dollaro potrebbe non essere più la stessa valuta chiave di prima”.
I dati del Ministero delle Finanze citati dal Wall Street Journal non suddividono le attività per Paese, ma secondo il giornale è una scommessa sicura ritenere che la maggior parte dei 19,6 miliardi di dollari netti di titoli di debito internazionali venduti siano denominati in dollari. Anche il movimento nel cambio USD / JPY e dei Treasuries nelle scorse tre settimane suggerisce questo. L’analisi va oltre e cita altri investitori preoccupati per il budget degli Stati Uniti e il deficit commerciale dell’economia.
Ma secondo il Wsj non esiste una alternativa analoga e la diversificazione al di fuori delle partecipazioni denominate in dollari non potrà andare così lontano. A gennaio 2018, una fonte anonima di Pechino sentita da Bloomberg aveva detto che la Cina stava valutando di rivedere la sua politica di gestione delle riserve valutarie, riducendo l’ammontare dei bond USA detenuti, anche per reagire alla politica dell’amministrazione Trump. Nel rapporto finanziario annuale del 2017 il Tesoro Usa ha dichiarato una perdita di bilancio di 1200 miliardi nell’anno.

martedì 27 febbraio 2018

Tav, non c’erano ragioni per sostenere anni di lavori. Ma allora perché li abbiamo iniziati?

Fonte: Il Fatto Quotidiano di Antonio Calafati Ambiente & Veleni | 27 febbraio 2018
Della vicenda della Tav in Val di Susa ciò che colpisce è la sua capacità di far perdere ad analisti, giornalisti e politici il filo di un pensare razionale. In una società – e in un tempo – che del calcolo razionale ha fatto il suo ancoraggio, la Tav in Val di Susa è una decisione collettiva che i suoi promotori hanno collocato in uno spazio nel quale la logica e l’evidenza empirica non trovano posto. Chi si oppone alla realizzazione dell’opera ha le sue ragioni e le ha rappresentate con un movimento che ha assunto un rilievo politico forte. Da quando nel 2006 scrissi un piccolo libro sul tema (Dove sono le ragioni del sì? La Tav in Val di Susa nella società della conoscenza, Torino, Seb 27, 2006) il mio interesse maggiore è però andato alle “ragioni del sì”: come argomentano la loro posizione coloro che sono favorevoli all’opera?
Ciò che mi affascina di questa vicenda è come sia possibile che la realizzazione dell’opera sia giustificata con argomentazioni contraddittorie e senza alcun fondamento empirico, con un pensiero che viola ogni elementare principio di razionalità collettiva. Come sia possibile che l’opinione pubblica non si accorga che chi sostiene l’opera non ha ragioni razionali per farlo. Un incantesimo che dura da oltre un decennio, un mistero.
Il crescendo di stupore con il quale ho seguito questa vicenda leggendo nell’autunno del 2005 leggevo i tre maggiori quotidiani italiani (Il Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa) è diventato a un certo punto rassegnazione. Avevo letto incredulo che gli ingenti costi sociali che l’opera, per consenso unanime, avrebbe comportato nella fase di realizzazione e di attività erano banali “servitù”. Avevo letto sgomento che l’opera bisognava farla perché era “cosa buona e giusta”, perché ci permetteva di non perdere “i mercati dei Balcani”, perché era la “Modernità”, perché non farla “era una fiammeggiante rappresentazione del nostro fermarci ai confini”. Avevo letto che la Valutazione di impatto ambientale era una richiesta di isterici che si interessavano alla sorte degli “scorfani maculati”.
Avevo letto – e riportato nel libro – molte altre affermazioni prive di senso logico e valore empirico, affermazioni di commentatori autorevoli che sulla Tav in Val  di Susa si esprimevano come confusi sciamani. E non ho mai capito perché lo hanno fatto. Poi il suggello finale: in un dibattito radiofonico quella che allora era una persona chiave dell’Osservatorio sulla Tav mi contesta dicendo che gli antichi romani tutti questi studi di impatto non li facevano quando decidevano di costruire una strada…
Sono trascorsi molti anni e l’incantesimo non si scioglie. Ora il governo italiano ammette che le previsioni di traffico addotte a sostegno dell’opera – già più volte ri-progettata – sono assurdamente sovrastimate: l’opera sulla  base di queste previsioni non si giustifica. Però, poi aggiunge che l’opera si farà ugualmente. Si inizia un’opera che richiede ingenti risorse economiche, che richiederà anni e anni per essere completata ed entrare in uso sapendo prima di iniziare che nessun calcolo razionale la giustifica? Ma che storia!
Per quanto tempo ancora continuerà l’incantesimo? Che cosa ha questa opera perché l’intenzione di realizzarla sopravviva all’assenza di ragioni per realizzarla? Non è nel potere delle lobby che va cercata la risposta, bensì nei caratteri del dibattito pubblico italiano. Non riusciamo più a mettere a fuoco collettivamente neanche l’assurdità di affermazioni palesemente irragionevoli. Qualche pilastro della nostra democrazia deve aver ceduto.
Il blog Utente Sostenitore ospita i post scritti dai lettori che hanno deciso di contribuire alla crescita de ilfattoquotidiano.it, sottoscrivendo l’abbonamento Sostenitore e diventando membri del Fatto social club. Tra i post inviati Peter Gomez e la redazione selezioneranno quelli ritenuti più interessanti. Questo blog nasce da un’idea dei lettori, continuate a renderlo il vostro spazio. Se vuoi partecipare sottoscrivi un abbonamento volontario. Potrai così anche seguire in diretta streaming la riunione di redazione, mandandoci in tempo reale suggerimenti, notizie e idee, sceglierai le inchieste che verranno realizzate dai nostri giornalisti e avrai accesso all’intero archivio cartaceo.
Ambiente & Veleni | 27 febbraio 2018

lunedì 26 febbraio 2018

Bollette luce: la vera stangata arriverà nel 2019

Fonte: WSI 26 febbraio 2018, di Alessandra Caparello

ROMA (WSI) –  Negli ultimi giorni non si fa altro che parlare delle bollette dei contribuenti morosi che finiranno per essere pagate da tutti ma un’altra novità è dietro l’angolo e rischia di accendere l'ennesima polemica.
Secondo quanto rende noto il Codacons nel 2019 si attende una vera e propria stangata sulle bollette della luce per la fine del mercato tutelato e il passaggio a quello libero.  L’associazione dei consumatori ha calcolato che quest’anno una famiglia media pagherà 68 euro in più per la luce, facendo lievitare il conto annuale da 467 a 535 euro.
Ma con la fine del mercato a maggior tutela e con conseguente mercato libero, con tanto di prezzi decisi delle compagnie, senza che lo Stato possa metterci il becco, il rischio stangata è assicurato dice il Codacons. Ovviamente, visti certi precedenti delle liberalizzazioni, il timore infatti è che la solita conseguenza sarà quella dell’innalzamento dei prezzi.
Inoltre il salasso specie per chi la seconda casa lo si è già visto. Come previsto dalla riforma decisa dell’Autorità per l’energia, la nuova Arera, dal 1° o gennaio dello scorso anno i non residenti devono pagare circa il 20 euro al mese di base, anche senza consumi. In un anno l’aumento per è possessori di seconde case è arrivato fino a 130 euro. Si possono sempre cercare prezzi più bassi sul mercato ma il risparmio che si riuscirà ad ottenere è però ridotto.
Questo perché i costi fissi pesano in media per la metà dell’importo in bolletta , dunque il risparmio possibile è molto contenuto. Senza contare che la libera concorrenza a volte produce un innalzamento verso l’alto dei prezzi piuttosto che una discesa.

domenica 25 febbraio 2018

Facebook e la (dura) legge europea

Fonte: Punto Informatico di Alfonso Maruccia
 Roma - Se oltreoceano i pentiti del social network pensano a iniziative in grado di liberare i giovani dal disturbo ossessivo-compulsivo degli aggiornamenti di stato e delle chat tra "amici", in Europa le autorità pensano piuttosto a condannare il più esteso business della socialità telematica per il mancato rispetto della privacy e delle leggi locali.

È successo ad esempio in Germania, dove la settimana scorsa una corte ha dato ragione all'associazione dei consumatori Verbraucherzentrale Bundesverband (vzbv) nella sua contesa legale contro Facebook. Motivo del contendere: il mancato consenso dell'utente sulle pratiche di raccolta dei dati.

Per vzbv - e quindi per il giudice che ha dato ragione all'associazione - Facebook non ha fatto abbastanza per informare gli utenti in merito alle opzioni sulla privacy abilitate di default nella app mobile ufficiale, potendo ad esempio tracciare la location dell'utente (comunicandola all'interlocutore nelle chat) senza prima chiedere il consenso informato all'operazione.
Ancora più dura è stata poi la sanzione decisa dalla Corte di Bruxelles, in Belgio, in merito a un caso promosso dalla Commissione sulla privacy del paese: Facebook ha raccolto i dati degli utenti e li ha tracciati (tramite pixel invisibili) in maniera illegale, e ora la corporation statunitense dovrà cancellare tutti i dati sulle abitudini di navigazione dei cittadini belgi.

L'alternativa, per il social network, è vedersi comminata una multa da €250.000 al giorno fino a un massimo di €100 milioni. Inutile dirlo, la sentenza è stata accolta con "disappunto" da Facebook mentre il Segretario di Stato Philippe De Backer ha salutato la decisione dei giudici come "una vittoria per la privacy" senza se e senza ma.

Alfonso Maruccia

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