venerdì 5 luglio 2019

Il 10% dei lavoratori riceve metà del reddito globale

Fonte: W.S.I. 5 Luglio 2019, di Mariangela Tessa

Cresce il gap nei salari percepiti dai lavoratori su scala mondiale. Ad accendere i fari sul tema delle diseguaglianze ci pensa una ricerca dell’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) diffusa oggi, dalla quale emerge che il 10% dei lavoratori su scala mondiale riceve quasi la metà delle retribuzioni globali mentre il 20% di coloro che si trovano in fondo alla classifica guadagnano meno dell’1% del reddito da lavoro totale.
Tutto questo avviene mentre la quota di reddito globale dei lavoratori si è ridotta “sostanzialmente” in questo secolo: tra il 2004 e il 2017, periodo preso in considerazione dalla ricerca, in America il reddito globale è sceso di 1,6 punti percentuali, mentre in Europa il calo è stato superiore a 2 punti percentuali.
Ma torniamo alla distribuzione del reddito.  Nel periodo considerato del report ILO, la quota di reddito intascato della classe media, identificata come il 60% del totale dei lavoratori, è scesa al 43% dal 44,8%. Allo stesso tempo, il 20% di coloro che controllano la fetta più grande della torta, hanno aumentato la propria quota media al 53,5% dal 51,4%.
La ricerca riaccende dunque i fari su un tema, quello sulle diseguaglianze, che sta accendendo il dibattito politico nel paesi occidentali. Ray Dalio, fondatore miliardario del più grande hedge fund del mondo, ha definito la disuguaglianza dei redditi negli Stati Uniti una “emergenza nazionale”.

mercoledì 3 luglio 2019

Così avanza il Leviatano stelle e strisce

Fonte: Il Fatto Quotidiano Società | 2 Luglio 2019  
Dopo la soglia epocale del 1989, si è registrato l’avviamento della quarta guerra mondiale, come l’ha battezzata Costanzo Preve. Successiva alla terza (la cosiddetta “Guerra Fredda”), è la guerra che la vincente monarchia talassocratica del dollaro ha dichiarato a chiunque non pieghi al nuovo ordine mondiale, ad esso sottomettendosi docilmente. È, per sua essenza, il bellum permanente che il Leviatano a stelle e strisce ingaggia contro gli oppositori della mondializzazione con capitale a Washington: suddetti oppositori o si rassegnano al loro inedito ruolo di colonie periferiche o terminano le loro esistenze terrene mediante l’intervento degli eserciti del Bene made in Usa.
Figura centrale della nuova mise en forme del conflitto, il nuovo imperialismo etico con democrazia missilistica incorporata, decreta che sono “governi legittimi” sempre e solo quelli che traggono la propria legittimità dal Fondo Monetario Internazionale e non certo dalla volontà politica del popolo sovrano. Santificato dal clero intellettuale composto da assordanti megafoni dell’atlantismo mondialista e neocoloniale, il Leviatano a stelle e strisce sempre di nuovo ricorre alle guerre umanitarie e alle sovversioni colorate per giustificare e nobilitare l’espansionismo neocolonialistico.
Una tale superbia, gravida di irresponsabilità, richiama magneticamente alla mente le parole del Trattato politico (VII, 27) di Spinoza: “La superbia è propria dei dominanti” (dominantibus propria est superbia).
Il pacifismo è, a tutti gli effetti, l’ideologia di giustificazione dell’imperialismo Usa, ossia della santificazione della sola violenza legittima dei dominanti: esso destruttura lo ius resistentiae e il suo fondamento, per cui alla violenza è giusto reagire con la violenza (vim vi repellere licet). Figura, di fatto, come l’introiezione, da parte dei dominati, dell’ordine dominante, che chiede di essere “pacificamente” accettato così com’è, senza sollevazioni e senza spirito di scissione.
In questa luce di neo-colonialismo occultato e incensato come “interventismo umanitario” deve essere letta, tra l’altro, la normalizzazione euro-atlantica delle aree dell’ex Unione Sovietica, nel frattempo sprofondata nell’abisso post-1989.
L’espansione della Nato a Est avvenne per il tramite dell’adesione all’Alleanza atlantica, instrumentum privilegiato dell’imperialismo geopolitico alla mercè degli interessi del cosmomercatismo finanziario della monarchia a stelle e strisce, da parte delle repubbliche ex-sovietiche di Georgia e Ucraina, successivo a quello del 2004 dell’Estonia, della Lettonia e della Lituania. L’obiettivo era, chiaramente, la rioccupazione dello spazio geopolitico post-sovietico, includendo nell’alleanza atlantica la Moldavia, la Georgia e l’Ucraina e sottraendo territori e influenza alla Russia visibilmente depotenziata dopo il 1989.
Mediante le “rivoluzioni colorate” – la nuova forma del golpe postmoderno –, vengono metodicamente rovesciati i governi non allineati e non ancora retti dalla norma della free market democracy.
In seconda battuta, tali aree vengono depredate mediante speculatori d’ogni sorta, presentati sotto la categoria – nobilitante quanto fuorviante – di “investitori stranieri” (o, non di rado, di “filantropi”). Fu, tra l’altro, il caso della Serbia post-1999, grazie alla rivoluzione colorata gestita dal gruppo Otpor (“resistenza”), la srl della rivoluzione, scuola del golpe postmoderno a beneficio del nuovo ordine mondiale. Essa era composta da ammiragli del mondialismo, da alfieri della modernizzazione capitalistica e da araldi del liberalismo cosmopolitico a open mind e open society illimitate. Costoro erano foraggiati a flusso continuo della finanza internazionale e appoggiati ideologicamente a reti unificate dal circo mediatico e dal clero postmoderno (la rete televisiva atlantista MTV in prima fila).
Fu quanto avvenne, ad esempio, con la “rivoluzione delle rose” in Georgia nel 2003, per il tramite di un regime change anti-russo e filo-atlantista. Fu, ancora, quanto si verificò con le cosiddette “primavere arabe”, il cui obiettivo corrispondeva alla dissoluzione dei nazionalismi arabi e all’occidentalizzazione dei Paesi con politica e immaginario non ancora integralmente saturati dalla forma merce .
Società | 2 Luglio 2019

martedì 2 luglio 2019

Gli Italiani? Un popolo in via di estinzione

Fonte: W.S.I. 29 Giugno 2019, di Leopoldo Gasbarro

Ci vorrà qualche tempo ma, a meno che non si prendano delle contromisure, gli italiani sono condannati a sparire. Sembra un assurdo ma questo è quello che emerge dai dati riportati dall’ultima ricerca fatta dall’Istat e che raccoglie tutti gli: “Indicatori Demografici” del nostro Paese (pubblicazione  Febbraio 2019).
Ma andiamo per ordine cercando di riassumere ed approfondire i numeri del report.

Dal 2015 la popolazione italiana ha cominciato a ridursi.
Il saldo naturale nel 2018 è negativo (-187mila), risultando il secondo livello più basso nella storia dopo quello del 2017 (-191mila).
Allo stesso tempo l’età media si è attestata oltre i 46 anni (la più alta in Europa, la seconda più alta al mondo dopo il Giappone) e l’indice di fertilità delle nostre donne è arrivato a 1,32 (cioè ogni donna potenzialmente fertile da alla luce mediamente 1,32 figli nella sua vita) continua a restare troppo basso per pensare ad una possibile inversione di tendenza.

Insomma l’Istat oltre a confermare che la popolazione italiana sta calando di numero ci dice anche che, nell’ultimo anno, è sparita una città delle dimensioni di Brescia.
Inoltre chi resta invecchia sempre di più e, visto che si fanno pochi figli, non ci sarà ricambio generazionale, con tutta una serie di implicazioni anche sulla finanza pubblica, sul welfare e sulla previdenza. Ma soprattutto sulla sopravvivenza della “specie italica”.
L’ Istat nel suo report dice anche altro, soprattutto facendo riferimento alla differenza tra gli attuali cittadini italiani e quelli stranieri residenti in Italia.
La popolazione di cittadinanza italiana scende a 55 milioni 157mila unità (-3,3 per mille). I cittadini stranieri residenti si attestano a 5 milioni 234mila (+17,4 per mille) e oggi rappresentano l’8,7% della popolazione totale nazionale.

La domanda a questo punto nasce spontanea: In quanto tempo la popolazione italiana finirà per esaurirsi? E, soprattutto, entro quanti anni la popolazione straniera, ma residente in italia, supererà quella autoctona del nostro Paese?
Dare risposte non è facile.
Ci si muove in un territorio sconosciuto le cui dinamiche, oltretutto, non sono lineari. Certo è che i numeri del report sono estremamente chiari: o si fa qualcosa o, il nostro popolo, sarà raccontato solo nei libri di storia.
Cosa fare?
Innanzitutto pensare ad una politica che incentivi le nascite.
In Giappone, dove la situazione è peggiore della nostra, gli aiuti fiscali per chi fa figli stanno diventando sempre più importanti e ci sono politiche del lavoro che favoriscono e tutelano sempre di più le mamme. Inoltre stanno richiamando a lavorare persone che erano già andate in pensione proprio per riuscire a far fronte alla mancanza di manodopera e… udite udite stanno favorendo l’immigrazione…
In Italia?
I numeri del report dicono che nel 2018:
Aumentano le immigrazioni, pari a 349mila. I flussi in ingresso, perlopiù dovuti a cittadini stranieri (302mila), hanno toccato il livello più alto degli ultimi sei anni.
Mentre ci concentriamo su quello che accade su un barcone nel Mediterraneo i fenomeni demografici ed i flussi migratori generano effetti di cui nessuno sembra prendere veramente atto.
Ma c’è dell’altro, mentre continuano ad arrivare stranieri, sono gli italiani che continuano ad andar via:
Le emigrazioni, nel 2018 sono state pari a 160mila (+3,1%) unità.
Tra i cittadini italiani continuano a essere più numerose le partenze dei ritorni. Nel 2018 risultano, infatti, 47mila rimpatri e 120mila espatri.
Insomma, qualcosa bisognerà inventarsi e bisognerà farlo in fretta. Altrimenti, tra qualche anno, nelle ricerche su internet, o sui libri e le enciclopedie, se esisteranno ancora, alla voce “Italiani” leggeremo: Popolazione Estinta

lunedì 1 luglio 2019

Perché l’Italia non fallirà e i Btp sono un buon investimento

Fonte: W.S.I. 1 Luglio 2019, di Alessandro Piu

Lo spread tra Bund e Btp si è ridotto nel corso dell’ultimo mese. Se dovesse tornare a salire i titoli di Stato italiani diventerebbero un’ottima opportunità di investimento
L’Italia non farà mai default, pagherà sempre i suoi debiti”.
Sono parole rincuoranti quelle pronunciate da Ludovic Colin, responsabile Flexible Bond di Vontobel, nel corso di un incontro con i giornalisti tenutosi a Zurigo. Non sono però sufficienti a evitare il batticuore che prende agli investitori quando i titoli di Stato italiani cadono preda delle impennate dello spread.
Attualmente il differenziale tra i tassi di interesse del bund decennale tedesco e quelli del Btp italiano con lo stesso orizzonte temporale si attesta in area 240 punti, circa 40 in meno rispetto a un mese fa ma
“sono ancora tante le cose che possono accadere in Italia”.
Il riferimento del responsabile dell’obbligazionario flessibile, in particolare, è al rischio elezioni anticipate:
“Per ora non sono previste ma rimangono un’eventualità possibile e quindi un rischio”.
La polizza BceLa discesa dello spread nel corso dell’ultimo mese è legata, in particolare, alle dichiarazioni di Mario Draghi dello scorso 6 giugno.
“Se dovessero realizzarsi eventualità avverse, la Bce è pronta ad agire e tutti gli strumenti sono nella sua cassetta degli attrezzi”
ha detto il presidente della Banca centrale europea.
Non è un “Whatever it takes” come quello pronunciato nel 2012 ma è comunque una bella polizza assicurativa per l’Italia e per l’Eurozona nel complesso. L’unico problema è che questa polizza assicurativa scatterebbe solo in momenti di tensione molto alta.
“Prima che scatti ci sarà da soffrire”
puntualizza Colin che identifica il livello di allarme del termometro spread a 300 punti.  Nessuna fuga, tuttavia, dai titoli di Stato italiani che anzi potrebbero essere in quel momento un’opportunità in virtù dell’alto rendimento offerto.
“La domanda da porsi per un investitore che acquista Btp è: quanta volatilità posso sopportare?”.
Chi porta i titoli di Stato a scadenza non dovrebbe angustiarsi troppo se pensa che il Paese non fallirà
“si incasseranno le cedole e si avrà restituito il valore nominale del bond a scadenza”.
Un’economia diversificata di alto valoreMa oltre alla polizza Bce, che verrà peraltro testata quando a novembre Mario Draghi lascerà la poltrona di presidente, quali altre ragioni sostengono la tesi del non fallimento dell’Italia?
Una spiegazione la fornisce Fitch Ratings che, nel suo ultimo giudizio sul Belpaese ha scritto che
“l’Italia è un’economia diversificata di alto valore”.
“Non sono tanti i Paesi in grado di produrre oggetti finiti di valore come fa l’Italia”
spiega invece Mondher Bettaieb Loriot, responsabile corporate debt di Vontobel che prosegue:
“Inoltre, l’Italia è un mercato di risparmiatori. Se aggiungi al debito dello Stato quello degli individui, il rapporto debito/Pil migliora tantissimo. Fino a quando sarà in grado di generare un surplus di bilancia dei pagamenti non ci sarà da preoccuparsi. Però è un Paese che ha bisogno di investire e forse il governo in carica non sta poi sbagliando così tanto”.
“La notizia positiva per l’Italia – interviene Colin – è che la maggior parte del debito statale è nelle mani degli italiani. Ed è normale visto che rende bene. L’altra buona notizia è che chiunque voglia investire in obbligazioni in euro non ha molti altri luoghi dove andare. In Europa ci sono 4.000 miliardi di bond con rendimento negativo. Perfino gli investitori spagnoli hanno Btp in portafoglio. Perché mai l’Italia dovrebbe fallire?”.
Forse l’Europa cambiaC’è un ulteriore tassello da aggiungere allo scenario delineato dagli esperti di Vontobel. Il risultato delle elezioni europee potrebbe favorire un cambiamento nelle politiche dell’Ue. In particolare, per Bettaieb:
“Il fatto che i tedeschi non abbiano più una ‘maggioranza di controllo’ è positivo. Dovranno cercare dei compromessi e non potranno più dettare agli altri il loro volere. L’accresciuta importanza dei verdi potrebbe favorire un flusso di investimenti infrastrutturali sul fronte ambientale, creando i presupposti per un’accelerazione dell’economia europea”.
Accelerazione che sarebbe positiva per tutti e in particolare per chi è più in difficoltà, come l’Italia.

domenica 30 giugno 2019

Trattato Ue-Sudamerica, Merkel forza l’accordo con Bolsonaro ‘per combattere il populismo’

Fonte: Il Fatto Quotidiano Zonaeuro | 27 Giugno 2019 

di Monica Di Sisto
“Siamo a un bivio. L’Unione Europea non può permettersi di abbandonarsi a argomenti populisti e protezionisti sulle politiche commerciali, un’area in cui i risultati dell’Ue sono innegabili. Dobbiamo avvantaggiarci della situazione politica odierna nei Paesi del Mercosur e non lasciare che questa finestra di opportunità si chiuda”. Parole della democratica cristiana Angela Merkel che, in una lettera del 20 giugno scorso all’uscente presidente della Commissione Ue Claude Juncker, pubblicata da Politico, intima senza mezzi termini di chiudere prima dell’addio definitivo alla Commissione Ue il controverso Trattato di liberalizzazione commerciale e degli investimenti tra Europa e Mercosur (Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay). Secondo Merkel, apprendiamo, il populismo si batte a colpi di accordi con l’autoritario presidente brasiliano Jair Bolsonaro, che con il suo arrivo ha accelerato il negoziato in corso da oltre venti anni. I suoi predecessori avevano avanzato lenti, tra timori e resistenze, per i possibili impatti ambientali e sociali legati a una prevista intensificazione degli scambi di prodotti agricoli e alimentari, latte e carni ma anche soia e canna da biodiesel, parti di auto, auto e meccanica. Merkel motiva la scelta, senza tante perifrasi, con “un accesso privilegiato a un mercato di 260 milioni di consumatori per le nostre aziende”, e si porta dietro nella richiesta i premier socialisti spagnolo Pedro Sanchez e portoghese Antonio Costa, il premier della Repubblica Ceca Andrej Babis, duramente contestato in questi giorni per frode, quello della Lettonia Krisjanis Karins, il primo ministro svedese Kjell Stefan Löfven e quello olandese Mark Rutte.
A lei oppone la “controspinta” del premier francese Emmanuel Macron che, unendo la sua firma a quella del primo ministro polacco Mateusz Morawiecki, del premier belga Charles Michel e del loro collega irlandese Léo Varadkar, ha chiesto invece a Juncker di rispettare precisi limiti di mandato: valutare gli effetti cumulativi delle quote negoziate nei vari accordi firmati alla spicciolata dall’Unione, soprattutto sulla tenuta del settore agricolo; una più forte garanzia delle norme sanitarie, fitosanitarie, del benessere degli animali e ambientali; la coerenza politica tra gli obiettivi strategici dell’Ue in materia e le responsabilità in materia di cambiamenti climatici, per evitare il prevedibile dumping ambientale che arriverà alle imprese europee con questa ulteriore liberalizzazione. Al momento, però, le preoccupazioni di Macron sono considerate marginali dai negoziatori e il trattato dovrebbe arrivare indisturbato a conclusione entro la fine della settimana, senza alcuno dei meccanismi di controllo vincolante dell’impatto sulla sostenibilità sociale e ambientale chiesti da molti anni dalle organizzazioni internazionali.
Il governo italiano, che apertamente non si schiera, con il sottosegretario Ricardo Merlo ha parlato con il ministro dell’Economia brasiliano Paulo Guedes a cento rappresentanti delle imprese italiane in missione in Brasile sottolineando che “l’Italia guarda con molto interesse all’evoluzione del progetto politico e economico di Bolsonaro visto che le economie dei due Paesi sono assolutamente complementari”.
Oltre 340 organizzazioni della società civile europea, italiana e del Mercosur, però, hanno messo nero su bianco le loro preoccupazioni contro l’aggravamento delle violazioni dei diritti sociali e dell’ambiente soprattutto in Brasile e nella regione Amazzonica, a seguito dell’approvazione del trattato. L’attacco alle politiche sociali, la chiusura seriale di associazioni e realtà indigene, l’incarceramento e le morti misteriose di attivisti e leader, l’abolizione del dipartimento per le politiche su clima e ambiente, responsabile dell’implementazione dell’Accordo di Parigi suggerirebbero, secondo le oltre 300 realtà, di non correre a chiudere un accordo tanto invasivo.
La stessa valutazione indipendente di impatto del trattato richiesta dalla Commissione europea e chiusa prima dell’arrivo di Bolsonaro alla guida del Brasile, segnala molti potenziali problemi a fronte di uno 0,1% di aumento presunto del Pil europeo in un periodo di 10 anni dall’entrata in vigore nella formulazione più liberista possibile. Per l’Europa il colpo principale lo subirà, e molto secco, il settore agricolo, zootecnico e della trasformazione piccola, media e di qualità, con una concorrenza diretta e insostenibile sui produttori di materie prime e una prevedibile – ulteriore – depressione dei prezzi interni, concentrazione e sottoccupazione. In cambio si facilita un maggiore e più economico accesso delle aziende europee del settore metalmeccanico, chimico e farmaceutico – strategiche per la Germania – al ricco mercato latinoamericano. Il Brasile in particolare, in generale la controparte, lo pagherà in termini di impatti sociali e ambientali, con una più intensa, prevista, deforestazione, e un aumento progressivo delle emissioni contro le quali la valutazione raccomanda di prevedere l’inserimento di un meccanismo di valutazione e monitoraggio.
Al momento, però, nelle bozze circolate informalmente fino a oggi, di meccanismi vincolanti non c’è traccia, e si approfitta da parte europea dell’insensibilità del leader brasiliano alla materia per tenere le mani delle imprese il più slegate possibile. “Un trattato commerciale non può risolvere tutte le miserie del mondo. Ma possiamo creare un contesto per discuterne”, ha tagliato corto la commissaria uscente al Commercio Cecilia Malmstrom che vuole appuntarsi sulla giacca questo successo costi quel che costi. E della presunta “Europa campione dell’ambiente” per il momento è tutto.
Zonaeuro | 27 Giugno 2019

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