Fonte: W.S.I. 27 Marzo 2019, di Daniele Chicca
Che
le discrepanze in Europa siano colossali quando si tratta di mercato
del lavoro è risaputo. Nel 2016 per esempio si andava dai 4,40 euro di costo del lavoro orario
della Bulgaria ai 42 euro della Danimarca o più di 50 euro della
Norvegia. Ma sono i salari nel Sud d’Europa a destare le maggiori
preoccupazioni degli economisti.
Come si vede bene nel grafico
sotto riportato, il costo del lavoro è aumentato più velocemente in
Francia che in Germania o in Italia. Ma i salari in questi ultimi due
paesi sono fermi da tempo. L’anno scorso il costo del lavoro è salito del 2,9% in Francia, contro il 2,4% di media dell’Eurozona e l’1,8% della Germania.
Se ci si rifà ai dati Eurostat del 2016, si scopre quanto la situazione sia da anni particolarmente distorta in Italia.
Sebbene il costo del lavoro non sia di molto maggiore di quello del
Regno Unito, a Londra le retribuzioni sono state e rimangono di gran
lunga superiori, nonostante le turbolenze generate dalla Brexit.
L’Unione
Europea deve agire in fretta per ridurre i tanti gap e incrementare le
buste paga, secondo i sindacati europei. Per farlo potrebbe per
esempio incoraggiare e promuovere un contratto collettivo di lavoro tra
datori e sindacati, secondo Luca Visentini, Segretario Generale della European Trade Union Confederation (ETUC).
il resto qui su W.S.I.
si parla di progresso, di evoluzione, di civiltà ci ritroviamo invece in un nuovo medio evo dove conta chi si nasconde dietro il potere o vi si allea con esso.
giovedì 28 marzo 2019
martedì 26 marzo 2019
Ue toglierà Arabia Saudita dalla lista nera del riciclaggio
Fonte: W.S.I. 1 Marzo 2019, di Alberto Battaglia
L’inclusione dell’Arabia Saudita nella lista nera Ue dei Paesi troppo morbidi nella lotta al riciclaggio vedrebbe contraria una larga maggioranza dei Paesi membri. Lo affermano a Reuters
due fonti comunitarie, citando un blocco ostile all’inclusione di Riyad
che conterebbe 20 membri su 28: fra gli stati contrari ci sarebbero il
Regno Unito, la Francia “e tutti i maggiori membri” Ue. In precedenza
la lista nera aveva irritato anche Panama, che aveva sollecitato Bruxelles a riconoscere i passi avanti compiuti dopo il caso Panama Papers.
Il sovrano saudita, Salman, si era mosso in prima persona per convincere le autorità europee a riconsiderare l’inserimento del suo Paese nella black list, in alcune lettere viste da Reuters. Tale decisione “danneggerà la reputazione del regno e creerà difficoltà nel commercio e negli investimenti fra Arabia Saudita e Unione Europea”, aveva scritto il re Salman.
Riyad ha minacciato di stracciare i contratti con gli stati Ue nel caso in cui la lista fosse approvata, ha affermato una delle fonti Ue. “Stanno davvero tirando fuori le armi pesanti”, avrebbe detto un diplomatico commentando la vicenda.
Le armi persuasive del regno saudita starebbero ottenendo i risultati sperati. Perché la lista nera venga emendata occorre una maggioranza di almeno 21 stati membri. A quanto si apprende, tale maggioranza sarebbe a portata di mano.
Fra i Paesi insoddisfatti della black list non mancano gli Stati Uniti, che in essa vi hanno ritrovati quattro dei propri territori. Si tratta di Samoa, Guam, Puerto Rico e le Isole Vergini.
Fra gli altri nomi che compongono la lista nera del riciclaggio e del finanziamento al terrorismo compaiono anche Corea del Nord, Libia, Iran, Pakistan, Nigeria, Afghanistan e il già citato Panama.
Il sovrano saudita, Salman, si era mosso in prima persona per convincere le autorità europee a riconsiderare l’inserimento del suo Paese nella black list, in alcune lettere viste da Reuters. Tale decisione “danneggerà la reputazione del regno e creerà difficoltà nel commercio e negli investimenti fra Arabia Saudita e Unione Europea”, aveva scritto il re Salman.
Riyad ha minacciato di stracciare i contratti con gli stati Ue nel caso in cui la lista fosse approvata, ha affermato una delle fonti Ue. “Stanno davvero tirando fuori le armi pesanti”, avrebbe detto un diplomatico commentando la vicenda.
Le armi persuasive del regno saudita starebbero ottenendo i risultati sperati. Perché la lista nera venga emendata occorre una maggioranza di almeno 21 stati membri. A quanto si apprende, tale maggioranza sarebbe a portata di mano.
Fra i Paesi insoddisfatti della black list non mancano gli Stati Uniti, che in essa vi hanno ritrovati quattro dei propri territori. Si tratta di Samoa, Guam, Puerto Rico e le Isole Vergini.
Fra gli altri nomi che compongono la lista nera del riciclaggio e del finanziamento al terrorismo compaiono anche Corea del Nord, Libia, Iran, Pakistan, Nigeria, Afghanistan e il già citato Panama.
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lunedì 25 marzo 2019
Yemen, quattro anni di guerra. E non se ne vede la fine
Fonte: Il Fatto Quiotidiano Mondo | 25 Marzo 2019 Riccardo Noury
Il 25 marzo 2015 la prima bomba della coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti cadeva sullo Yemen. Da allora, questa scena si è ripetuta migliaia di volte, portando distruzione e devastazione nel paese più povero del mondo arabo.
L’obiettivo della coalizione, sostenuta sul terreno dalle forze leali al presidente ‘Abd Rabbih Mansur Hadi, era e resta quello di sconfiggere le forze huthi, pro-iraniane, che nel settembre 2014 hanno preso il controllo della capitale Sana’a e di altre zone dello Yemen.
Di questo nuovo capitolo dello scontro tra Arabia Saudita e Iran per la supremazia nel Medio Oriente stanno pagando il prezzo milioni di civili yemeniti, vittime di una gravissima catastrofe umanitaria provocata dalla guerra.
In questi quattro anni, tutte le parti in conflitto hanno inflitto sofferenze inimmaginabili alla popolazione civile.
Il catalogo degli orrori, gravi crimini di diritto internazionale se non veri e propri crimini di guerra, comprende attacchi aerei indiscriminati (contro centri abitati, scuole e scuolabus, mercati, moschee, ospedali, banchetti nuziali), detenzioni arbitrarie, sparizioni forzate, maltrattamenti e torture, aggressioni sessuali, arruolamento di bambini soldato e l’imposizione di restrizioni all’ingresso e alla circolazione di beni e aiuti essenziali.
Di tutto questo non si vede la fine: il numero delle vittime civili aumenta e la situazione umanitaria peggiora di giorno in giorno.
Diversi Stati occidentali – tra cui Usa, Regno Unito, Francia e anche Italia – continuano a fornire armi agli stati membri della coalizione nonostante vi siano prove schiaccianti che esse sono state usate per commettere crimini di guerra. Solo una manciata di Stati – Olanda, Norvegia, Danimarca, Finlandia e Svizzera – hanno sospeso questi trasferimenti.
La vita dei civili yemeniti non vale niente rispetto ai lucrosi commerci di strumenti di morte.
Il 25 marzo 2015 la prima bomba della coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti cadeva sullo Yemen. Da allora, questa scena si è ripetuta migliaia di volte, portando distruzione e devastazione nel paese più povero del mondo arabo.
L’obiettivo della coalizione, sostenuta sul terreno dalle forze leali al presidente ‘Abd Rabbih Mansur Hadi, era e resta quello di sconfiggere le forze huthi, pro-iraniane, che nel settembre 2014 hanno preso il controllo della capitale Sana’a e di altre zone dello Yemen.
Di questo nuovo capitolo dello scontro tra Arabia Saudita e Iran per la supremazia nel Medio Oriente stanno pagando il prezzo milioni di civili yemeniti, vittime di una gravissima catastrofe umanitaria provocata dalla guerra.
In questi quattro anni, tutte le parti in conflitto hanno inflitto sofferenze inimmaginabili alla popolazione civile.
Il catalogo degli orrori, gravi crimini di diritto internazionale se non veri e propri crimini di guerra, comprende attacchi aerei indiscriminati (contro centri abitati, scuole e scuolabus, mercati, moschee, ospedali, banchetti nuziali), detenzioni arbitrarie, sparizioni forzate, maltrattamenti e torture, aggressioni sessuali, arruolamento di bambini soldato e l’imposizione di restrizioni all’ingresso e alla circolazione di beni e aiuti essenziali.
Di tutto questo non si vede la fine: il numero delle vittime civili aumenta e la situazione umanitaria peggiora di giorno in giorno.
Diversi Stati occidentali – tra cui Usa, Regno Unito, Francia e anche Italia – continuano a fornire armi agli stati membri della coalizione nonostante vi siano prove schiaccianti che esse sono state usate per commettere crimini di guerra. Solo una manciata di Stati – Olanda, Norvegia, Danimarca, Finlandia e Svizzera – hanno sospeso questi trasferimenti.
La vita dei civili yemeniti non vale niente rispetto ai lucrosi commerci di strumenti di morte.
Mondo | 25 Marzo 2019
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