giovedì 15 gennaio 2015

Deficit e ripresa dei consumi: una domanda semplice ad Alesina e Giavazzi

di | 15 gennaio 2015 sul Fatto Quotidiano
Sul Corriere del 29/12/14, dopo aver ricordato che in Italia “il Prodotto interno lordo scende da 13 trimestri”, i due alfieri del liberismo nostrano offrono la loro ricetta 2015.0 per “porre fine alla recessione”. E spiegano: “La riforma del mercato del lavoro non basta. Ci vuole anche più domanda”. Bene. Cioè… insomma: se ci vuole più domanda, allora la riforma del mercato del lavoro non è che “non basta”, è proprio dannosa: deprime la domanda! “Ci vuole più domanda” è come dire che c’è un eccesso di potenziale di offerta. Ma il Jobs Act mira a stimolare ulteriormente questo potenziale; se proprio lo si vuole approvare, adesso, sarebbe meglio che entrasse in vigore quando la domanda si sarà ripresa.
Domanda (aggregata) nel linguaggio degli economisti significa spesa, acquisti, e – dal punto di vista delle imprese – vendite. In effetti il grafico dell’Istat sulle vendite delle imprese mostra che la domanda continua a contrarsi: in ottobre il calo a/a è stato -0,8%.
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Ripetiamolo: non basta che il barista prepari “100 caffè all’ora” (Bagnai) e li poggi sul banco (con efficienza, produttività, onestà): deve anche venderli. E perché mai la gente non dovrebbe comprarsi un buon caffè caldo, con freddo che fa? Sì, è così: perché ha paura poi di trovarsi in difficoltà economiche. Perciò s’indebolisce anche la domanda di lavoro da parte delle imprese (grafico sotto), e il cerchio si chiude.
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Ma quanti sono i ‘caffè’ (ed altri beni e servizi) potenzialmente sul banco, non acquistati (quindi, neanche prodotti) per mancanza o di denaro o di fiducia? Quant’è il potenziale di offerta in eccesso rispetto alla domanda? Non è una stima facile: qui ho presentato la mia per l’Italia. Nell’Economic Outlook del 25 novembre l’Ocse ha presentato le sue stime per la zona Euro. Nel grafico la barra blu rappresenta il 2013, quella rossa il 2014. L’Ocse stima che il sistema produttivo italiano (corrotto quanto si vuole, inefficiente, poco competitivo, tartassato, vessato dai burocrati, appesantito dai fannulloni, e chi più ne ha più ne metta) è in grado di produrre oggi così com’è, senza riforme strutturali e altre diavolerie, il 6% di Pil in più di quanto produce.
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Le stime dell’Ocse sono anch’esse iper-prudenziali. Ad es. si assume che il 40% dei disoccupati italiani (e tutti gli scoraggiati) non siano più in grado di inserirsi in modo produttivo nel mondo del lavoro. Però i nostri disoccupati sono gente che ogni mese cerca attivamente lavoro, ed è pronta ad iniziare ‘anche subito’: dunque i ‘caffè’ che potrebbero arrivare sul banco sono probabilmente molti di più; e non solo in Italia.
Un aumento del 6% del Pil risolverebbe la crisi? Sì. Non solo ridurrebbe il rapporto Debito pubblico/Pil dal 135% al 128%, ma porterebbe anche il bilancio annuale dello Stato in pareggio, e la disoccupazione sotto il 10%. Ciò calmerebbe i timori, avviando un nuovo ciclo di investimenti trainato dai consumi.
È facile oggi, in Italia, generare un aumento del Pil del 6%? Sì. Non lo sarebbe se occorresse risolvere un problema di offerta, della struttura produttiva. Se, per dire, il famoso barista dei 100 caffè all’ora fosse scomparso… Se il bar fosse crollato… Se il ponte che porta al bar fosse interrotto … Bisognerebbe addestrare un nuovo barista, ricostruire il bar, riparare il ponte: ciò richiederebbe tempo e fatica! Ma per curare il deficit di domanda basta spendere soldi (i soldi si stampano, o si prendono sui mercati finanziari). La conseguenza degli output gap infatti è che i moltiplicatori di qualsiasi spesa – privata o pubblica – sono altissimi.
Innanzitutto, ogni nuova spesa genera un aumento diretto del Pil all’incirca di pari importo (coefficiente 1:1). Scrive Alessandro De Nicola su Repubblica: “L’investimento pubblico dev’essere giudicato secondo un metro di costo opportunità”. Giusto! Ma la disponibilità di tanti fattori produttivi ‘liberi’ azzera il costo opportunità! Non è più vero, come scrive, che “i soldi che vengono spesi per un aeroporto pubblico sono sottratti all’investimento o al consumo privato”: di soldi ne circolano talmente tanti (grazie anche alle banche centrali) che non si sa più dove metterli. La controprova la danno i tassi d’interesse negativi (non c’è concorrenza con l’investimento privato) e l’andamento deflattivo dei prezzi (nessuna concorrenza con il consumo privato). All’impatto diretto bisogna poi aggiungere gli effetti indiretti: l’indotto (in alcuni settori selezionati 0,5-2), e l’aumento dei consumi ‘perché mia la spesa è il tuo reddito’ (0,5). Il moltiplicatore di una manovra ben fatta potrebbe essere: 1 +0,9 +0,5 = 2,4 da cui bisogna sottrarre 1/3 che va ad acquistare beni esteri: 2,4/3 = 1,6.
Chi potrebbe spendere? Come fare in modo che accada? Vi sono due modi facili. (A) Mandare l’esercito ed obbligare i privati a spendere. (B) Usare la spesa pubblica per acquistare beni e servizi, investire, finanziare programmi di riduzione della povertà assoluta (stimolo a un’ipotesi A in versione meno autoritaria). La tabella qui sotto descrive la situazione del 2014, un aumento della spesa pubblica di 20 Mld. nel 2015, e ipotizza che tutti i benefici cd ‘di breve termine’ si concentrino nel 2016. Nella colonna centrale si ipotizza un moltiplicatore di 1,6, in linea con la letteratura empirica recente per i settori suindicati. Una simile manovra, rebus sic stantibus, ridurrebbe il rapporto Debito/Pil di circa due punti (righe 3 e 12, col. centrale).
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Ma cosa succederebbe se i moltiplicatori fossero più bassi? Ci viene in soccorso una proprietà aritmetica: più grande è un rapporto, maggiore è l’influenza del denominatore. Se il rapporto è 10/100=10%, aggiungendo 10 sia sopra che sotto: (10+10)/(100+10)=> 18% (il rapporto sale); ma se il rapporto è 200/100 =200%, (200+10)/(100+10)=> 191% (scende). Perciò il debito pubblico italiano calerebbe rispetto al Pil anche con un moltiplicatore di 0,8 (colonna di sinistra, rigo 12). E se invece l’Europa si associasse alla manovra? I risultati (colonna di destra) sarebbero ancora migliori. Morale: quando si ha un debito pubblico elevato, l’unico modo di uscirne è puntare sul Pil. Che in questa congiuntura non reagisce al potenziale d’offerta (che è già in eccesso) ma solo alle variazioni della domanda.
L’articolo continua qui
p.s.
più chiaro di così...... ma si sa che non c'è peggior sordo di chi (....) non vuol sentire
p.s. 2
vi consiglio di leggere il resto dell'articolo.. su Micromega al link evidenziato dalla parola "qui" nel post

mercoledì 14 gennaio 2015

IS il nemico completamente fabbricato dagli Stati Uniti: L'ex contractor CIA dice la sua

L'ex contractor CIA Steven Kelley afferma che il gruppo terroristico ISIL è un nemico completamente inventato creato e finanziato dagli Stati Uniti. "Questo è un nemico del tutto inventato," ha detto in un'intervista telefonica con Press TV da Anaheim, California il Giovedi. "Il finanziamento è tutto completamente proveniente dagli Stati Uniti e dai suoi alleati ed è è una farsa le persone che sostengono che questo nemico è qualcosa che deve essere attaccato in Siria o in Iraq, perché ovviamente questo è qualcosa che noi creiamo, noi controlliamo e solo ora è diventato scomodo per noi di attaccare questo gruppo come un legittimo nemico ", Kelley ha aggiunto. Il commento del presidente americano Barack Obama è dovuto alla pressione per ottenere l'approvazione del Congresso prima di espandere la campagna aerea militare di Washington contro obiettivi ISIL dall'Iraq nella vicina Siria. Il Pentagono ha già lanciato almeno 100 attacchi aerei sulle posizioni ISIL nel nord Iraq da quando Obama ha autorizzato l'uso della forza contro il gruppo terroristico all'inizio di questo mese. La Casa Bianca insiste che non ha bisogno di esplicita autorizzazione del Congresso per le operazioni in quanto sono destinati a proteggere il personale e gli interessi americani all'interno del paese arabo. Portavoce della Casa Bianca Josh Earnest ha detto Lunedi che Obama "non esiterà a usare la sua autorità" per tenere al sicuro gli americani, ma ha aggiunto che il presidente era "impegnata a coordinare e consulenza con il Congresso" su una decisione di colpire obiettivi ISIL in Siria. "Se si vuole arrivare alla radice del problema e rimuovere questa organizzazione, la prima cosa che devono fare è quello di rimuovere il finanziamento e prendersi cura di enti responsabili per la creazione di questo gruppo", ha detto Kelley. "Credo che questo gruppo, ISIS, probabilmente sparirebbe e sarebbe stato facilmente sconfitto dagli eserciti di  Bashar Assad (presidente siriano)", ha detto.
p.s.
naturalmente tutti lo pensano ma vederselo scritto (questa è solo una traduzione dall'inglese) così fa un certo effetto, vero? Soprattutto alla luce della strage di Parigi e dei tanti interrogativi che sono stati sollevati non solo dai media ma soprattutto dalla parte più attenta della rete....... interrogativi preoccupanti che in questi giorni vengono posti ma cui finora nessuno, proprio nessuno, ha saputo (o voluto) dare una risposta!
p.s.
Rimanendo vicino nel tempo possiamo pensare a quanti interrogativi furono sollevati dagli attacchi alle torri gemelle e, con particolare riguardo, al terzo edificio, di cui non si parla (chissà perchè), crollato senza che avesse subito nessun attentato... nemmeno da parte di una mosca kamikaze!!!!!!!

martedì 13 gennaio 2015

Leader nel soffocare la libertà d’espressione (Salvatore Cannavò).

Fonte: 13/01/2015 di triskel182
TRA LE DECINE DI CAPI DI STATO E DI GOVERNO CHE HANNO SFILATO DOMENICA A PARIGI ALMENO 20 “IMPRESENTABILI” CHE NEI RISPETTIVI PAESI NON RISPETTANO I DIRITTI SULL’INFORMAZIONE E I GIORNALISTI.Libertà di stampa
Con i due milioni di parigini in piazza hanno sfilato anche 50 capi di Stato e di governo. La foto dei leader apparsa su tutti i giornali del mondo ha puntato a rappresentare i milioni scesi a manifestare. Ma, scorrendo i loro nomi, e al netto dei giudizi politici, non sempre sono in grado di onorare la loro presenza. Basta leggere l’elenco e guardare alla situazione dell’informazione nel rispettivo paese.   Re Abdallah di Giordania. In prima fila accanto alla bella moglie Ranja, guida un paese in cui la libertà di informazione è talmente ridotta da figurare al 149° posto nella classifica stilata da Reporters sans frontieres (Rsf). È di pochi giorni fa la condanna ai lavori forzati dello scrittore e accademico palestinese Mudar Zahran.   Ahmet Davutoglu, primo ministro turco.
Il paese di Erdogan tiene in carcere decine di giornalisti. Secondo il Cpj (Comitato per la protezione dei giornalisti) è il maggior paese al mondo a incarcerare i giornalisti seguito da Iran e Cina (non presenti in piazza).   Benjamin Netanyahu premier di Israele. Secondo Rwb molti giornalisti sono stati arrestati arbitrariamente. Il paese è al 96° posto nella classifica sulla libertà di informazione citata. Sameh Choukry, ministro Esteri Egitto. La notizia è del 20 dicembre, il giornalista Mahmoud Abou Zied ha denunciato di essere stato rapito e imprigionato da almeno 16 mesi. Nonostante sia in carcere da 500 giorni, la sua carcerazione è stata prorogata. L’Egitto è al 159° posto in classifica. Sergej Lavrov, ministro Esteri Russia. Il governo di Mosca tiene imprigionati diversi giornalisti tra cui il blogger Dmitry Shipilov, in galera dal 10 settembre, arrestato dopo un’intervista a un esponente dell’autonomia siberiana. La Russia è al 148° posto della classifica.   Abdallah ben Zayed Al-Nahyane, ministro degli Esteri degli Emirati arabi uniti. Anche tra gli emiri c’è l’usanza di incarcerare giornalisti, come l’egiziano Anas Fouda, tenuto in isolamento per un mese senza accuse. Gli Eau sono al 118° posto.   Mehdi Jomaa, primo ministro Tunisia. Il paese della “primavera araba” ha recentemente imprigionato per 3 anni il blogger Yassine Ayan per aver diffamato l’esercito. Una “grossa violazione del diritto di espressione ” secondo Amnesty International. Il paese è al 133° posto nella classifica di Rwb.   Boïko Borisov, capo del governo Bulgaria. Il paese non ha mancato di distinguersi negli attacchi ai giornalisti come quelli avvenuti a luglio davanti al parlamento di Sofia. La Bulgaria è al 100° posto nella classifica   Eric Holder, ministro Giustizia Usa. Anche il paese campione della libertà limita quella di stampa come avvenuto durante gli incidenti di Ferguson dove la polizia ha arrestato e detenuto ingiustamente alcuni reporter del prestigioso Washington Post. Nella classifica di Rwb, in ogni caso, gli Stati Uniti sono al 46° posto.   Antonis Samaras, premier Grecia. Per reprimere le tante manifestazioni di protesta la Grecia ha più volte colpito e ferito i giornalisti. Tanto che si trova al 99° posto nella classifica. La seconda peggior posizione di tutta la Ue.   Jens Stoltenberg, segretario generale Nato. L’Alleanza atlantica non ha mai risposto del bombardamento, e l’uccisione, di 16 giornalisti serbi a Belgrado nel 1999.   Ibrahim Boubacar Keïta, presidente Mali. Molti giornalisti sono stati espulsi (fonte Cpj) dopo aver denunciato la violazione dei diritti umani. Il Mali è al 122° posto della classifica. Viktor Orban, premier ungherese. Da quando è al potere, il premier si è distinto per gli attacchi alla stampa e all’indipendenza dei media. Dal 2010 vige una legge molto restrittiva. Al 64° posto nella classifica.   Ali Bongo, presidente del Gabon. I quotidiani di opposizione hanno denunciato a settembre la chiusura temporanea delle pubblicazioni a causa della pirateria informatica del governo che però nega. 98ª posizione.   Miro Cerar, primo ministro Slovenia. Casi di blogger condannati a 6 mesi di prigione per diffamazione come nel caso di Mitja Kunstelj. Il paese, però, tra quelli considerati è tra i migliori della classifica, al 34° posto.   Enda Kenny primo ministro Irlanda. Ancora meglio fa l’Irlanda, 16ª nella lista stilata da Rwb. Eppure il paese di Kenny considera ancora la “blasfemia” un’offesa da condannare.   Ewa Kopacz, primo ministro Polonia. Il paese che esprime anche il presidente della Ue, Donald Tusk, è quello che, lo scorso giugno, ha requisito una montagna di intercettazioni ambientali tra politici comprovanti un importante caso di corruzione. La Polonia è comunque al 19° posto della classifica.   David Cameron, premier Gran Bretagna. Il governo inglese è quello che ha minacciato e perseguito il giornale The Guardian per il caso Snowden chiedendo insistentemente di distruggere gli hard disk dei suoi computer. 33ª posizione.   Il fratello dell’emiro Mohamed Ben Hamad Ben Khalifa Al Thani del Qatar. Lo scrittore e poeta Mohamed Rashid al-Ajami è stato condannato a 15 anni di carcere per avere insultato il regnante. Il paese è al 113° posto.   Nizar al-Madani, numero due dell’ambasciata saudita. Solo venerdì scorso, nel paese il blogger Raif Badawi è stato condannato a 10 anni di prigione e a 1000 frustate da diluire in 20 settimane per aver “insultato” l’Islam. L’Arabia saudita è al 164° posto della classifica sulla libertà di informazione.
Da Il Fatto Quotidiano del 13/01/2015.
p.s.
non bastavano i fatui leader euroatlantici al corteo.. mi ero chiesto che ci facessero i personaggi di cui sopra rappresentanti di Governi "moderati" e amici dei primi: un campionario davvero realistico dello stato dell'arte in materia di libertà, libera manifestazione del pensiero, ecc. ecc. questi sono alcuni esempi ma se scrutate bene le foto ce n'è ben donde per affermare che i "terroristi"  fai da te e, soprattutto, i loro capi (ufficiali e occulti) erano in ottima compagnia!!!

lunedì 12 gennaio 2015

Je suis..... ancora non si sa

innanzitutto:

un pò pochini e quanta distanza dal popolo; poi il selfie opportunity con ... "imbucato":

.. infine l'atroce dilemma della sinistra italiota:

e dal contropelo di radiocapital (pubblicato su facebook)
I sotterranei di Parigi
Nell’ultima puntata di Homeland un luciferino Dar Adal capo delle operazioni segrete della Cia, che nella realtà è Murray Abrahms di origini siriane di fede nestoriana, lascia a bocca aperta Saul Berenson ex direttore della CIA, che nella realtà è Mandy Patinkin un ebreo, spiegandogli perchè si è messo d’accordo con il capo dei talebani che ha appena fatto una strage all’ambasciata americana. “Begin ha ucciso 91 persone al King David e poi è diventato premier di Israele”. Non posso pensare ad un commento migliore a quello che è accaduto a Parigi, al groviglio di amici, amici dei nemici, nemici dei nemici in cui siamo avvoltolati almeno dal 1967. All’orrenda confusione geopolitica, su cui si spalma la dabbenagine feroce dei combattenti di civiltà, la ferocia babbea della bestia umana, il bel pensiero dei benpensanti che ritrovano nel sangue di Charlie Hebdo ragioni per fare gli stati uniti d’Europa e gli speculari della chiusura delle frontiere europee per terroristi francesi che agiscono in Francia. Cioè un commento migliore ce l’ho, ma è attribuita a Voltaire. Quelli che riescono a farvi credere delle assurdità possono farvi commettere delle atrocità.
p.s.
le foto sono prese da facebook così come il resto.... come non essere d'accordo?

domenica 11 gennaio 2015

Elezioni Grecia: il difficile compromesso di Tsipras

dal Fatto Quotidiano del 9/1/2015 di Fausto Corvino
La breve campagna elettorale di Alexis Tsipras si sta rivelando un attento esercizio di dosaggio politico. Su un piatto della bilancia ci sono gli elettori, quelli che tra meno di venti giorni dovranno materialmente inserire la scheda nell’urna. Dall’altra ci sono gli investitori, quelli che influiscono sull’andamento dei mercati, e che possono far crollare le borse, creando così paura e incertezza nel Paese, e spostando una parte dell’elettorato dalla scommessa Tsipras verso la certezza Samaras.
Il giovane leader della sinistra greca vuole tenersi buono il suo elettorato, cercando di incrementare, o forse, più realisticamente, di conservare i tre punti percentuali di vantaggio che i sondaggi gli concedono sul Premier uscente Samaras. Per fare ciò deve ovviamente continuare a prospettare un’inversione a U sul binario della programmazione economica. Ribadire a gran voce la volontà di sedersi a un tavolo e ridiscutere tutte le condizioni sottoscritte negli ultimi 4 anni dai governi precedenti in cambio dei vari prestiti salva stato. E attaccare, a muso duro, le istituzioni finanziarie internazionali. Secondo le anticipazioni dell’Huffington Post, in un libro/intervista in prossima uscita in Italia, il leader di Syriza definirebbe gli uomini della Troika come dei “funzionariucci di medio livello, con una cultura economica mediocre, che, nell’ambito di un’impresa privata, potrebbero solo avere l’autorizzazione necessaria per accendere e spegnere il computer”.
Al contempo però Tsipras non può lasciare che la sua campagna elettorale, giocata all’attacco, getti nel caos i mercati. E infatti non dimentichiamoci che una delle prime dichiarazioni del politico greco, ancora prima che iniziassero i tre turni delle presidenziali, è stata quella in cui affermava in modo chiaro ed inequivocabile la volontà di rimanere nell’euro. Poi ha recentemente aggiunto che la politica economica proposta da Syriza è compatibile con la linea Draghi, secondo cui occorre “fare tutto il possibile per salvare l’euro”.
Tsipras cerca di mantenere un equilibrio delicato. Galvanizzare l’elettorato senza innervosire troppo gli investitori. O almeno non così tanto da prestare il fianco a Samaras, che sul rischio del default e dell’allontanamento dalla zona euro gioca tutta la sua partita. Il problema però, come molti notano, è che per Syriza sarà davvero difficile realizzare alcuni punti cardine del suo programma elettorale restando nel perimetro della moneta unica. E mi riferisco, tra le altre cose, all’incremento del salario minimo, allo stop dei tagli alla spesa e alle riassunzioni pubbliche.
Pochi giorni fa il Der Spiegel calcolava che a Tspiras occorrerebbero più di 10 miliardi di euro per tenere fede alle sue promesse elettorali. Soldi che al momento la Grecia non ha, e che certamente non riuscirebbe a prendere in prestito dai mercati. Inoltre, ha aggiunto il settimanale tedesco, se nel 2012 era necessario mantenere Atene nella zona euro per evitare la distruzione della moneta unica, oggi non è più così. La teoria del domino, secondo cui la Grecia, in un eventuale tracollo finanziario,  si sarebbe trascinata dietro gli altri Stati dell’Europa mediterranea, è stata messa da parte. Ora alla Germania farebbe più comodo che la futura Grecia guidata da Syriza si allontani dall’euro, ponendo fine ai continui attacchi politici contro i programmi di riforma economica. Ed evitando così di soffiare vento sulle vele dei partiti euroscettici di Spagna, Francia e Italia.
Non dimentichiamoci infatti che in Spagna Podemos ha forzato il sistema bipartitico attestandosi come seconda forza politica del Paese, capace di raccogliere il consenso di uno spagnolo su quattro. In Francia Marine Le Pen sembrerebbe avere doppiato in popolarità il Presidente Hollande. Ed anche in Italia i partiti euroscettici hanno dimostrato di poter raccogliere un considerevole consenso elettorale.
Un governo guidato da Tsipras potrebbe forse causare più danni alla Germania dall’interno dell’Eurozona, piuttosto che dal di fuori. Per questo oggi la “Grexit” non è più un tabù per i partner europei, come due anni fa. A dire no a questa eventualità sembrerebbero però essere proprio i Greci, cui in un recentissimo sondaggio commissionato dal giornale Eleftheros Typos è stato chiesto se desiderino che Atene resti o meno nell’euro. Una percentuale altissima degli intervistati, il 74 per cento, ha risposto “sì” o “probabilmente sì”. L’11 per cento in più rispetto all’anno passato.
p.s.
insomma Tsipras concorda con draghi che l'euro va salvato e che la Grecia rimanga dentro: quasi l'opposto di quello che veniva detto a bassissima voce qualche anno fa: cosa è cambiato? Che l'euro può fare a meno della Grecia grazie alle manovre dei politici greci che hanno riportato indietro i debiti facendoli pagare ai greci e quello che non hanno riportato è andato nelle mani di squali che non aspettano altro che spolpare definitvamente il popolo greco di quel pochissimo che gli è rimasto. Mi sarei aspettato una maggir coraggio da parte di Syriza; ma si sa che una cosa è parlare a vanvera dall'opposizione e un altra governare...... ora che finalmente vedono lo scranno governativo cambiano tono e linea, chissà perchè mi ritornano alla mente alcune parole del saggio "shock economy" della Klein laddove, parlando della caduta delle tigri asiatiche, provava provava che chi ha avuto il coraggio di dire no ai poteri istituzionali e finanziari internazionali si è trovato, non senza sacrifici sia chiaro, meglio di chi si è inchinato al loro diktat! Un pò di coraggio, suvvia.....

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