di PierGiorgio Gawronski | 15 gennaio 2015 sul Fatto Quotidiano
Sul Corriere del 29/12/14, dopo aver ricordato che in Italia “il Prodotto interno lordo scende da 13 trimestri”, i due alfieri del liberismo nostrano
offrono la loro ricetta 2015.0 per “porre fine alla recessione”. E
spiegano: “La riforma del mercato del lavoro non basta. Ci vuole anche
più domanda”. Bene. Cioè… insomma: se ci vuole più domanda, allora la
riforma del mercato del lavoro non è che “non basta”, è proprio dannosa:
deprime la domanda! “Ci vuole più domanda” è come dire che c’è un eccesso di potenziale di offerta. Ma il Jobs Act
mira a stimolare ulteriormente questo potenziale; se proprio lo si
vuole approvare, adesso, sarebbe meglio che entrasse in vigore quando la
domanda si sarà ripresa.
Domanda (aggregata) nel linguaggio degli economisti significa spesa, acquisti, e – dal punto di vista delle imprese – vendite.
In effetti il grafico dell’Istat sulle vendite delle imprese mostra
che la domanda continua a contrarsi: in ottobre il calo a/a è stato
-0,8%.
Ripetiamolo:
non basta che il barista prepari “100 caffè all’ora” (Bagnai) e li
poggi sul banco (con efficienza, produttività, onestà): deve anche venderli.
E perché mai la gente non dovrebbe comprarsi un buon caffè caldo, con
freddo che fa? Sì, è così: perché ha paura poi di trovarsi in
difficoltà economiche. Perciò s’indebolisce anche la domanda di lavoro
da parte delle imprese (grafico sotto), e il cerchio si chiude.
Ma
quanti sono i ‘caffè’ (ed altri beni e servizi) potenzialmente sul
banco, non acquistati (quindi, neanche prodotti) per mancanza o di
denaro o di fiducia? Quant’è il potenziale di offerta in eccesso
rispetto alla domanda? Non è una stima facile: qui ho presentato la mia per l’Italia. Nell’Economic Outlook del 25 novembre l’Ocse
ha presentato le sue stime per la zona Euro. Nel grafico la barra blu
rappresenta il 2013, quella rossa il 2014. L’Ocse stima che il sistema
produttivo italiano (corrotto quanto si vuole, inefficiente, poco
competitivo, tartassato, vessato dai burocrati, appesantito dai
fannulloni, e chi più ne ha più ne metta) è in grado di produrre oggi
così com’è, senza riforme strutturali e altre diavolerie, il 6% di Pil in più di quanto produce.
Le
stime dell’Ocse sono anch’esse iper-prudenziali. Ad es. si assume che
il 40% dei disoccupati italiani (e tutti gli scoraggiati) non siano più
in grado di inserirsi in modo produttivo nel mondo del lavoro. Però i
nostri disoccupati sono gente che ogni mese cerca attivamente lavoro,
ed è pronta ad iniziare ‘anche subito’: dunque i ‘caffè’ che potrebbero arrivare sul banco sono probabilmente molti di più; e non solo in Italia.
Un
aumento del 6% del Pil risolverebbe la crisi? Sì. Non solo ridurrebbe
il rapporto Debito pubblico/Pil dal 135% al 128%, ma porterebbe anche
il bilancio annuale dello Stato in pareggio, e la disoccupazione sotto
il 10%. Ciò calmerebbe i timori, avviando un nuovo ciclo di investimenti trainato dai consumi.
È
facile oggi, in Italia, generare un aumento del Pil del 6%? Sì. Non lo
sarebbe se occorresse risolvere un problema di offerta, della
struttura produttiva. Se, per dire, il famoso barista dei 100 caffè
all’ora fosse scomparso… Se il bar fosse crollato… Se il ponte che porta
al bar fosse interrotto … Bisognerebbe addestrare un nuovo barista,
ricostruire il bar, riparare il ponte: ciò richiederebbe tempo e fatica!
Ma per curare il deficit di domanda basta spendere soldi (i soldi si stampano,
o si prendono sui mercati finanziari). La conseguenza degli output gap
infatti è che i moltiplicatori di qualsiasi spesa – privata o pubblica
– sono altissimi.
Innanzitutto, ogni nuova spesa genera un aumento diretto del Pil all’incirca di pari importo (coefficiente 1:1). Scrive Alessandro De Nicola su Repubblica: “L’investimento pubblico dev’essere giudicato secondo un metro di costo opportunità”.
Giusto! Ma la disponibilità di tanti fattori produttivi ‘liberi’
azzera il costo opportunità! Non è più vero, come scrive, che “i soldi che vengono spesi per un aeroporto pubblico sono sottratti all’investimento o al consumo privato”:
di soldi ne circolano talmente tanti (grazie anche alle banche
centrali) che non si sa più dove metterli. La controprova la danno i tassi d’interesse negativi (non c’è concorrenza con l’investimento privato) e l’andamento deflattivo dei prezzi (nessuna concorrenza con il consumo privato). All’impatto diretto bisogna poi aggiungere gli effetti indiretti: l’indotto (in alcuni settori selezionati 0,5-2), e l’aumento dei consumi ‘perché mia la spesa è il tuo reddito’ (0,5). Il moltiplicatore
di una manovra ben fatta potrebbe essere: 1 +0,9 +0,5 = 2,4 da cui
bisogna sottrarre 1/3 che va ad acquistare beni esteri: 2,4/3 = 1,6.
Chi potrebbe spendere? Come fare in modo che accada? Vi sono due modi facili. (A) Mandare l’esercito ed obbligare i privati a spendere. (B) Usare la spesa pubblica
per acquistare beni e servizi, investire, finanziare programmi di
riduzione della povertà assoluta (stimolo a un’ipotesi A in versione
meno autoritaria). La tabella qui sotto descrive la situazione del 2014,
un aumento della spesa pubblica di 20 Mld. nel 2015, e ipotizza che
tutti i benefici cd ‘di breve termine’ si concentrino nel 2016. Nella
colonna centrale si ipotizza un moltiplicatore di 1,6, in linea con la
letteratura empirica recente per i settori suindicati. Una simile
manovra, rebus sic stantibus, ridurrebbe il rapporto Debito/Pil di circa due punti (righe 3 e 12, col. centrale).
Ma
cosa succederebbe se i moltiplicatori fossero più bassi? Ci viene in
soccorso una proprietà aritmetica: più grande è un rapporto, maggiore è
l’influenza del denominatore. Se il rapporto è 10/100=10%, aggiungendo
10 sia sopra che sotto: (10+10)/(100+10)=> 18% (il rapporto sale);
ma se il rapporto è 200/100 =200%, (200+10)/(100+10)=> 191%
(scende). Perciò il debito pubblico italiano calerebbe rispetto al Pil
anche con un moltiplicatore di 0,8 (colonna di sinistra, rigo 12). E se
invece l’Europa si associasse alla manovra? I risultati (colonna di
destra) sarebbero ancora migliori. Morale: quando si ha un debito pubblico elevato, l’unico modo di uscirne è puntare sul Pil. Che in questa congiuntura non reagisce al potenziale d’offerta (che è già in eccesso) ma solo alle variazioni della domanda.
L’articolo continua qui
p.s.
più chiaro di così...... ma si sa che non c'è peggior sordo di chi (....) non vuol sentire
p.s. 2
vi consiglio di leggere il resto dell'articolo.. su Micromega al link evidenziato dalla parola "qui" nel post
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