sabato 24 marzo 2018

Fico alla Camera e Casellati al Senato: chi vince, chi perde

Fonte (ne condivido in toto il pensiero): Il Fatto Quotidiano Politica | 24 marzo 2018

Roberto Fico Presidente della Camera e Maria Elisabetta Alberti Casellati Presidente del Senato. Qualche considerazione.
M5S. Ottiene la Presidenza della Camera, e ci mancherebbe altro con quel 32% lì. Il discorso di Fico è stato efficace e passionale: ha detto cose più condivisibili lui in 5 minuti che la Boldrini in 5 anni. Un discorso più da leader di opposizione che da Presidente della Camera, ma non ho dubbi che d’ora in poi saprà essere istituzionale come il ruolo che richiede. Non è portato per la tivù, ma è persona intelligente e preparata. La vera vittoria del Movimento è stata però avere imposto al centrodestra la defenestrazione dell’indigeribile Romani (anche se pure la Casellati non è esattamente Madre Teresa: rileggetevi cosa scrisse Gian Antonio Stella nel 2005 sul Corriere). C’è comunque poco tempo per gioire: il difficile, per Di Maio e per i suoi, arriva adesso.
Lega. Chi pensa che Salvini sia un coglione, non ha capito nulla di Salvini. Il ragazzo è scaltro, vispo, furbino e tutto fuorché scemo. Salvini è un Renzi che ce l’ha fatta. Ha messo – finalmente – le palle sul tavolo per dire a Berlusconi che il leader è lui. La “mossa Bernini”, che sarebbe stata peraltro molto meglio della Casellati al Senato, è servita a questo: “Silvio, vola basso che se alzi troppo la cresta andiamo al voto e a fatica raggiungi il 10”. Il centrodestra sta cambiando e si sta svecchiando. Se poi in meglio non so, ma di fatto chiunque può essere meglio di Berlusconi e Gasparri.
Forza Italia. Ha vinto, ma ha perso. La legislatura è appena cominciata e i forzitalioti sembrano già bolliti. Appartenenti a un’altra era geologica. Ottengono la Casellati e tamponano la falla-divisione nel centrodestra, ma i rapporti interni sono già logori. Quasi tutto, in Forza Italia, ha aria di muffa. E di caricaturale. Pensate a Sgarbi, che è già caricaturale di suo: ieri neanche ha fatto in tempo a (ri)entrare in Aula che si è subito fatto cacciare da Giachetti. Ora: se ti fa il culo Mazinga è un conto, ma se ti fai metter sotto da Giachetti sei davvero l’erede stitico del Poro Schifoso.
Forza Italia Bis. Attenti, però: quando Berlusconi sta per cadere, diventa ancora più cattivo. Farà di tutto per vendicarsi. E spingere Salvini (e Meloni) dall’allievo ripetente Renzi.
Pd. Marginali come José Mari nella storia del Milan. Anzi di più, perché José Mari almeno 5 gol in tre anni li fece.
Renzi. Vederlo al Senato (che diceva di voler cancellare) gonfio come una zampogna e col sorriso tiratissimo di chi ieri si sentiva Giulio Cesare e oggi il Poro Asciugamano, è stato emblematico. E anche – diciamolo – un po’ liberatorio. Speriamo duri (ma non ci giurerei).
E ora? Molti giornaloni, adesso, ripartiranno con la litania dell’ “accordo sicuro” tra M5S e Lega. Secondo quest’ottica, funzionale al Pd perché atta a far credere che Di Maio in realtà sia Goebbels e la Taverna Eva Braun, l’accordo su Camera e Senato sarebbe prodromico a un’alleanza di governo. Credo, al contrario, che non c’entri nulla. Nella storia della Repubblica Italiana le presidenze di Camera e Senato sono sempre andate alla maggioranza, tranne che nel periodo 1979-1994, quando la Dc (dopo la “non sfiducia” del ’76 e la solidarietà nazionale) “concesse” la Camera al Pci. Il quale, da solo, aveva percentuali non distanti da tutto il centrodestra attuale e sideralmente superiori al centrosinistra attuale: non si poteva tener fuori. In più, responsabilizzandolo con incarichi così importanti, la Dc sperava di “istituzionalizzarlo“. Altri tempi e altri contesti: oggi non poteva andare che così. Ma per il governo sarà tutta un’altra storia. E lunedì, sul Fatto, ve lo spiegherò meglio.
Politica | 24 marzo 2018

giovedì 22 marzo 2018

I cinque maggiori rischi geopolitici del 2018

Fonte: W.S.I. 22 marzo 2018, di Alessandra Caparello

NEW YORK (WSI) – Ci sono cinque grandi rischi geopolitici per l’anno a venire: lo dice la think tank con sede a Washington Atlantic Council.
Tali rischi includono lo stress politico degli Stati Uniti, nonché potenziali guerre commerciali tra Washington e Pechino. Quattro delle cinque maggiori minacce al sistema politico globale quest’anno sono direttamente legate all’amministrazione del presidente Donald Trump.
“Quello che preoccupa dei primi giorni del secondo anno del Presidente Trump è che lo stress politico che arriva da Washington sta crescendo mentre la capacità del mondo di assorbire nuovi shock sta diminuendo”.
Così in una nota Fred Kempe, presidente e CEO di Atlantic Council.
“Quindi, occorre prepararsi  per un anno a venire che è pieno di rischi, uno in cui gli Stati Uniti e il mondo dovranno affrontare una prova di stress tra potenziali shock politici ed economici.
Quali sono questi possibili shock, secondo Kempe?
  • “Una presidenza statunitense sotto esame a causa di un’indagine sempre più approfondita sulla potenziale collusione con la Russia durante le elezioni presidenziali del 2016 e che ha subito un’inversione di tendenza senza precedenti (…)
  • Potenziali guerre commerciali in seguito all’imposizione da parte dell’amministrazione Trump di nuove tariffe per l’alluminio e l’acciaio, che potrebbero essere esacerbate da ulteriori misure commerciali contro la Cina, in particolare quelle relative al furto di proprietà intellettuale (…)
  • Accordi con Vladimir Putin in Russia: domenica il leader russo ha ottenuto un quarto mandato al potere grazie a elezioni nazionali che, come la maggior parte delle elezioni russe degli ultimi anni, sono ampiamente sospettate di frode.
  • Preparazione di uno storico vertice tra Stati Uniti e Corea del Nord, che si terrà già a maggio, che potrebbe ridurre notevolmente o aumentare il rischio di guerra nella penisola coreana (…)
  • Crescenti tensioni con l’Iran, con l’avvicinarsi della scadenza di maggio fissata da Trump per decidere se abbandonare o meno l’accordo nucleare”.

mercoledì 21 marzo 2018

Nuovo governo, M5s traccia il suo perimetro. Nonostante la trappola del Rosatellum

Fonte: Il Fatto Quotidiano Politica | 21 marzo 2018 

C’è qualche segnale di movimento, dopo due settimane che lasciavano immaginare un post voto persino più sfibrante della campagna elettorale, anche perché l’imminente elezione dei presidenti delle Camere impone a vincitori e sconfitti, inclusi quelli che come Silvio Berlusconi pretenderebbero di continuare a distribuire i posti, di prendere atto della realtà.
Oltre al frutto politico avvelenato della legge elettorale che, concepita per azzoppare la vittoria del M5S, rischia di infilare il paese in un cul de sac il paese, si sono dispiegati anche sul piano “tecnico” gli effetti nefasti del Rosatellum.
Infatti ci sono voluti ben quindici giorni perché finalmente la Corte di Cassazione riuscisse a diffondere la lista definitiva degli eletti che è arrivata in contemporanea con l’adempimento delle formalità di inizio legislatura per i neosenatori; e la serie di verifiche, riconteggi e ricorsi si deve alle complicazioni, mai viste prima de Rosatellum, per la redistribuzione dei voti all’interno delle coalizioni combinate con la possibilità per ogni candidato di correre in ben cinque diversi collegi plurinominali.
Nessuno tra i maggiori responsabili nonché beneficiari, secondo le intenzioni, dei macchinosi inghippi del Rosatellum ha accennato minimamente ad un mea culpa.
Ettore Rosato – artefice del capolavoro legislativo – a chi osa avanzare qualche perplessità sugli effetti del prodotto, risponde sprezzante (come ha fatto giovedì scorso a Piazza Pulita) che si è trattato della legge elettorale approvata con il più vasto consenso parlamentare della storia repubblicana ma si dimentica di aggiungere che è avvenuto anche “grazie” alla raffica di voti di fiducia; poi senza il minimo imbarazzo fa notare che prima si votava con il Porcellum. Poi abbastanza sorprendentemente lo stesso Ettore Rosato si è dichiarato favorevole ad un referendum tra gli iscritti in merito ad una eventuale ipotesi di governo con il M5S e solo 24 ore dopo ha ritenuto opportuno smentirsi dichiarando che il referendum da sottoporre agli iscritti manca “dell’oggetto” e cioè la proposta: ma se è così non sembra che ci fosse nemmeno il giorno prima.
Intanto la coppia del Nazareno, con i relativi supporter, è più che mai impegnata nel tentativo di impedire con mezzi di molteplice natura qualsiasi uscita dallo stallo che non li veda almeno coprotagonisti. E che Renzi con il suo cospicuo plotone parlamentare di fedelissimi in grado, non si sa ancora per quanto, di condizionare le mosse di un partito in stato confusionale così come B. impensierito dalla “spregiudicatezza” di Matteo Salvini e terrorizzato dallo spettro di nuove elezioni vogliano convergere un’irresistibile quanto improbabile ammucchiata PD- centrodestra è quasi una non notizia.
Così mentre i capigruppo del M5S stanno facendo il secondo giro di colloqui con tutti per le presidenze delle camere da FI è arrivato solo da Toti l’ovvio riconoscimento che “il M5S è indubbiamente l’interlocutore istituzionale” mentre B. dall’alto del suo 14% si era compiaciuto di “aprire la porta per cacciarli” con contestuale raccomandazione ai neoletti di avvicinare i “grillozzi“, come li chiama con trasudante disprezzo Il Foglio, per “persuaderli” con discrezione e con i consolidati metodi alla sua causa.
E analogamente i renziani stanno perseverando nel non capire, come gli ha rimproverato persino Andrea Orlando, fino a prova contraria non un fan grillino, che sarebbe ora di “fare basta con la spocchia verso i 5Stelle sui congiuntivi, sui curriculum e sulle proposte”. Anche perché, come ha dovuto ancora una volta spiegare una voce fuori dal coro e vicina alla realtà, questa volta quella del giovane Nicholas Ferrante, giunta da Avellino, gli elettori del Pd “hanno votato il M5S contro un sistema marcio e clientelare, contro i signori delle tessere” e cioè hanno guardato dove hanno individuato la difesa di valori, principi e beni comuni ed irrinunciabili come “l’onestà, la moralità, la sovranità popolare, la democrazia diretta, il lavoro, i diritti, l’acqua pubblica” che non ha più trovato casa e da troppo tempo nel loro partito di riferimento.
Di Maio alla prima riunione con i senatori ha ribadito che prima ci si accorderà sui metodi e poi sui nomi e per non sbagliare con un preciso riferimento ai nomi che circolano per il Senato, in primis quello di Paolo Romani, ha di nuovo sottolineato con assoluta chiarezza il NO per chi è condannato o sotto processo. Beppe Grillo in una lunga intervista a Repubblica ha ripetuto che “l’epoca dei vaffa è finita ma quella degli inciuci non comincerà”.
Per ora, anche se a qualcuno può sembrare poco, mentre a tanti navigatori di lungo corso e rottamatori gattopardeschi la conferma della sprovvedutezza e dell'”infantilismo” del M5S, il perimetro minimo della trasparenza, della disponibilità all’accordo nel rispetto delle istituzioni, della coerenza con i valori di riferimento è stato tracciato.

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Politica | 21 marzo 201

martedì 20 marzo 2018

Alexander Nix, chi è il numero uno di Cambridge Analytica che schedava gli americani

Fonte: Il Fatto Quotidiano Tecno | 20 marzo 2018 
“Il suo nome era Cerutti Gino ma lo chiamavan drago, gli amici al bar del Giambellino dicevan che era un mago…” cantava Giorgio Gaber.
Anche al protagonista di questa storia sono stati attribuiti poteri straordinari, doti miracolose, attitudini stregate. Chi lo intervistava per commentare il successo elettorale di Trump sembrava abbagliato dal suo misterioso carisma e, a cercare in Rete qualche traccia di quel momento, non si fatica a trovare elogi e celebrazioni. Chi si è sperticato in quelle lodi – tipiche di chi si genuflette dinanzi ai potenti e ai suoi scudieri – ha dato prova di non conoscere il personaggio in questione o di essersi limitato ad una superficiale pratica adulatoria, senza approfondire il vero profilo del tizio prima di osannarlo. Ma il mondo è questo e il plauso troppo spesso è riservato a chi ottiene risultati a prescindere della correttezza o della liceità del suo operato.
Il nostro “Cerutti Gino” si chiama Alexander James Ashburner Nix. Nato il 1° maggio 1975 e cresciuto a Londra nei dintorni di Notting Hill, ha studiato all’Eton College e alla Machester University.
Appena laureato in Storia dell’Arte lavora per qualche mese come junior financial analyst negli uffici di Città del Messico di Baring Securities, poi torna per un paio d’anni in Inghilterra ad occuparsi di pubblicità, quindi si trasferisce in Argentina per vendere soluzioni tecnologiche di supporto al business. Nel 2000, nuovamente a Londra, per un po’ si dedica alla finanza aziendale, assume il ruolo di direttore strategico di Athena Trust e infine approda agli Strategic Communication Laboratories (l’SCL Group che lavora per la difesa e altre realtà governative) e lì nel 2013 diventa responsabile della loro affiliata britannica Cambridge Analytica.
Progressivamente trasborda la sua esperienza dal settore dei comportamenti umani al più avvincente (e redditizio) contesto dello “psychological warfare”: le sue conoscenze della personalità della popolazione abbinate a strumenti tecnologici con elevata capacità di memorizzazione e di calcolo danno forma ad un vero e proprio centro di potere in grado di condizionare qualsiasi scelta di una platea sterminata di elettori o consumatori.
Suelette Dreyfus, assistente universitaria alla School of Computing and Information Systems dell’ateneo di Melbourne, l’anno scorso diceva che l’arma dei “big data” messa a disposizione dall’industria di settore avrebbe aiutato i politici a mentire meglio, sottolineando la straordinaria possibilità di personalizzare la manipolazione dell’informazione. Il signor Nix non ha mai accettato simili addebiti, dichiarandosi banalmente un fornitore di servizi interessato soltanto a offrire il meglio alla propria clientela. Il cosiddetto “microtargeting”, ossia il prendere di mira non un pubblico indiscriminato ma zoomare sul singolo individuo, è semplicemente il suo punto di forza.
Stephanie Wood, giornalista di The Canberra Times, ha studiato Nix scandagliandone il passato e impegnandosi a luglio scorso in una intervista che l’ha fatta trovare dinanzi a una sorta di muro di gomma. Il numero uno di Cambridge Analytica si è trincerato dietro la sorprendente barricata della difesa della propria privacy, proprio lui che quella degli altri profana costantemente.
Stephanie, tornando in taxi alla redazione, tira fuori lo smartphone dalla tasca e accede a Facebook: vuole vedere se l’impenetrabile Alexander Nix ha un profilo. Naturalmente non ce n’è traccia. Comincia a scorrere i post presenti sullo schermo sulla sua pagina iniziale del social network e si accorge che qualcuno ha appena pubblicato un link ad un quiz che dovrebbe rilevare i segreti della personalità. Dato che non crede alle combinazioni, sorride e clicca sull’opzione che permette di escludere in futuro contenuti di quel genere.
Purtroppo quel tipo di passatempo, apparentemente innocuo, è stato lo strumento per radiografare milioni e milioni di utenti che – incuriositi dall’opportunità di scoprire qualcosa di nuovo riferito alle proprie caratteristiche, passioni, tendenze – non hanno capito di essersi confessati con l’interlocutore sbagliato.
In occasione delle elezioni per la Presidenza statunitense la banda di Nix ha schedato 220 milioni di americani. Non pensiamo alla solita raccolta di nomi, luoghi e date di nascita, indirizzi urbani o di posta elettronica: ogni persona è archiviata con una sorta di cartellino digitale che – se completo – contiene 5000 data-points (quelli che un tempo gli informatici chiamavano “campi” e che corrispondono in pratica alle singole voci di un qualunque modulo di compilazione quotidiana).
Probabilmente – e sarà una brutta giornata quella in cui scopriremo l’inutilità di tale avverbio – è capitato qualcosa di analogo anche in altre circostanze e in altri ambiti geografici, a dispetto di qualsivoglia regola o legge in materia di riservatezza dei dati.
Quel che maggiormente impressiona è il silenzio di chi dalle nostre parti è incaricato di tutelare la privacy dei cittadini. Sembra che il caso Facebook/Cambridge Analytica sia accaduto su un altro pianeta, forse in un’altra galassia.
Nel frattempo la stampa coraggiosa, approfittando della lentezza (o dell’inerzia) delle istituzioni, procede ad una sorta di rastrellamento. La guerra dell’informazione è fatta anche di reporter dissimulati (è il caso dei giornalisti del britannico Channel 4 News) che sono riusciti a farsi raccontare cose incredibili da dirigenti di Cambridge Analytica (che mai avrebbero immaginato di perire della stessa loro spada). E’ così saltato fuori che il personale di Nix non andava tanto per il sottile non disdegnando di ricorrere alle più bieche tecniche per aiutare i propri committenti, dall’incastrare candidati politici rivali con fasulli tentativi di corruzione al far cadere in trappola chi non resisteva alla seduzione di procaci prostitute.
Facebook è precipitata sul mercato azionario e si ritrova a dover gestire il fin troppo ovvio terremoto interno determinato dalla caccia ai responsabili della vicenda (le dimissioni del capo della sicurezza Alex Stamos sono solo il primo scossone), Cambridge Analityca sembra prossima a veder perquisita la propria sede, e il meglio pare debba ancora arrivare.
Però chi non ricorda qualcosa della propria vita, anche qualche dettaglio insignificante, sa a chi può chiederlo…
Tecno | 20 marzo 2018

lunedì 19 marzo 2018

Europa, tempo due anni e scoppierà tempesta perfetta

Fonte: WSI 19 marzo 2018, di Alessandra Caparello
NEW YORK (WSI) – Tempo due anni, nel 2020, e in Europa si realizzerà la tempesta perfetta. Tanti i fattori in gioco: Jens Weidmann che porrà fine al quantitative easing, la riforma di Macron che non risolverà nessuno dei problemi strutturali della regione, l’Italia sempre più euroscettica e infine la guerra commerciale di Trump. Ma andiamo per ordine.
È sempre più evidente che alla fine del 2019 Jens Weidmann, attuale presidente della Bundesbank, sostituirà Mario Draghi al timone della Banca centrale europea. Il cambiamento in termini di politiche economiche sarà radicale. Il falco Weidmann crede in una moneta forte e in una bassa inflazione  e più volte ha espresso la sua opposizione a tutto ciò che Mario Draghi ha rappresentato negli ultimi anni manifestando la sua volontà di fermare il programma di Quantitative easing e di sostituirlo con tassi di interesse più elevati. Cosa succede quando i tassi di interesse aumentano? Se salgono troppo in fretta, i mercati crollano.
Poi c’è Emmanuel Macron. La stampa finanziaria ridicolizza il Presidente americano Donald Trump e considera il suo omologo francese una manna dal cielo. Eppure, se si considerano le loro politiche precedenti, si trovano similitudini ma a livello di risultati no. Poi c’è l’imminente guerra commerciale di Donald Trump.
E infine le elezioni italiane. L’Italia è ufficialmente un paese euroscettico. Le parti principali impegnate nel progetto di integrazione europea sono state sconfitte ed è difficile prevedere se il paese avrà un governo. Il Movimento 5 stelle ha ottenuto il maggior numero di seggi, mentre il Partito Democratico sta implodendo: la base vuole sostenere un governo M5S perché “è qui che sono andati i nostri elettori”, ma la probabile leadership futura sotto l’ex ministro dello Sviluppo Carlo Calenda non ha alcuna intenzione di farlo. La Lega ha la coalizione più forte, ma non ha i numeri.
Mario Draghi sarà eventualmente disponibile per la carica di primo ministro di un governo presumibilmente tecnico solo nel 2019 e il M5S potrebbe finire per aiutarlo, ma sostenere un esecutivo tecnocratico sarebbe la fine del movimento di protesta. L’altra faccia della medaglia è che una volta che Draghi non sarà più a capo della BCE, e non si potranno mantenere bassi i tassi di interesse a vantaggio dell’Italia, le argomentazioni a favore di un’Italia che rimanga nell’area dell’euro si esauriranno.

domenica 18 marzo 2018

Reddito di cittadinanza, le questioni fondamentali sono 3

Fonte: Il Fatto Quotidiano Società | 18 marzo 2018  di Emiliano Romeo


Thorwald Dethlefsen, psicoterapeuta, diceva che la ‘malattia della cultura’ può essere curata solo con altra cultura. Un po’ di cultura ci spinge a guardarci indietro con un senso di superiorità, molta cultura ci spinge a guardarci avanti, rendendoci consapevoli che l’ignoranza che resta sarà forse sempre maggiore della conoscenza accumulata, e questo ci porta a mettere in dubbio tutto ciò che diamo per assodato.
Il reddito di cittadinanza è una di quelle questioni in cui si misura la distanza tra un Paese che si guarda alle spalle e un Paese che si guarda avanti. Va premesso che chi scrive è molto scettico in merito: non credo che il reddito di cittadinanza, non come è stato promesso almeno, si riuscirà a realizzarlo, e non certo per una questione di una carenza di fondi.
Il problema che l’Italia si trascina dietro da almeno un trentennio è la soglia bassissima di Utopia, nel senso che molte cose, anche quelle che non appartengono al mondo delle fantasie ma alla categoria del miglioramento, in Italia sono così lontane dalla realtà da risultare utopiche. Figurarsi il reddito di cittadinanza. Ma veniamo al punto culturale.
Il primo punto per cui il reddito di cittadinanza viene criticato è il discorso secondo il quale è moralmente ed eticamente dannoso e lubrico ricevere denaro senza aver prima lavorato. Cosa che peraltro il reddito di cittadinanza nemmeno prevede, ma restiamo sul tema. Il discorso che il lavoro nobiliti l’uomo fa certamente parte di quel substrato culturale con cui siamo cresciuti, una di quelle affermazioni che ogni bambino, non appena viene educato, più che apprendere, per dirla con il grande filosofo Wittgenstein, semplicemente inghiotte.
Nessuno comincia la vita dallo stesso blocco di partenza. E non tutti conosceranno nella loro esistenza il sudore della fronte, o svolgeranno mansioni che sono minimamente impegnative. Davvero, ammesso ovviamente sia possibile da realizzare in terra, si vuole credere che sia moralmente sbagliato avere diritto a priori e non per merito a non morire di fame, ad avere un tetto? Che sia sbagliato mettere al di sopra e non al di sotto della fortuna alcuni diritti fondamentali? Anche qui solo la cultura può mediare e farci trovare un punto di mezzo tra il socialismo reale, il ‘non-non comunismo’ (Paolo Virno) e il capitalismo più liberale.
La seconda remora è, se consentite, ancora più miope, anche se sincera. Con il reddito di cittadinanza nessuno vorrà più lavorare. Tutta la storia umana, fatta di violenti appetiti, ci fa essere inequivocabilmente sicuri di quanto sia momentanea la capacità di accontentarsi dell’uomo. E state certi che sarà molto più produttivo un uomo che entra nel mondo del lavoro aizzato dalla voglia, e non trascinato per i capelli dal bisogno. Io, per esempio, non mi accontenterei.
Ma veniamo al terzo punto. Davvero mettere al sicuro l’economia dagli sbalzi del mercato, dal lavoro sempre più precario che rende i consumi un’altalena impazzita, è qualcosa di sbagliato per questa povera Italia? L’automazione sta sostituendo sempre più il lavoro. Sta a noi rendere questo una fortuna e non un problema. Una volta che tutti i lavori di esecuzione saranno scomparsi, cosa faremo? Ci reinventeremo tutti creativi? Non credo sarà possibile. Anche perché non ci sarà nessuno con un salario adeguato a pagare la nostra creatività. È per questo che l’intellettuale Noam Chomsky, già negli anni ‘80, ha detto che presto l’idea che vivere richieda vendere in affitto il proprio tempo sarà considerata un’idea impensabile come lo è oggi il pensiero della schiavitù, almeno nel mondo cosiddetto libero.
È forse questo l’ultimo momento in cui rimangono risorse per investire, prima di essere presi in contropiede dalla storia, che come è noto ha il potere di girare i cardini delle porte al contrario. La priorità è investire nel reddito e nella cultura, per non inghiottire più troppe affermazioni senza pensarci, e troppe politiche che non ci meritiamo.

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