mercoledì 13 dicembre 2017

Perché diventiamo Neet? Siamo colpevoli di aver assecondato le nostre inclinazioni

Fonte: Il Fatto Quotidiano Lavoro & Precari | 13 dicembre 2017 
 

di Stefano Menolascina
Conseguire al giorno d’oggi una laurea magistrale, uscire dall’ovattato mondo universitario e arrabattarsi a cercar lavoro significa imbattersi in ostacoli insormontabili e delusioni cocenti: è il destino di chi detiene una delle cosiddette “lauree deboli”, anche se ottenuta con il massimo dei voti e con la lode.
Iniziano le vane e umilianti peregrinazioni dai Centri per l’impiego alle Agenzie private di somministrazione, le lunghe attese davanti agli sportelli, gli umilianti colloqui con addetti spesso annoiati, a volte infastiditi, raramente empatici e gentili. I rituali d’ingresso si susseguono invariabilmente secondo lo stesso copione, inesorabilmente identici, monotoni, frustranti, tanto nel pubblico quanto nel privato. Nasce qualche sospetto che le domande di routine servano esclusivamente ad arricchire le banche dati.
S’inviano centinaia, se non migliaia, di curricula, corredati da opportune lettere di presentazione, ovviamente stilate ad hoc, in cui si ha l’impressione di doversi pubblicizzare come merce in vendita, ma che raramente conducono all’agognato colloquio presso un potenziale datore di lavoro. Ci si dichiara disponibili a tutto, anche a stage non retribuiti, a tirocini sotto pagati, persino a lavorare gratis. Al nulla di fatto segue la disperazione, per cui si finisce per rivolgersi ai Centri d’orientamento, o a psicologi, con il risultato di uscirne frastornati, con la consapevolezza di essere le persone sbagliate, al posto sbagliato, nel momento sbagliato.
Ci si rassegna a gravare ulteriormente sul magro bilancio familiare e ci s’imbarca in uno dei costosi master post-lauream proposti dalle varie università. Ma, poiché la situazione resta immutata, ci si auto-accusa per aver voluto assecondare le proprie inclinazioni, disobbedendo alla ferrea volontà del dio mercato, che esige informatici, ingegneri, tecnici, non certo degli umanisti. A che servono infatti coloro che possiedono una cultura, magari vasta, poliedrica e plurilinguistica? Non sono certamente utili a una società globalizzata e tecnologicamente avanzata, senza dubbio non sono le risorse necessarie ai mercati, alle aziende, alle multinazionali.
È stato un disastroso flop il tanto atteso progetto Garanzia giovani, che si sperava avrebbe risolto il problema dell’inoccupazione, o perlomeno ci avrebbe condotto all’acquisizione dell’esperienza indispensabile ad accedere al mondo del lavoro. Nella maggior parte dei casi la pluriennale iscrizione al piano non sortisce né lavoro, né esperienza, né formazione; sovente tutto si risolve in un colloquio con il personale dei Centri per l’impiego, e nella stesura di un piano d’azione individuale che non genera nessuno degli effetti auspicati.
Al fine di rendersi più appetibili agli occhi del mercato, si affrontano ulteriori esborsi, sempre alle spalle della famiglia, per colmare le lacune della propria formazione: si seguono corsi ad hoc e s’intraprendono percorsi di studio e lavoro all’estero. Al ritorno in patria, ci si scontra con le dure leggi di un mercato che non valorizza conoscenze, competenze e talenti. Le barriere innalzate dalle aziende e dagli intermediari sono insormontabili: è indispensabile risiedere nelle immediate vicinanze del luogo di lavoro – inutile dichiararsi disponibili a trasferire il proprio domicilio – è tassativo non aver superato l’età d’apprendistato, è categorico aver maturato una pluriennale esperienza specifica.
I pochi colloqui che si riescono a spuntare a volte conducono a episodi paradossali e grotteschi, se non fossero frustranti e tragici. Si può essere arruolati “in prova” per solo un giorno e, concluso il lavoro necessario, essere congedati con pochi soldi a titolo di rimborso spese, con i pretesti più astrusi, magari affermando che non c’è stato feeling con le colleghe. Si può essere criticati e messi in discussione non per questioni di skills, ma per lo standing non sufficientemente curato, o perché il paletot non ricade con un perfetto aplomb. Si può essere convocati per un colloquio, percorrere decine di chilometri e sentirsi riferire che il responsabile del personale o il titolare dell’Azienda sono indisposti, per cui l’incontro è rinviato sine die.
Anche le più estenuanti e caparbie ricerche di lavoro finiscono per essere vanificate da un sistema perverso: aziende e intermediari non attestano la ricezione del dossier di candidatura, i selezionatori dopo il colloquio o non forniscono il feedback fondamentale per migliorare le proprie performance, oppure lasciano l’aspirante lavoratore in perenne attesa di Godot, trincerandosi dietro un silenzio assordante. Se osiamo sollecitare il responso utilizzando il perentorio linguaggio giuridico, talvolta veniamo liquidati con risposte monolitiche, preconfezionate, generiche, elusive, a volte scortesi. Abbiamo l’impressione di esserci auto-lesi, poiché abbiamo osato troppo, apparendo così fastidiosi e importuni.
Ecco perché frustrati, delusi, finiamo per arrenderci, per vivere alla giornata, per sentirci ormai vecchi, sfiniti e privi di speranza a 30 anni.
Non ci è nemmeno concessa la chance di reinventarci imparando un mestiere: l’età d’apprendistato termina a 29 anni. Siamo diventati dei Neet.
Lavoro & Precari | 13 dicembre 2017

martedì 12 dicembre 2017

Italia, lavoro “a termine”: 33% contratti a tempo dura un giorno

WSI 12 dicembre 2017, di Mariangela Tessa


Migliora la situazione occupazionale in Italia, che ritorna ai livelli pre-crisi, anche se a riportare i numeri in alto sono i contratti a termine, specie se brevissimi, mentre crollano gli autonomi e i giovani stentano a inserirsi.
È una fotografia a luci e ombre quella emersa dal primo primo rapporto sul mercato del lavoro frutto della collaborazione di ministero del Lavoro, Istat, Inps, Inail e Anpal.
Ma vediamo nel dettaglio i numeri. Nel primo semestre 2017 in Italia gli occupati erano circa 23 milioni, cifra vicina ai livelli pre crisi del 2008, sebbene in termini di ore lavorate per addetto il gap resti rilevante: quasi il 6% in meno. Conseguenza diretta del calo dell’attività produttiva e dell’incremento dei posti a tempo parziale.
La crescita è basata prevalentemente sui contratti a tempo determinato (che nel 2017 hanno toccato i massimi dal 1992 a 2,7 milioni di persone), e nei settori agricoltura e servizi. E oltre 500mila lavoratori “somministrati“, che lavorano nel 95% dei casi con contratti brevi. O brevissimi. Il dato medio è di 12 giorni, ma il 58% viene chiamato in servizio per meno di sei giorni e il 33,4% (era il 30,5% nel 2012) addirittura per una sola giornata.
E i tanto attesi “effetti Jobs Act“? Nel 2015 e 2016 gli sgravi contributivi per le assunzioni stabili hanno fatto “crescere significativamente” l’occupazione a tempo indeterminato, ma non tanto da riportarla al massimo storico fatto segnare prima della crisi. Come emerso da tempo, poi, la ripresa occupazionale ha beneficiato soprattutto i lavoratori senior. Nel periodo 2008-2016 il tasso di occupazione in Italia per i 15-34enni è diminuito di 10,4 punti rispetto al 2008, a fronte di un aumento di 16 punti per i 55-64enni e di 1,5 punti per i 65-69enni.

lunedì 11 dicembre 2017

Caso NSA, Kaspersky aveva ragione?



Roma - Negli Stati Uniti si torna a parlare di Kaspersky e della sua presunta collaborazione con i servizi segreti russi, uno sviluppo che in realtà rappresenta la prima, vera conferma di quanto ha sempre sostenuto l'azienda: i file segreti della NSA sono stati intercettati dall'antivirus ma solo perché erano sul PC di un dipendente piuttosto incapace in fatto di OPSEC.

Il dipendente in oggetto sarebbe quindi Nghia Hoang Pho, sessantasettenne del Maryland che ha lavorato per anni presso la divisione Tailored Access Operations (TAO) di NSA, e che ora si è dichiarato colpevole davanti ai giudici federali di possesso "consapevole" di materiale e informazioni di proprietà della Difesa.

Hoang Pho ha collaborato con la sezione di hacker dell'intelligence sin dal lontano 2006, e nel 2010 ha cominciato a "portarsi il lavoro a casa" copiando i file di NSA sul proprio PC. L'emorragia di informazioni sarebbe durata dal 2010 al marzo del 2015, e ora l'uomo rischia una pena massima di otto anni di galera.

Le fonti dicono che Pho è il principale responsabile della saga di "Kaspersy contro Washington", visto che dal suo sistema gli analisti moscoviti avrebbero sottratto informazioni e binari riconducibili alle cyber-armi dell'intelligence russa.

Kaspersky ha sempre professato la propria innocenza dicendo di essersi trovata tra le mani i file grazie alle analisi automatizzate del proprio antivirus, mentre la violazione dei segreti di NSA da parte del Cremlino sarebbe riconducibile a un'infezione da malware presente sul sistema di Hoang Pho.

Di certo la vicenda rappresenta l'ennesima conferma del fatto che, in quanto a OPSEC, nemmeno alla NSA difetta l'incapacità: Nghia Hoang Pho è solo l'ultimo di una serie di leak clamorosi di materiale informatico riservato o segreto, solo nell'ultimo periodo si contano i 50 Terabyte sottratti da Harold Thomas Martin III e la soffiata di Reality Winner sulle indagini di NSA nel Russiagate.

Alfonso Maruccia

giovedì 7 dicembre 2017

Sanità Lombardia, i percorsi di cura sono il nuovo business?

Economia & Lobby | 3 dicembre 2017 () Il Fatto Quotidiano

Ho partecipato, sabato 18 novembre, alla presentazione dell’assessore alla sanità della Regione Lombardia Gallera presso il palazzo della Regione, dei “vantaggi del nuovo percorso di cura per il paziente cronico”. I punti positivi sono elencati nel libretto di presentazione:
1. Più qualità della vita;
2. Più personalizzazione delle cure;
3. Più accompagnamento.
Io sono rimasto basito dalle parole dell’assessore che ha reso positivo qualcosa che, a mio avviso, di positivo ha poco. Intanto non ha ricordato che una delle “menti” della ennesima riforma sanitaria, Fabio Rizzi, è stato arrestato e l’ex assessore Mantovani è nuovamente indagato per appalti in sanità. Diciamo una riforma che proprio non ha garanti iniziali affidabili.
Ma poniamo che possa passare anche attraverso le imminenti elezioni regionali lombarde, ha effettivamente quei punti positivi citati? Intanto i numeri. A Milano solo il 30% dei medici di base, che prendono per ogni paziente 32 euro l’anno circa per “prendersi cura” del paziente, ha accettato di prenderne altri 35-45 l’anno (a seconda della gravità della cronicità) per far da “badante” e da “segretario particolare”. Quindi vuol dire che fino a ora questi pazienti cronici non sono stati curati con cure personalizzate come indica l’assessore Gallera? Mi vorrebbe dire che un diabetico ed un iperteso ha assunto da quando c’è il sistema sanitario nazionale terapie non idonee?
Altra cosa è pagare un “gestore” che faccia quel che la tecnologia e il paziente stesso potrebbe fare con una spesa molto inferiore per la comunità (3 milioni di pazienti cronici in Lombardia per una media di 40 euro fanno la bellezza di 120 milioni di euro l’anno).
Senza contare che, restando a Milano, il 70% dei cronici saranno gestiti da strutture sanitarie che potranno molto probabilmente essere private accreditate e che aumenteranno i loro introiti in esami “utili” al percorso: senza controlli appropriati credo che questo sicuramente avverrà. Credo invece che i vantaggi si possano avere solo istituendo dei presidi di medici di zona presso ospedali o cliniche accreditate che possano fare da filtro iniziale, per ridurre gli accessi inutili ai pronto soccorso, e di accompagnamento per le cronicità.
Medici del territorio già pagati per quel che svolgono (32 euro circa per un massimale di 1500 cittadini fanno 48.000 euro all’anno) che coprono i turni ospedalieri di presidio 24h24 utili anche per il loro aggiornamento e confronto con i colleghi. Poche ore in più di lavoro, più a contatto con la salute vera e meno con la burocrazia, per una nuova sanità meno dispendiosa e più partecipe.
Economia & Lobby | 3 dicembre 2017

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Buon weekend

mercoledì 6 dicembre 2017

Sanità, Unipol: “Collettivizzare la domanda di welfare per un’alleanza pubblico-privato”. Ma l’efficacia è dubbia

Puntuale come un orologio, Unipol torna a bussare alla porta del governo di turno. E lo fa chiedendo maggiori incentivi fiscali per il welfare privato, cioè per quella fetta della popolazione che, talvolta in proprio, ma soprattutto per il tramite della propria azienda o cassa previdenziale e simili, decide di sottoscrivere una polizza assicurativa per mettersi al riparo dai possibili imprevisti della vita in campo sanitario. La richiesta del gruppo delle coop è arrivata al ministro del Lavoro – ed ex numero uno di LegaCoop – Giuliano Poletti, nel corso del frequentatissimo convegno annuale di Unipol sul tema. Eloquente il titolo scelto per l’edizione 2017 che cade a una manciata di mesi dalla prossima tornata elettorale: “A ognuno il suo welfare. Bisogni mutevoli, scelte individuali, risposte integrate”.
Il numero uno della terza compagnia assicurativa del Paese, che volente o nolente sarà tra i protagonisti del salvataggio in corso di banca Carige, ha spiegato che gli incentivi fiscali varati dal governo di Matteo Renzi in tema di welfare aziendale nella legge di Bilancio per il 2017 non bastano già più. Lo Stato deve nuove concessioni per favorire l’ascesa delle assicurazioni nella sanità. “Il welfare aziendale è certamente in forte ascesa, complici anche i primi incentivi introdotti dal governo – ha spiegato Cimbri – Certo, va stimolata e accelerata una tendenza che è già in atto con una maggiore a più ampia incentivazione fiscale”. Secondo il numero uno di Unipol non c’è più un unico interlocutore sul welfare, ma c’è “spazio per tutti. Per il pubblico, ma anche per noi privati”. Per questo è sostanziale “collettivizzare la domanda di welfare e giungere ad un’alleanza pubblico-privata”, ha spiegato ancora Cimbri.
Sul come raggiungere questo obiettivo, l’ad di Unipol non ha dubbi. Due gli strumenti principe: da un lato fondi territoriali che possono nascere su iniziativa pubblica ma vengano gestiti poi da privati, dall’altro il welfare aziendale. Un’area quest’ultima che Unipol conosce bene. E’ proprio qui, infatti che punta maggiormente la controllata UniSalute, molto attiva negli accordi collettivi che stanno dando i loro frutti. Il “centro di eccellenza di Unipol nel comparto salute” ha chiuso il 2016 con 5,4 milioni di clienti e oltre 40 milioni di utili, forte di premi in crescita del 13% circa a quota 400 milioni di euro, quasi metà andati in risarcimenti. Su questo fronte, all’aumento delle denunce di sinistro (440mila in più del 2015) non è corrisposto un pari incremento di liquidazioni (230mila in più del 2015). Quasi raddoppiati, invece, i reclami dei clienti contro la compagnia rilevati nel registro della vigilanza sulle assicurazioni: oltre 2100 più della metà dei quali sono stati accolti.
Quanto alle richieste alla politica, non è la prima volta che Unipol va alla carica. Del resto, un maggiore sostegno pubblico al welfare privato spalancherebbe alle compagnie le porte di un promettente mercato: gli italiani spendono infatti circa 37 miliardi l’anno per pagare di tasca propria le spese mediche. Di questa cifra attualmente solo il 10% è intermediato dalle compagnie. Non si tratta certo di bruscolini neppure per Unipol che attraverso UniSalute a fine 2016 controllava il 13% circa del mercato del ramo malattia. Il problema è però che per la collettività il welfare privato non è affatto un grande affare: “Incentivandolo con soldi pubblici, si taglia a tutti per dare a pochi”, sintetizza Stefano Cecconi, responsabile welfare e sanità della Cgil. “Le agevolazioni fiscali non sono altro che denaro dei contribuenti che va a vantaggio solo di un numero ristretto di persone. Non è questa la strada per il futuro. Bisogna invece riprendere a investire nella sanità pubblica”, puntualizza aggiungendo che al massimo è possibile immaginare forme private di welfare integrativo. Certamente non di carattere “sostitutivo” che possono mettere a rischio il modello universale della sanità italiana e spingere il Paese verso un sistema simile a quello americano dove solo chi ha i soldi può poi realmente curarsi.
Non solo. Quando poi arriva il sinistro, non è detto che il sistema assicurativo risponda come ci si attende. “Al momento della sottoscrizione della polizza, non ci sono mai problemi. I guai arrivano poi quando ci si ammala perché le assicurazioni si appellano ai mille cavilli nei contratti, di difficile interpretazione persino per gli specialisti del settore, per respingere le richieste di rimborso”, spiega Massimo Quezel, fondatore e responsabile di Studio Blu, network specializzato nel settore recupero danni. “Si tratta ormai di una modalità operativa per ridurre gli esborsi e fare una sorta di scrematura iniziale che scoraggia e sfianca l’infortunato il quale si trova in uno stato di debolezza e ha bisogno di denaro per curarsi”, prosegue. Insomma, “il rischio che la copertura non sia garantita è sempre dietro l’angolo – spiega l’esperto – Mi è capitato il caso di una cliente che, con il marito, aveva sottoscritto una polizza assicurativa a garanzia del prestito bancario, la quale avrebbe dovuto, in caso di morte di uno dei contraenti, coprire il debito residuo con la banca. Ebbene, il marito della signora viene a mancare dopo due anni a seguito di un grave tumore ai polmoni (patologia coperta dalla polizza) ma, poiché il malcapitato soffriva di ipertensione arteriosa, la compagnia negò l’indennizzo in quanto tale patologia non era stata segnalata in sede di stipula del contratto”.
La questione si complica se poi a scegliere il contratto non è stato un privato, ma il datore di lavoro grazie agli incentivi offerti dal governo per il welfare aziendale. “Quando queste polizze sono proposte come fringe benefit dovremmo chiederci chi gode realmente del ‘beneficio’ – conclude Quezel – Senz’altro il datore di lavoro ha un vantaggio fiscale, ma si può realmente dire che ha un beneficio anche il dipendente? In altre parole, siamo sicuri che quella polizza, alla prova dei fatti, sarà un prodotto valido e in grado di garantire adeguate coperture? Il dipendente dovrebbe essere informato sulla reale qualità del prodotto che gli viene fornito in luogo di un riconoscimento economico, perché se ottiene come fringe benefit una polizza che, nella pratica, prevede vincoli e franchigie troppo restrittive, di fatto non avrà alcun vantaggio concreto”. E, alla fine, non solo lo Stato avrà investito nel welfare privato magari a danno della sanità pubblica, ma, lungi dal proteggere anche solo una fetta più piccola di cittadini, avrà finito solo col rimpinguare le casse delle compagnie assicurative mancando l’obiettivo della copertura sanitaria universale.
Resta da capire quale sarà la forza di persuasione di Unipol che già in passato si è distinta per una incessante attività di lobby. Come quella per modificare a proprio favore la riforma della Rc Auto nel 2013-14. Manovre in seguito finite al vaglio della magistratura torinese come reso noto la scorsa estate dalla Stampa, alla quale Cimbri ha risposto con una denuncia per rivelazione del segreto istruttorio sfociata in immediate perquisizioni a carico dell’autore dell’articolo. La denuncia però in pochi giorni si è rivelata talmente infondata che il perquisito ha ricevuto una lettera di scuse dalla procura del capoluogo piemontese.
di | 6 dicembre 2017

martedì 5 dicembre 2017

Come la Francia ha preso il controllo del sistema finanziario italiano

WSI 5 dicembre 2017, di Alessandra Caparello
Nel corso degli anni l’Italia è stata letteralmente svenduta  e una parte importante dell’industria del nostro paese sta andando all’estero.
Basti pensare alla vicenda che riguarda la Telecom, la più grande azienda di telecomunicazioni che passa in mano ai francesi di Vivendi che con appena il 23,9% controlla la società italiana. All’estero è stata trasferita parte della memoria industriale italiana come Fiat, Lamborghini Ducati, Pirelli e ancora Alitalia, fino alle sorgenti Panna, Levissima, SanPellegrino, le eccellenze alimentari Locatelli, Invernizzi, Parmalat, Galbani, lo spumante e il cioccolato, e nel lusso brand come Krizia, Valentino, Richard Ginori, fino alle nostre bellezze paesaggistiche con la Costa Smeralda in mano agli arabi del Qatar.  In trattativa la cessione dell’Ilva di Taranto, dopo anni di querelle e un’infinità di decreti in deroga alle autorizzazioni ambientali, agli indiani di Mittal.
Nella puntata di Report del 4 dicembre si parla proprio di questo, dei pezzi dell’Italia svenduti con particolare focus sulla vicenda Fincantieri, azienda pubblica, che quando cerca di ingrandirsi e firma un contratto per assorbire i cantieri navali francesi, di Saint Nazarie, la politica d’oltralpe blocca tutto.
In questi anni proprio i francesi hanno preso il controllo di alcune banche.  Bnl è della francese Bnp Paribas, Cariparma di Credit Agricole e ora hanno messo le mani pure sul Creval. L’ad di Unicredit   è il francese Mustier, multato dalla Consob d’oltralpe per insider trading, e insieme a Vincent  Bollorè, patron di Vivendi ha il 16% di un patto di sindacato che possiede a sua volta il 28% di Mediobanca e quindi ne controlla la Governance. E Mediobanca a sua volta col 13% controlla il nostro più grande gruppo assicurativo, Generali, il cui top manager  è il francese Donnet.
“Ne discende che 3 francesi, Mustier, Bollorè e Bonnet,  hanno in mano parti strategiche del sistema  finanziario italiano (…) Possono conoscere la solidità e le criticità delle nostre aziende, e se c’è qualcuna da scalare. Chi appoggiano? Gli viene meglio se parla la stessa lingua”.

lunedì 4 dicembre 2017

Siccità, l’allarme del Cnr: “In Italia il 2017 è stato l’anno più secco dal 1800 ad oggi. ...

di | 4 dicembre 2017  Il Fatto Quotidiano

In Italia, il 2017 ha fatto segnare un record negativo per la siccità: è stato il più secco dal 1800 ad oggi. A lanciare l’allarme è il Consiglio Nazionale delle Ricerche, che riferisce come quest’anno le piogge siano state di oltre il 30% inferiori alla media del periodo di riferimento 1971-2000. “A partire dal mese di dicembre del 2016 (primo mese dell’anno meteorologico 2017) si sono susseguiti mesi quasi sempre in perdita – spiega il Cnr in una nota – Fatta eccezione per i mesi di gennaio, settembre e novembre, tutti gli altri hanno fatto registrare un segno negativo, quasi sempre con deficit di oltre il 30 per cento e, in ben sei mesi, di oltre il 50%”.
Oltre alle scarse piogge, il 2017 è stato caratterizzato anche dal gran caldo. Quest’anno è stato infatti il quarto più caldo degli ultimi 217 anni: “Dal punto di vista termometrico – scrive il Cnr – il 2017 ha fatto registrare, per l’Italia, un’anomalia di +1,3 gradi al di sopra della media del periodo di riferimento convenzionale 1971-2000, chiudendo come il quarto più caldo dal 1800 ad oggi, pari merito agli anni 2001, 2007 e 2016. Più caldi del 2017 sono stati solo il 2003 (con un’anomalia di +1,36 gradi), il 2014 (+1,38 gradi rispetto alla media) e il 2015, che resta l’anno più caldo di sempre, con i suoi +1,43 gradi al di sopra della media del periodo di riferimento”.
“A conti fatti – proseguono i ricercatori – gli accumuli di pioggia annuali a fine 2017 sono risultati essere di oltre il 30% inferiori alla media del periodo di riferimento 1971-2000, etichettando quest’anno come il più secco dal 1800 ad oggi. Per trovare un anno simile bisogna andare indietro al 1945: anche in quell’anno ci furono 9 mesi su 12 pesantemente sotto media (il deficit fu -29%, quindi leggermente inferiore)”, conclude l’Isac-Cnr.
di | 4 dicembre 2017

domenica 3 dicembre 2017

Bitcoin, le follie e la bolla

Punto Informatico  di Alfonso Maruccia
Roma - A pochissima distanza dal traguardo degli 8000 dollari, il valore del Bitcoin ha in queste ore sperimentato una nuova, prorompente cavalcata attestandosi sui 10.000 dollari, con picchi che hanno superato gli 11.000 nella giornata di ieri 29 novembre. Al momento di scrivere il valore di un BTC continua ad oscillare tra i 10.000 e gli 11.000 dollari, un risultato che riafferma la criptomoneta come argomento perennemente sulla bocca degli esperti finanziari ma anche tra gli utenti più o meno mainstream.

Il superamento del valore di 10.000 dollari è arrivato con un balzo del 10 per cento nelle 24 ore precedenti, e rappresenta l'ennesima soglia psicologica abbattuta in pieno accordo con le previsioni degli analisti di questi ultimi mesi. L'intero mercato Bitcoin vale ora 200 miliardi di dollari, anche se l'impatto sui 200 milioni di miliardi di asset finanziari "tradizionali" (in teoria più solidi rispetto a una moneta virtuale) non è ancora particolarmente significativo.

I "cripto-fondi" che investono in Bitcoin sono ora più di 120, in alcuni casi gestiti da veterani di Wall Street e in altri appartenenti a chi non vede di buon occhio le banche e le istituzioni finanziarie centrali. Bitcoin è una moneta decentralizzata senza alcun "potere forte" a controllarne il mercato, una prospettiva che alcuni considerano con terrore mentre altri come un'opportunità da sfruttare.
Tra chi considera Bitcoin una "frode" (il CEO di JPMorgan) e chi fa paralleli con il passato in attesa dell'esplosione della presunta nuova bolla finanziaria della net economy del nuovo millennio, gli investimenti in BTC continuano a crescere anche presso coloro che sono alla ricerca di un nuovo "asset rifugio" contro la volatilità delle monete tradizionali.

Oltre alla costante crescita di valore, dei bitcoin continua inarrestabile anche la caccia a Satoshi Nakamoto, l'ignoto inventore della criptomoneta che secondo le nuove ipotesi non sarebbe altri che Elon Musk; il diretto interessato, fin troppo impegnato con la produzione di auto elettriche Tesla e con le mire di conquista di Marte con SpaceX, nega l'addebito e dice di non ricordarsi nemmeno dove ha messo l'unico Bitcoin che un amico gli regalò tempo fa.

Un altro argomento "hot" riguardante i BTC, che in molti continuano a sottovalutare, è infine quello della sicurezza, o meglio della tendenza della tecnologia Bitcoin a svelare insicurezze e vulnerabilità assortite con cadenza quasi quotidiana. Tra le ultime si è scoperto che buona parte delle app Android pensate per funzionare da wallet sono vulnerabili, mentre il wallet ufficiale di Bitcoin Gold - nuova fork della criptomoneta - è stato recentemente compromesso da ignoti.

Alfonso Maruccia
 

venerdì 1 dicembre 2017

M5S si conferma primo partito, per centro destra vittoria di Pirro

WSI 30 novembre 2017, di Alessandra Caparello
Mentre si ipotizza come nuova data per le elezioni il prossimo 18 marzo, continuano i sondaggi sulle intenzioni di voto degli italiani in cui il Movimento Cinque Stelle si conferma primo partito, mentre avanza il centrodestra che ha la maggioranza relativa del Parlamento, ma non quella assoluta. E il Partito democratico? Arranca.
Questi i risultati dell’ultimo sondaggio Ixè per Radio1 Rai secondo cui alla Camera Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia raccoglierebbero 270 seggi e così ne mancherebbero 46 per poter dare la fiducia a un governo, ma al Senato i tre partiti potrebbero contare solo su 135 parlamentari, 23 in meno di quanti ne servono.
Abbiamo elaborato i dati sulle intenzioni di voto disaggregate sui nuovi collegi e il risultato è che, con le coalizioni bloccate in questo modo, manca una maggioranza stabile. Finora ci siamo limitati a lavorare solo sulle coalizioni a partire dal proporzionale. Si può procedere solo per inferenze: considerando il valore percentuale odierno sia di Forza Italia che del Pd e proiettandolo sui seggi complessivi (immagino che nelle contrattazioni fra i partiti maggiori, più o meno varrà una dimensione proporzionale) non c’è comunque maggioranza”.
Il centrodestra raccoglie in totale oggi il 35,5% dei voti, con 270 seggi alla Camera e 135 al Senato e subito dietro c’è il Movimento Cinque Stelle che si conferma il partito più votato con il 29,4 per cento e si prenderebbe 165 deputati alla Camera e 85 al Senato, il tutto da solo senza coalizioni. Il centrosinistra – Pd, Ap e Campo Progressista – arriva al massimo al 28,6% con 162 seggi a Montecitorio e 81 a Palazzo Madama. A parte la Sinistra che si unirà in una lista unica domenica prossima e che viene valuta al 6,5% dei consensi che darebbe diritto a 25 deputati e 8 senatori.
Secondo il presidente di Ixè Weber ad oggi le forze moderate unite in una “Grosse Koalition” alla tedesca sarebbe al massimo intorno a quota 275 alla Camera.
“Personalmente la ritengo una prospettiva poco credibile e gli elettori di Fi naturalmente la reggerebbero, quelli del Pd no. Ma non ci sarà bisogno di arrivare a tanto, la campagna è lunga…”.

giovedì 30 novembre 2017

Sondaggi, centrodestra prima coalizione e senza maggioranza.

di | 29 novembre 2017 Il Fatto Quotidiano

Il centrodestra avrebbe di gran lunga la maggioranza relativa del Parlamento, ma per quella assoluta – per il momento – servirebbe un miracolo. Alla Camera infatti Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia raccoglierebbero 270 seggi e così ne mancherebbero 46 per poter dare la fiducia a un governo. Al Senato i tre partiti potrebbero contare su 135 parlamentari, 23 in meno di quanti ne servono per dare il via a un esecutivo. A dirlo è un sondaggio Ixè per Radio1 Rai illustrato dal presidente dell’istituto al Gr1 e a Radio Anch’io. “Abbiamo elaborato i dati sulle intenzioni di voto disaggregate sui nuovi collegi e il risultato è che, con le coalizioni bloccate in questo modo, manca una maggioranza stabile” certifica Weber.
Resta da capire se possa essere possibile una coalizione di larghe intese, alla quale però ad oggi parteciperebbero Pd, Forza Italia, Ap e pochi altri. “Finora – aggiunge Weber al fattoquotidiano.it – ci siamo limitati a lavorare solo sulle coalizioni a partire dal proporzionale. Si può procedere solo per inferenze: considerando il valore percentuale odierno sia di Forza Italia che del Pd e proiettandolo sui seggi complessivi (immagino che nelle contrattazioni fra i partiti maggiori, più o meno varrà una dimensione proporzionale) non c’è comunque maggioranza”. Secondo Weber ad oggi le forze moderate unite in una “Grosse Koalition” sarebbe al massimo intorno a quota 275 alla Camera, quindi una quarantina di seggi in meno. “Personalmente la ritengo una prospettiva poco credibile – dice ancora il presidente di Ixè – Gli elettori di Fi naturalmente la reggerebbero, quelli del Pd no. Ma non ci sarà bisogno di arrivare a tanto, la campagna è lunga…”.
Secondo i dati di Ixè il centrodestra raccoglie oggi il 35,5 per cento dei voti, con 270 seggi alla Camera e 135 al Senato. Subito dietro c’è il Movimento Cinque Stelle, che una coalizione non ce l’ha e si prende i seggi tutti da solo, confermandosi così il partito più votato: il M5s per Ixè ha il 29,4 per cento e si prenderebbe 165 deputati alla Camera e 85 al Senato. Il centrosinistra arriva al massimo al 28,6 per cento con la conquista di 162 seggi a Montecitorio e 81 a Palazzo Madama. Nota a margine: per centrosinistra si intende l’unione di Pd, Ap e Campo Progressista. C’è infine la Sinistra che si unirà in una lista unica domenica prossima: Ixè la valuta al 6,5 per cento dei consensi che darebbe diritto a 25 deputati e 8 senatori. In questo caso – a differenza delle due coalizioni e del M5s – tutti i parlamentari sarebbero eletti dai listini proporzionali e nessuno dai collegi del Rosatellum.
La ripartizione territoriale dei collegi uninominali elaborata da Ixè conferma le tendenze degli ultimi mesi e – si potrebbe dire – delle ultime tornate elettorali amministrative. Al Nord non c’è gara: il centrodestra trionfa conquistando 30 seggi su 40 al Senato e 66 su 84 alla Camera. Al Sud non è proprio un trionfo ma comunque una vittoria larga perché la coalizione delle destre vincerebbe in 130 collegi su 225 per la Camera e in 64  su 109 per il Senato. Il centrosinistra reggerebbe solo nelle cosiddette Regioni rosse, cioè Emilia Romagna, Toscana, Umbria e Marche dove prenderebbe 13 seggi su 20 a Montecitorio e 28 su 40 a Palazzo Madama. Quanto ai Cinquestelle, si conferma la forza al Sud: di 27 collegi conquistati dai grillini al Senato, 13 sarebbero al Meridione (dove in questo quadro è inserito il Lazio); di 51 parlamentari che siederanno alla Camera, 28 arriverebbero dal Lazio in giù.
di | 29 novembre 2017

mercoledì 29 novembre 2017

Lavoro: nonostante la ripresa, italiani continuano la fuga all’estero

WSI  29 novembre 2017, di Mariangela Tessa

I segnali di ripresa economica non bastano. I giovani continuano a lasciare l’Italia per trasferirsi all’estero in cerca di lavoro. È la fotografia scattata da Federico Fubini, in un articolo del Corriere.it da cui emerge, numeri alla mano, che nel 2017 “il numero di italiani che se ne vanno per cercare di farsi una vita all’estero continua a crescere verso livelli mai raggiunti prima”.
Un trend che non sembra risentire dunque delle schiarite del mercato del lavoro, e che va in controtendenza rispetto a quanto sta succedendo in Spagna, Portogallo e altri Paesi europei colpiti dalla Grande recessione i cui deflussi stanno scemando:
Tra le mete più ambite dagli italiani in pole position resta Londra, nonostante la Brexit. I numeri sono confermati dal dipartimento del Lavoro di Londra che ha pubblicato le cifre sugli stranieri che nell’anno chiuso a giugno 2017 avevano attivato un “National Insurance Number” per vivere e lavorare nel Regno Unito. Si legge nell’articolo:
Fra i principali Paesi europei, solo Italia, Grecia e Bulgaria registrano flussi in aumento rispetto all’anno prima e solo l’Italia (con 60mila iscrizioni) lo fa fra i grandi Paesi di origine delle migrazioni verso la Gran Bretagna (vedi grafico). Spaventati dalla Brexit o incoraggiati dalla ripresa nei loro Paesi, spagnoli, portoghesi, irlandesi, polacchi, ungheresi o slovacchi fanno tutti segnare crolli a doppia cifra degli afflussi verso il Regno Unito. Ma né l’uscita di Londra dall’Unione europea, né il rallentamento dell’economia britannica, né l’accelerazione di quella italiana intaccano gli arrivi di italiani.
Rallentano invece i flussi verso la Germania, mentre restano stabili quelli in Svizzera:
L’emigrazione italiana – si legge ancora – verso la Germania nel 2016 segna un rallentamento, ma molto lieve: l’ufficio statistico tedesco registra 50 mila arrivi; sono meno dei 74 mila del 2014, eppure più degli arrivi di italiani del 2012 quando in Italia c’era stata una distruzione netta di oltre 200 mila posti di lavoro. Anche la Svizzera, terza grande destinazione degli emigranti di casa nostra, non riporta continui aumenti: 19 mila nel 2016, che pure è stato l’anno di maggiore creazione di lavoro in Italia da decenni.

lunedì 27 novembre 2017

Modalità elezioni: Renzi 2, la vendetta

di | 27 novembre 2017  Il Fatto Quotidiano

Chiudendo la Leopolda, Matteo Renzi ha detto che il Pd deve mettersi «in modalità elezioni». Insomma, basta con la discussione interna («il congresso permanente»). Basta, in particolare, con la discussione sulle alleanze dopo il voto: sennò gli elettori capiscono quel che non devono capire. Ossia che nel Parlamento eletto con il Rosatellum l’unica maggioranza possibile è quella con Forza Italia: e ancora potrebbe non bastare. Del resto, dopo l’intervista in ginocchio di Fabio Fazio a Berlusconi, tutti hanno capito che ormai restano solo da limare i dettagli. Ad esempio: Gentiloni o un generale dei carabinieri presidente del Consiglio? A occhio, direi piuttosto un tecnico, tipo Draghi: e ci andrebbe già bene.
Poi Renzi ha mandato altri segnali, nel segno di quel grilloberlusconismo mediatico – populismo? – che da sempre è il suo marchio di fabbrica. Il M5S promette il reddito di cittadinanza? E lui rilancia con gli ottanta euro alle famiglie con figli: complimentoni, detto così sembra la solita mancia, invece dovrebbe essere un diritto. Ma sarà difficile anche per lui raggiungere i vertici di Berlusconi: il quale, sempre da Fazio, ha promesso pensioni minime a mille euro, abolizione del bollo auto e – uno di questi giorni capiterà – cene eleganti per tutti. Così uno si chiede: ma siamo sicuri che le elezioni siano il modo migliore per indicare i governanti? Non saranno meglio il casting, il sorteggio, il giudizio di Dio?

il resto dell'articolo qui

domenica 26 novembre 2017

Manovra: scongiurata crisi politica, ma la legislatura è finita

WSI 24 novembre 2017, di Alessandra Caparello
ROMA (WSI) – Allarme rosso ieri al Senato quando il premier Paolo Gentiloni è stato ad un passo dalle dimissioni e dall’aprire una crisi di governo. Motivo del contendere la legge di bilancio e la miriade di emendamenti presentati che tuonano più come un vero e proprio assalto alla diligenza.
La manovra finanziaria diventa il terreno ideale per muovere i fili delle alleanze all’interno del centrosinistra mai così spaccato come ora.
Matteo Renzi vuole stringere la mano a Pisapia e al suo Campo Progressista ma gli alfaniani sono agguerriti, entrambi i partiti chiedono al governo l’uno l’abolizione dei superticket sanitari e l’altro il rinnovo del bonus bebè, altrimenti minacciano crisi di governo.
Gli uomini del Tesoro, con il viceministro dell’economia Morando in testa si rendono conto che i numeri non tornano, visto che le richieste costano un miliardo e mezzo, cinque volte di più lo stanziamento previsto fermo a 250-300 milioni. “Se ci dite no viene meno il progetto politico della nostra alleanza“, dice il rappresentante di Campo Progressista, il senatore Uras. “Possiamo rinunciare a tutto il resto, ma se salta il bonus bebè noi non votiamo la legge di Bilancio. Nemmeno con la fiducia”, così il coordinatore degli alfaniani, Maurizio Lupi.
Così non ce la facciamo. Così salta tutto“, dice Padoan ma la crisi poi è rientrata e il  bonus bebè tanto caro ad Ap rientra nella legge di Bilancio e verrà rifinanziato integralmente per il prossimo triennio, mentre il Governo e la maggioranza sarebbero al lavoro per provare ad ampliare la platea del superticket, un chiodo fisso di Campo Progressista. Sarebbe dovuto finire tutto lunedì prossimo ma gli emendamenti del governo saranno pronti per mercoledì  e il premier Paolo Gentiloni tira un sospiro di sollievo ma ammette laconico ai capigruppo che la legislatura è finita.
Scampata la crisi, si pensa alle elezioni che si terranno a marzo e la data più probabile è il 18. Intanto Renzi continua a perdere punti nella classifica della fiducia ai leader italiani. Come indica un sondaggio Ixé diffuso oggi e pubblicato da Reteurs, il premier Paolo Gentiloni raccoglie il 39% dei consensi e Luigi Di Maio il 29%. Il segretario del Pd è superato dal candidato premier grillino Di Maio a inizio novembre, raccoglie il 25%, ed è stato raggiunto da Meloni.
Il Movimento Cinque Stelle si conferma primo partito, con il 28% delle dichiarazioni di voti, contro il 23,4% del Pd. Un sondaggio che arriva all’indomani della partecipazione di Renzi al programma Ottoemezzo della Gruber in cui sostiene  che la coalizione che il Pd metterà in campo sarà quella che avrà un risultato superiore al 30%, “spero vicino al 40″, dice l’ex sindaco di Firenze.
“Con Campo progressista l’accordo ancora non è chiuso. Speriamo in un accordo con Campo progressista, Radicali e forze di centro per una coalizione di centrosinistra”.
Un altro papabile alleato che però si sfila dal gioco delle coalizioni è Massimo D’Alema che in un’intervista al Corriere della Sera, alla domanda se è impossibile l’alleanza con il Pd, ha risposto:
“Sarebbe stata necessaria una svolta radicale di grande impatto sull’opinione pubblica. Non modeste misure di aggiustamento, che ci hanno proposto a parole mentre ce le negavano nei fatti in Parlamento. Un negoziato surreale“.
Come risponde Renzi? “Mi chiedete di parlare di contenuti e poi parliamo di D’Alema?...”

giovedì 23 novembre 2017

Pensioni, sette riforme in 25 anni. Più che leggi sono toppe

Fonte: Il Fatto Quotidiano
di | 21 novembre 2017

La trattativa tra governo e sindacati sull’aumento dell’età pensionabile e altre particolarità del sistema pensionistico non è la prima né sarà l’ultima di una interminabile serie di diatribe su interventi grandi e piccoli sulla previdenza/assistenza che si susseguono ormai da anni a distanza letteralmente di mesi, senza che si venga mai a capo di una eventuale riforma che non richieda almeno ulteriori ritocchi nel medio termine.
Solo per ricapitolare, abbiamo avuto:
1992 Riforma Amato
1995 Riforma Dini
1997 Riforma Prodi
2001 Riforma Berlusconi
2004 Riforma Maroni
2007 Riforma Damiano
2011 Riforma Fornero
Sette riforme in 25 anni, più vari ritocchi minori qua e là, una ogni poco più di tre anni in media e non è ancora finita.
Ci sarebbe da pensare che siamo governati da incapaci che si succedono al potere da diverse parti politiche e che, tra altro, adottano talvolta una sorta di spoiling system legislativo in base al quale quello che ha fatto la parte avversa deve essere per definizione cancellato. Scaloni, poi scalini, divieto di cumulo, poi cumulo lecito, pilastri integrativi puramente previdenziali, contributi di solidarietà, invece, completamente assistenziali, finestre fisse, poi mobili, poi interventi con preavviso di meno di trenta giorni, per cui a un nato il 1° gennaio 2012 fu detto nel dicembre 2011 che la sua data di pensione slittava di quattro anni, in disprezzo a qualsiasi forma di programmazione della propria anzianità e della propria vita.
Escludendo che tutti i riformatori del sistema pensionistico abbiano agito per incapacità, malafede, per interessi di parte, per motivi elettorali o presi dal panico per motivi finanziari non sempre sostanziati – anche se, a mio avviso, alcuni siano arruolabili in una o più di queste compagini -, deve esserci un motivo di base nel sistema che impedisce la riforma una volta per tutte e con criteri se non condivisibili da tutti – se mi tocchi personalmente, per definizione, squalifico l’intervento come sbagliato – almeno logicamente ispirati a un unico fondamento che, possibilmente, dovrebbe trovare riscontro nelle regole nelle quali la società si riconosce e nella Costituzione che dovrebbe esserne la rappresentazione giuridica.
E infatti: “c’è del marcio in Danimarca”.
Ci sono due tare fondamentali che impediscono di mettere mano al sistema pensionistico in modo definitivo, anche sopportando un po’ di ricorso alla piazza e la perdita di consenso elettorale.
La prima è il mantenimento – non colposo, ma intenzionale – della commistione tra previdenza e assistenza. Ancorché per l’Inps le due cose siano contabilmente ben separate, la vera commistione è ideologica: nel sentire comune – e niente viene fatto per cambiarlo – i comparti previdenza e assistenza sono permeabili e risorse possono essere spostate dall’uno all’altro quando invece la previdenza dovrebbe essere vista come la restituzione di un accantonamento (diritto individuale) e l’assistenza come la risposta a un bisogno sociale (diritto collettivo). Questa commistione impedisce sia gli interventi – facili – sulla previdenza allo scopo di commisurare in modo effettivo la prestazione con i contributi versati, sia quelli – più difficili perché costosi – sull’assistenza, allo scopo di garantire la sussistenza di tutti gli anziani.
La seconda tara è l’applicare ai cittadini pensionati, in materia di socialità, regole diverse dal quelle che si applicano agli altri cittadini. La nostra Costituzione prevede che “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Come si vede, non v’è traccia di contributi diversificati se non in base al reddito percepito; diversamente è ormai prassi consolidata applicare alle (sole) pensioni meccanismi addizionali di re-distribuzione del reddito che si sommano alla progressività fiscale esercitata su tutti i cittadini e che si articolano in modi diretti – contributi di solidarietà – o più subdoli e a effetto permanente – blocchi della perequazione.
Queste due gravi distorsioni di pensiero prevengono la possibilità di riformare l’assistenza identificando in modo certo la dimensione dei diritti costituzionali per i cittadini sprovvisti dei mezzi necessari “al mantenimento e all’assistenza sociale” – Art. 38 -, coniugandola con il “ dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” – Art. 4 – e quella di riformare la previdenza riconoscendone una buona volta le caratteristiche assicurative – tanto versi, tanto avrai; tanto più avrai mensilmente per quanto meno tempo lo riceverai – di un accantonamento da ritenersi sacro e inviolabile e non soggetto ad altre fiscalità che non quelle universalmente riconosciute valide per tutti i cittadini.
Il tutto è complicato dall’inevitabile sistema a ripartizione che fa sì che i contributi dei lavoratori scompaiano in tempo reale nella voragine dei conti dello Stato e che gli attivi siano convinti a pensare di stare pagando le pensioni degli anziani, tra l’altro ritenendo che questo sia iniziato solo in tempi recenti quando, viceversa, lo schema si replica generazione dopo generazione da sempre.
Pertanto, ciclicamente, ci troviamo a discutere di riforme e riformine, di piccoli e grandi interventi che non sono di per sé né giusti né sbagliati, ma semplicemente fuori luogo perché toppe applicate a un pasticcio di base, in un panorama complessivo di totale assenza di chiarezza sui criteri fondanti; le toppe raramente creano un patchwork artistico, quasi sempre tamponano un problema e, se sovrapposte, aggiungono bruttura a bruttura.
di | 21 novembre 2017

martedì 21 novembre 2017

Ucraina 2014: “cecchini di Maidan pagati dagli Usa e pro-Europa”

21 novembre 2017, di Alberto Battaglia  
Fonte: WSI
L’inchiesta di un giornalista italiano indipendente, andata in onda su Matrix (Canale 5) alcuni giorni fa, asserisce di aver raccolto alcune testimonianze in grado di riscrivere la verità ufficiale su quanto avvenuto in Ucraina nel febbraio 2014, nel massacro di piazza Maidan che precedette di poche ore la fuga del presidente filorusso Viktor Janukovyč. Il reporter di guerra, Gian Micalessin, dopo “un anno” di ricerche ha rintracciato tre soggetti che affermano di esser stati parte del corpo a cui fu comandato di sparare, dai tetti, sulla folla di manifestanti pro-europei che cercava di esercitare pressioni su Janukovyč.
Chi avrebbe organizzato quest’operazione? Secondo questa ricostruzione, non i russi, ma alcuni loro noti oppositori. I soggetti in questione (tre georgiani, di cui due residenti in Macedonia, a Skopje, l’altro in un Paese dell’Est tenuto riservato) affermano di essere stati assoldati da uomini vicini alla rivolta contro Janukovyč, in particolare da uomini vicini all’ex presidente georgiano Saakashvili. Quest’ultimo, noto oppositore della Russia di Putin, sarebbe poi diventato fra il 2015 e il 2016, governatore della regione ucraina russofona dell ‘Oblast’ di Odessa (prima di perdere la cittadinanza ucraina). Le tre fonti parlano rendendo noto il loro nome e a volto scoperto, affermando di essersi recati in ucraina tramite passaporti falsi. La tesi sostenuta da Micalessin, come scritto in un post sul suo profilo Facebook è che “dietro la strage di dimostranti non c’erano gli uomini del presidente filo russo Janukovyč, ma i capi dell’opposizione appoggiata dall’Unione Europea”. Se la notizia fosse ulteriormente confermata, capovolgerebbe la tesi secondo la quale sono stati la polizia e i cecchini di Janukovyč ad aprire il fuoco contro l’opposizione, macchiandosi un delitto talmente grave da segnare per sempre la fine politica del leader filorusso. Uno dei tre intervistati, Alexander Revazishvilli, è un ex tiratore scelto dell’esercito georgiano protagonista della sparatoria di Maidan. Lui come gli altri due sarebbe stato reclutato da un uomo di fiducia dell’ex presidente georgiano, Mamuka Mamulashvili, un consigliere militare di Saakashvili che poi combatterà contro i filorussi nel Donbass, in seguito alla rivolta di Maidan. “Siamo partiti il 15 gennaio e sull’aereo ho ricevuto il mio passaporto e un altro con la mia foto, ma con nome e cognomi differenti. Poi ci hanno dato mille dollari a testa promettendo di darcene altri cinquemila più in là. (…) “Il nostro compito”, spiega Alexandeer, “era organizzare delle provocazioni per spingere la polizia a caricare la folla. Fino alla metà di febbraio però non c’erano molte armi in giro. Si utilizzavano al massimo le molotov, gli scudi e i bastoni”. Soltanto più tardi la squadra reclutata da Mamulashvili sarebbe stata dotata di armi, usate per sparare alla cieca sulla folla sottostante, dall’alto di alcuni edifici intorno alla piazza.
Rimandimo al video dell’inchiesta per ulteriori dettagli di una vicenda che, comunque, appare ancora da chiarire a fondo (è difficile verificare autonomamente le affermazioni fornite dai tre), resta che il presunto artefice della destabilizzazione del presidente Janukovyč, Saakashvili, si è recentemente lanciato in una campagna che dovrebbe sfidare la leadership ucraina, di cui un tempo era stato alleato. Cosi l’Associated Press, il 20 novembre:
In una nuova sfida alla leadership ucraina, il leader dell’opposizione Mikhail Saakashvili, ex presidente della Georgia, ha detto lunedì che l’Ucraina ha bisogno di un nuovo governo ed è pronto a guidarlo. L’affermazione di Saakashvili, ex alleato del presidente ucraino Petro Poroshenko che ha messo in scena una serie di proteste contro di lui, arriva quando la nazione è alle prese con enormi problemi (…) Saakashvili, che si è dimesso nel 2016 un anno dopo che Poroshenko lo aveva nominato governatore della regione ucraina di Odessa, ha condotto proteste contro Poroshenko, accusandolo di stallo nelle riforme e della copertura della corruzione. Poroshenko ha revocato a Saakashvili la cittadinanza ucraina quest’anno, ma Saakashvili si è fatto strada attraverso il confine con la Polonia a settembre”.
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in realtà questa notizia era già passata ma non sui media ufficiali tranne, se ricordo ben, il Fatto Quotidiano che pubblicò non solo documenti e foto ma pure una telefonata fra esponenti del governo lituano e alcuni rappresentanti UE nel quale si evidenziava chiaramente che tutti ne erano a conoscenza. L'obiettivo quindi era eliminare l'influenza russa e il, ritenuto, filo-russo Presidente regolarmente eletto!!! Dovremmo sempre fare attenzione a quanto ci viene raccontato, sempre.. perchè sempre più spesso quel che, ingenuamente, crediamo i buoni troppo spesso si rivelano i peggiori dei peggiori!!!

lunedì 20 novembre 2017

Black Friday (o Black November): sconti ma anche truffe. Come difendersi





Il Black Friday si avvicina. Il 24 novembre è il giorno più atteso dai fanatici dello shopping e non solo. Come da tradizione rigorosamente importata dagli Stati Uniti, in quel giorno moltissimi negozi reali e virtuali faranno sconti da periodo di saldi. Anche se ormai più che di Black Friday si dovrebbe parlare di Black November.

Sarà la crisi che non passa, sarà la competizione tra rivenditori anche online, fatto sta che sono molti i commercianti che hanno iniziato a praticare prezzi ribassati da giorni. Qualcuno li chiama “mid season sales”, ma il risultato è sempre lo stesso: sconti per chi vuole comprare. Ikea, per esempio, ha lanciato i “black days”, la piattaforma online ePrice la “black hour”.
E coloro che vogliono comprare sono molti soprattutto in questo periodo che precede il Natale: tra regali e cambio di stagione gli acquisti da fare possono essere molti. Ma se le offerte non mancano, bisogna stare attenti alle truffe, come sottolinea il Sole 24 Ore:
i giorni del Black Friday e del Cyber Monday, infatti, sono molto propizi per le truffe online, con un aumento considerevole soprattutto del phishing (il metodo delle mail esca con link fasulli).

Per proteggersi dalle truffe gli esperti di Kaspersky Lab consigliano di prendere le seguenti precauzioni:

  • non cliccare su alcun link ricevuto da persone sconosciute o su link sospetti inviati da amici sui social network o via email. Potrebbe trattarsi di link nocivi, appositamente creati per scaricare malware sui dispositivi o per rimandare a pagine di phishing che mirano a rubare le credenziali degli utenti;
  • non inserire i dettagli della carta di credito su siti sconosciuti o sospetti, per evitare di farli cadere nelle mani dei cyber criminali. Se questi siti offrono offerte vantaggiose che sembrano troppo buone per essere vere, probabilmente appartengono ai criminali;
  • controllare sempre che il sito sia autentico prima di inserire le proprie credenziali o informazioni personali (è meglio controllare almeno l’url). I siti fasulli potrebbero sembrare proprio come quelli autentici; installare una soluzione di sicurezza sui propri dispositivi, con tecnologie integrate progettate per prevenire le frodi finanziarie.

domenica 19 novembre 2017

Vault 8/ Hive, la CIA impersonava Kaspersky

di Elia Tufarolo
Fonte: Punto Informatico

Roma - Nei giorni scorsi WikiLeaks ha creato una nuova serie di pubblicazioni, Vault 8, dedicate a materiale classificato di proprietà della CIA. All'interno di Vault 8 saranno pubblicati esclusivamente i codici sorgenti relativi ai prodotti e alle soluzioni già rilasciate dall'organizzazione attraverso la serie Vault 7.

La prima di queste pubblicazioni rivela per l'appunto il codice sorgente di Hive, l'infrastruttura di command-and-control di cui WikiLeaks aveva pubblicato diversi manuali qualche mese fa.

Hive è una piattaforma di comunicazione che veniva utilizzata dalla CIA in modo da avere un canale di comunicazione tra gli operatori dell'agenzia e i malware installati sui computer bersaglio delle operazioni. Il duplice scopo del canale sicuro fornito da Hive era quello di inviare comandi e di esfiltrare dati.
Il funzionamento di Hive è il seguente: i malware comunicano in HTTPS con dei server nascosti della CIA, chiamati Blot: come tramite della comunicazione vengono utilizzati dei server VPS, appositamente anonimizzati con l'utilizzo di domini di copertura; tra i server VPS e i server Blot vi sono una serie di connessioni VPN.

I server Blot utilizzano la non comune opzione del protocollo HTTPS "Optional Client Authentication", in modo da ingannare gli eventuali utenti che stiano visitando i domini registrati dalle VPS, dirigendo il loro traffico Internet su dei server di copertura che contengono dati non sensibili; i malware, invece, effettuano la loro autenticazione per mezzo di un certificato e il loro traffico viene direzionato su un gateway di gestione chiamato Honeycomb.

Tuttavia, la notizia più significativa relativa a questo ennesimo leak riguarda uno dei certificati utilizzati dalla CIA per operazioni di questo tipo: un "fake" registrato a nome di Kaspersky Lab e firmato dalla certificate authority sudafricana Thawte Premium Services.

Eugene Kaspersky, CEO e fondatore di Kaspersky Lab, ha recentemente dichiarato su Twitter di non avere niente a che fare con il suddetto certificato.

In conclusione, WikiLeaks dichiara che i contenuti relativi alla serie Vault 8 non conterranno vulnerabilità di tipo 0-day; per quanto riguarda Hive è possibile scaricare il repository git, su cui sono disponibili diversi branch e la history dei commit.

Elia Tufarolo

Fonte Immagine

giovedì 16 novembre 2017

Governo, Interno e Difesa: così Anonymous ha compromesso la sicurezza del Paese

di | 15 novembre 2017  Il Fatto Quotidiano

Dopo la Svezia, Anonymous. Eh no, non si fa così. Alla cocente mortificazione sul campo di calcio, segue lo smacco alla sicurezza cibernetica del Paese.
Incuranti delle centinaia di convegni in cui si affilano le chiacchiere a protezione di infrastrutture critiche, archivi segreti e dati riservati, gli hacker di Anonymous hanno umiliato gli immarcescibili guru della cybersecurity e saccheggiato i forzieri digitali della presidenza del Consiglio e di vari Ministeri.
Forse approfittando della circostanza che tutti gli esperti erano impegnati a preparare slide per il prossimo workshop o intenti in un copia-e-incolla di cose che non sapevano, i pirati informatici si sono scaricati un quantitativo imprecisato di informazioni personali relative a personale in servizio nelle Forze armate e di Polizia o a Palazzo Chigi (e qui magari pure nelle dependance delle “barbe finte”). L’arrembaggio – compiuto “per il diritto alla democrazia e della dignità dei popoli” – avrebbe consentito il download dei contratti di consulenti ed esperti e degli stipendi dei dipendenti in uniforme e non, dei riferimenti ai più diversi documenti di identità, degli indirizzi email e dei telefoni, dei numeri di targa e di chissà cosa altro.
Il “leaking”, ovvero la sottrazione di dati da sistemi gestionali e database, non avrebbe una data precisa e potrebbe essere avvenuto gradualmente. L’unica constatazione che non può essere messa in dubbio è la permeabilità dell’architettura tecnologica dei più importanti organismi vitali della macchina pubblica nazionale. Poco importa se lo scippo è stato fulmineo o se i banditi hanno proceduto lento pede così da non dare nell’occhio. Il fatto più avvilente è che si scoprano queste cose solo dopo che il “nemico” ha esposto le sue prede al ludibrio collettivo.
E’ quindi fin troppo legittimo pensare ci siano state altre e chissà quante occasioni in cui nessuno ha sbandierato le proprie prodezze e che invece abbiano gravemente compromesso la sicurezza del Paese. I fatti – e non i proclami alla “Vincere, e vinceremo” – parlano chiaro ed evidenziano l’infimo livello nel contrasto alla minaccia cibernetica. La situazione sul fronte digitale è oggettivamente critica ed è purtroppo lo specchio del contesto politico.
La citazione di Platone pubblicata da Anonymous nell’ostentazione della malefatta cova presentimenti atavici. Quel “La gente si separa da coloro cui fa la colpa di averla condotta a tale disastro”, ad esempio, ci costringe a riflettere sullo sbalorditivo astensionismo in Sicilia e sulla inarrestabile scissione tra cittadini e rappresentanti nelle sedi istituzionali.
Ci si augura che le parole del filosofo greco si avverino solo per metà. “Così la democrazia muore: per abuso di se stessa. E prima che nel sangue, nel ridicolo” scriveva Platone nella sua Repubblica. L’auspicio è che non si arrivi ad episodi cruenti. La certezza è che il “ridicolo” – almeno nella cybersecurity – è quotidianoQualche novità è in cantiere nel disegno di legge n. 2960 ovvero nella legge di bilancio 2018.
All’articolo 35 già si prospetta una “fondazione di diritto privato” costituita dal Dipartimento delle informazioni per la sicurezza con la partecipazione di enti ed amministrazioni pubbliche e soggetti privati. Vedremo a chi sarà affidato il timone e quale ne sarà la ciurma. Senza aspettarci miracoli.
Nel frattempo, oltre a quelle di Carlo Tavecchio e Gian Piero Ventura, sarebbe bello poter vedere le dimissioni di trainer e player della cybesecurity (tre parole anglofone nelle ultime cinque digitate mi fanno capire che sono sulla buona strada) che continuano a giocare contro una immaginaria Svezia dell’altro giorno o – a voler esser vintage a tutti i costi – contro l’indimenticabile Pak Doo Ik della Corea ai Mondiali del 66.
di | 15 novembre 2017
 

mercoledì 15 novembre 2017

Democrazia online, i peggiori nemici sono i governi

Punto Informatico
di Mirko Zago

Roma - Freedom House, associazione indipendente che si batte per la libertà e democrazia nel mondo, con la redazione del report "Freedom on the Net 2017" ha messo in luce le gravi minacce alla democrazia rappresentate da un cattivo uso dei social media. Questi strumenti sono stati negli ultimi mesi sfruttati per tattiche di disinformazione con l'intento di manipolare l'opinione pubblica. Tra gli esempi più lampanti vi è l'implicazione di Facebook nel caso Russiagate. Il social network ha ospitato infatti nel periodo preelettorale contenuti tendenziosi creati e sponsorizzati da falsi utenti con base in Russia nell'intento di convincere a votare per il candidato Trump, screditando la Clinton. Casi di violazione di tutti i tipi (istigazione all'odio, censura, cattivo utilizzo dei dati) si ripercuotono, secondo l'associazione, ormai ininterrottamente da sette anni. E spesso dietro ad essi si nascondono gli stessi Governi.
Circa la metà dei 65 Paesi coinvolti dallo studio hanno registrato nell'ultimo anno un declino e solo 13 di essi hanno registrato invece miglioramenti (quasi esclusivamente di entità minore). L'ondata minacciosa è rappresentata nella maggior parte dei casi dalla proliferazione delle fake news e dalla creazione di falsi account volti ad alimentare lo scontro e l'odio online. Come d'altronde accaduto durante la campagna elettorale statunitense, occasione nella quale l'opera di disinformazione attuata dal governo russo sia stata documentata dalle indagini ancora in corso.

Ma non c'è solo la Russia sul banco degli imputati. Tra i governi che hanno assoldato opinion leader online per viziare l'opinione pubblica ci sono anche Venezuela, Filippine e Turchia. Le attività su Internet e in particolare sui social media sono in questo caso volte ad ammorbidire i toni dei contestatori, forzare il punto di vista in maniera subdola fino a vera e propria propaganda. Quantificare il numero di persone al soldo dei governi e quali attacchi siano stati sferrati in maniera puntuale sono informazioni difficili da reperire.
Per contrastare la minaccia e garantire la democrazia occorre appellarsi ai governi affinché si comportino onestamente, ma è anche fondamentale che il sistema educativo faccia la sua parte istruendo i cittadini affinché riconoscano le fake news o commenti e contenuti viziati. Dall'altra parte le grandi aziende del tech devono assumersi la responsabilità di riesaminare i loro processi di moderazione e algoritmi al fine di disinnescare situazioni dannose, bloccare account fake e disabilitare i bot impiegati nelle attività di persuasione. Facebook ha già intrapreso impegni in tal senso e ha apportato alcune modifiche alla sua struttura.
Mai il declino della democrazia su Internet è attaccato sotto molti altri fronti. Alcuni governi hanno infatti minato la libertà bloccando completamente la connessione a Internet in alcune zone del Paese abitate da minoranze etniche, come l'area tibetana in Cina e Oromo in Etiopia, imposto censura e nel peggiore dei casi proibito l'utilizzo della rete (Corea del Nord). Ma vi sono anche casi di disconnessione mirata nel tentativo di impedire la trasmissione di video live: è il caso della Bielorussia; ufficialmente lo scopo era per impedire la trasmissione di nudo e violenza, anche se sembra che la volontà sia piuttosto quella di frenare i manifestanti e distrarre quindi da temi politici scomodi.
... il resto lo trovate su Punto Informatico

martedì 14 novembre 2017

"Centinaia di militanti Isis lasciati andare via da Raqqa". L'accordo segreto con curdi e forze internazionali rivelato dalla Bbc

Da informazione consapevole

(lo cita da Huffington Post)



"Lo sporco segreto di Raqqa". È questo il titolo di una dettagliatissima inchiesta della Bbc pubblicata sul sito online. Inchiesta che ha del clamoroso
La Bbc ha infatti scoperto i dettagli di un accordo segreto che ha permesso a centinaia di combattenti dello stato islamico e alle loro famiglie di fuggire da Raqqa, sotto lo sguardo della coalizione guidata dagli Stati Uniti e dal Regno Unito e dalle forze curde che controllano la città.
Un convoglio comprendeva alcuni dei membri più influenti dell'Isis e, a dispetto delle rassicurazioni, decine di combattenti stranieri. Alcuni di essi si sono sparsi intorno alla Siria, arrivando anche fino alla Turchia.
 
questo link potete leggere l'inchiesta integrale.

lunedì 13 novembre 2017

L'ex-presidente di Facebook: i social fanno male al cervello

Punto Informatico
di Alfonso Maruccia

Roma - Non bastavano le polemiche sulle fake news, l'advertising comprato dai servizi segreti russi e le accuse di monopolio nei servizi di rete; ora Facebook deve fare i conti anche con le reprimende di chi, per aver investito i primi soldi nel futuro colosso dei social network, è diventato miliardario e ora accusa: "Facebook ci sta friggendo il cervello, e sta facendo del male soprattutto agli utenti in giovane età".

Le nuove accuse contro Facebook arrivano infatti da Sean Parker, presidente originario della corporation, miliardario e cofondatore del primo network di file sharing della storia (Napster) che in un evento organizzato a Philadelphia parla degli inizi dell'impresa di Zuckerberg e soci. Un'impresa progettata per imbrigliare la mente dei suoi utilizzatori.

Facebook è stato pensato fin dall'inizio per consumare quanto più tempo e attenzione cosciente degli utenti, rivela Parker, sfruttando "una vulnerabilità nella psicologia umana" per creare un "social-validation feedback loop" capace di raggiungere lo scopo indipendentemente dalla forza di volontà dei partecipanti al network.
Arrivato alle dimensioni attuali, dice ancora Parker, Facebook ha la capacità di "cambiare letteralmente la relazione con la società, la relazione di ciascuno con l'altro", e soprattutto di modificare in chissà quali modi - molti evidentemente negativi - "la mente dei nostri bambini."

Dopo aver guadagnato più di due miliardi con il social network, Parker dice ora di essere diventato un "obiettore coscienzioso" e di essere piuttosto interessato alla ricerca sul cancro o altre attività filantropiche del genere.

Di certo la posizione critica di Parker rispetto al social networking - e a Facebook in particolare - non è isolata, nell'ambito della Silicon Valley e della società civile americana; altri pezzi da novanta e dipendenti del Facebook delle origini dicono ora di sentirsi "colpevoli" per tutto il male che la corporation ha portato, sta portando e porterà alle relazioni sociali lontano dallo schermo.

Vista dall'interno di Facebook, invece, la soluzione contro i danni della "socialità" virtuale sembra essere un coinvolgimento sempre maggiore dell'azienda nelle esigenze concrete delle comunità. La nuova iniziativa in tal senso si chiama Community Boost, e vuole fornire le competenze digitali necessarie a "tirare fuori il meglio da Internet" a persone in cerca di lavoro, piccole imprese e startup. Il servizio sarà disponibile nel 2018 per 30 città americane.

Alfonso Maruccia

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