venerdì 22 giugno 2018

No alla ratifica del Ceta: bocciamolo non per protezionismo, ma per essere coerenti con i principi europei

Fonte: Il Fatto Quotidiano Zonaeuro | 21 giugno 2018 
di Monica Di Sisto*

Bocciare il trattato di liberalizzazione con il Canada nel Parlamento italiano. E notificare alla Commissione europea il no alla ratifica, che bloccherebbe l’applicazione provvisoria delle misure di abbattimento di dazi e dogane contenute nel Ceta, costringendo l’Unione a riaprire una riflessione più attenta sull’impatto dei trattati commerciali che sta continuando a stringere con sempre più Paesi. E’ l’impegno assunto da circa i due terzi dei candidati alle scorse elezioni politiche con la Campagna “No Ceta, non tratto”, promossa dalla Campagna Stop Ttip Italia insieme a organizzazioni tra cui Coldiretti, Cgil, Arci, Legambiente, Greenpeace, Slow Food, Fairwarch, Ari e un ampio schieramento di associazioni dei consumatori. Impegno che, essendo ormai insediati il nuovo Parlamento e il nuovo Governo, queste stesse organizzazioni chiedono che venga mantenuto.
Il neoeletto Governo, attraverso le parole del neoministro all’Agricoltura Gian Marco Centinaio e dell’Interno Matteo Salvini, ha annunciato l’intenzione di chiedere al Parlamento di non ratificare il trattato commerciale tra Ue e Canada e “gli altri simili al Ceta, del resto è tutto previsto nel contratto di governo”, ha affermato Centinaio. Ma la Commissione europea è scettica rispetto alla vera volontà del Governo italiano di voler far cadere l’accordo.
In Parlamento, in realtà, i componenti dell’ex Intergruppo No Ceta si sono riattivati in vista della ricomposizione imminente delle commissioni: “Con la nuova legislatura, il capitolo della ratifica degli accordi commerciali tornerà alla ribalta – si legge in una lettera spedita a tutti i colleghi tra Camera e Senato dal deputato di Fi Paolo Russo e dalle senatrici M5S Elena Fattori e di LeU Loredana De Petris, già raccolta dal deputato di LeU Stefano Fassina e dalla presidente di Fdi Giorgia Meloni– e, anche se lascia ben sperare la posizione assunta dal ministro dell’Agricoltura, occorrerà riprendere i fili della questione per non disperdere il lavoro fatto fino ad oggi e soprattutto per fare in modo che emerga a chiare lettere e senza equivoci il motivo per il quale il fronte dell’indisponibilità ad accettare accordi calati dall’alto non si sgretola, anzi si rafforza”.
E’ importante battere un colpo significativo anche in vista del Consiglio europeo del 26 giugno 2018 dove dovrebbe atterrare per l’ok finale degli Stati membri il Jefta, il trattato di liberalizzazione degli scambi tra Ue e Giappone, che in volume vale il doppio del Ceta, un quarto del Pil globale, è stato negoziato in assoluta segretezza come il Ceta, e presenta le medesime criticità. Esso contiene, infatti, una minima difesa di appena 18 prodotti agroalimentari di qualità e non fa alcun riferimento all’obbligatorietà del rispetto del Principio di precauzione europeo. Crea, inoltre, dieci tavoli tra i regolatori dell’Ue e del Giappone in cui essi procederanno in autonomia e riservatezza a “semplificare” il commercio tra le due parti anche su questioni che riguardano le competenze nazionali come appalti pubblici, agricoltura, sicurezza alimentare, servizi, investimenti, commercio elettronico. Cosa già avvenuta come abbiamo verificato nel caso della prima riunione del Comitato per la sicurezza sanitaria e fitosanitaria convocato in ambito Ceta poche settimane fa.
Il Jefta, inoltre, semplifica gli iter di approvazione e sdoganamento delle merci, andando a limitare la capacità degli Stati europei di controllare le importazioni giapponesi di alimenti e mangimi, anche se ci sono molti casi già documentati di importazioni di mangimi Ogm illegali dal Giappone, il Paese con il più grande numero di colture Ogm autorizzate al mondo.
Il Jefta non è che il primo di una serie di trattati di cui la Commissione europea sta accelerando l’avvio o la conclusione, come quello con l’Australia e la Nuova Zelanda, che non passeranno dai Parlamenti nazionali. Una mossa che dovrebbe prevenire, nei piani della Commissione, lo stop ai negoziati in corso qualora la Corte europea di Giustizia accogliesse il ricorso del governo belga contro l’istituzione da parte del Ceta proprio grazie alle pagine sugli investimenti, di un “tribunale speciale” arbitrale (il cosiddetto Investor to state dispute settlement – Isds, o la sua versione rimaneggiata Investment court system-Ics) che permette alle imprese di citare in giudizio gli Stati senza tener conto della giustizia ordinaria di ciascun Paese, qualora una legge o decisione faccia problema ai suoi interessi. La prima udienza del processo si terrà a Strasburgo il 26 giugno prossimo, la sentenza si attende entro l’anno e potrebbe invalidare gran parte o parti di essi perché non compatibili con i trattati costitutivi dell’Unione stessa.
Ecco perché è importante fermare questo tipo di trattati commerciali e riaprire la partita delle liberalizzazioni in Europa: non per protezionismo o altra posizione ideologica, ma per decidere una volta per tutte se e come essere o meno coerenti con le regole che si sono scelte a fondamento dell’Unione. Da anni la società civile di tutta Europa, gli imprenditori responsabili, i lavoratori e i sindacati, gli ambientalisti, i cittadini consapevoli, chiedono al nostro Governo di scegliere da che parte stare, se con i diritti e il futuro o con i profitti di pochi. E’ arrivato il momento di dimostrarlo con i fatti.
*Portavoce della Campagna Stop TTIP/Stop CETA Italia

Zonaeuro | 21 giugno 2018

giovedì 21 giugno 2018

Panama Papers, fase due: in Italia i partiti tremano

Fonte: W.S.I. 21 giugno 2018, di Alessandra Caparello

Il calciatore Lionel Messi, il premier argentino Mauricio Macri fino alla  figlia del presidente del Kazakistan, Nursultan Nazarbayev. Questi alcuni dei nomi di grandi personaggi che figurano nei documenti riservati degli archivi dello studio panamense Mossack Fonseca, nome legato allo scandalo dei Panama Papers.
Era l’aprile del 2016 quando una colossale fuga di notizie svelò come tantissimi personaggi n tutto il mondo – imprenditori, politici, ministri, stelle dello spettacolo ma anche narcotrafficanti, mafiosi, e dittatori – erano clienti dello studio legale panamense Mossack Fonseca, fornitore di società offshore in numerosi paradisi fiscali a disposizione dei ricchi e potenti di tutto il mondo.
Ora si apre una nuova fase dell’inchiesta internazionale a cui per l’Italia partecipa L’Espresso che svela i rapporti di alcuni personaggi famosi con le società anonime costituite o gestite da Mossack Fonseca, così numerose che spesso neppure i capi dello studio sanno di custodirle nei propri archivi.
Così si scopre che il calciatore Messi insieme a suo padre è già stato condannato, nel luglio 2016, per un’altra frode fiscale, non collegata ai Panama Papers. L’attuale presidente argentino Mauricio Macri, insieme al padre Francisco e al fratello Mariano ha gestito una società-cassaforte in un rinomato paradiso fiscale, la offshore Fleg Trading Ltd, registrata alle Bahamas nel 1998 e sciolta undici anni dopo, nel gennaio 2009.
E per l’Italia? L’Espresso pubblicherà la nuova inchiesta Panama Papers, con i nomi e i casi più rilevanti per il nostro paese, a breve mettendo in luce tesori offshore di valore imponente, da 1,5 fino a 10 miliardi di dollari americani, e una serie di società cassaforte collegate a partiti politici italiani.

mercoledì 20 giugno 2018

Varoufakis: “Germania coinvolta in uno schema Ponzi europeo”

Fonte: W.S.I. 20 giugno 2018, di Alessandra Caparello 

MONACO (WSI) – “Volevo una Germania egemonica ed efficiente, non autoritaria e coinvolta in uno schema Ponzi europeo come era nel 2013″. A parlare così è l’ex ministro delle finanze greche Yanis Varoufakis nel corso di un suo intervento al seminario organizzato dal gruppo CESifo tenutosi l’11 giugno scorso presso l’Università Ludwig-Maximilian di Monaco.
“Il 24 luglio 2013 ho pubblicato un articolo su Handelsblatt dal titolo “L’Europa ha bisogno di una Germania egemonica“. In quell’articolo, ancora una volta, avevo sorpreso molti sostenendo che una Germania forte fosse il modo migliore per guidare l’Europa fuori dalle sue difficoltà. La mia critica al governo tedesco e ai suoi atteggiamenti nei confronti della zona euro in generale e della Grecia in particolare, non era che Berlino non pagasse abbastanza, ma che, in un certo senso, pagasse troppo, nel senso che sprecasse i soldi del popolo tedesco per perpetuare quello che ho definito un gigantesco esercizio di occultamento di bancarotta fraudolenta“.
L’ex ministro del governo Tspiras sottolinea la ragione per cui diede le dimissioni rifiutandosi di firmare il terzo salvataggio di Atene.
“La ragione per cui ho rassegnato le dimissioni è semplice: Mi rifiutavo di firmare il terzo salvataggio, di prendere più dei vostri soldi, perché ero convinto che, quando si è in bancarotta non si ha il diritto di prendere in prestito di più. Che cosa avremmo dovuto fare? Dichiarare fallimento, riformare il paese e andare avanti. Che cosa è successo invece? A poche settimane dalle mie dimissioni, la cancelliere Merkel, il Presidente Tsipras e altri hanno concordato un altro prestito di 85 miliardi di euro allo Stato greco. Quel giorno mi sono alzato al parlamento greco per denunciare questo fatto come un altro prestito prorogato – un’altra montagna di denaro concessa allo Stato greco in fallimento per fingere ancora per qualche anno di ripagare i debiti – e concesso a condizioni che garantiscano che l’economia e la società greche continueranno a ridursi, che il debito non sarà rimborsato e che l’Europa continuerà a ripetere gli stessi errori in Italia, un paese i cui debiti pubblici e le cui perdite bancarie sono semplicemente troppo grandi per essere sostenuti dalla Germania e da altri paesi attraverso prestiti di salvataggio simili a quelli greci”.
Qui Varoufakis parla anche dell’Italia che come la Grecia è stata governata per decenni da una oligarchia corrotta e che ora si è affidata ai populisti.
“La differenza fondamentale, onorevoli colleghi, tra questo governo italiano e quello greco in cui ho prestato servizio è che eravamo europeisti impegnati – non volevamo lasciare l’euro anche se dovevamo realisticamente considerare una Grexit – soprattutto se costantemente minacciati dai creditori. I protagonisti del nuovo governo italiano, tuttavia, sognano di minacciare un’Italexit, un fatto che garantisce uno scontro di gigantesca enormità con Berlino, Bruxelles e Francoforte”.

martedì 19 giugno 2018

Russia liquida metà riserve Usa: anticamera opzione nucleare cinese?

Fonte: W.S.I. 19 giugno 2018, di Daniele Chicca 

Per ora la Cina ha rinunciato all’opzione nucleare come risposta alle azioni coercitive di Trump alle importazioni di beni e prodotti dalla potenza asiatica, accusata di pratiche commerciali sleali. Ma le ultime mosse della Russia sui mercati finanziari potrebbero essere un antipasto di quello che succederà se Pechino dovesse ricorrere alla forza per controbattere ai dazi di Trump.
Quando si parla del possibile ricorso a opzioni nucleari da parte della Cina, si fa riferimento alla svendita di riserve valutarie (Bond governativi o titoli azionari americani) oppure alla svalutazione della sua moneta nazionale, lo yuan. Se Donald Trump continua a premere sull’acceleratore, tuttavia, è soltanto una questione di tempo prima che questo accada.
La liquidazione inaspettata di metà delle sue riserve obbligazionarie di titoli Usa da parte della Russia, di cui si è venuto a conoscenza venerdì 15 giugno, potrebbe essere servita come una sorta di test preparatorio sui mercati e come copertura della vera misura atomica in cantiere (che verrebbe azionata dalla Cina). In aprile i Treasuries Usa sono stati svenduti a piene mani (vedi grafico sotto), ma non è stata la Cina il paese a svendere con maggiore convinzione, bensì la Russia.

Due mesi fa Vladimir Putin ha deciso di scaricare la quota di titoli di Stato usa più alta di sempre nella storia della Russia. . In un mese solo Mosca si è liberata di circa metà delle sue riserve Usa (fonte: Tesoro Usa) per una cifra pari a $47,4 miliardi (vedi grafico in fondo).
Ora i Bond americani in possesso del Cremlino sono ai minimi da marzo 2008, in piena crisi dei mutui subprime. Con il senno di poi, non è quindi un caso che in aprile sul secondario i rendimenti dei Treasuries Usa decennali siano balzati sopra la soglia del 3%, per un rialzo di 35 punti base.

IL RESTO AL LINK QUI E A QUELLO SUINDICATO

lunedì 18 giugno 2018

Israele, i richiedenti asilo vengono trasferiti in Uganda con l’inganno

Fonte: Il Fatto Quotidiano Mondo | 18 giugno 2018 
Per il diritto internazionale sono richiedenti asilo, per Israele sono “infiltrati”, ossia persone entrate nel paese non attraverso le frontiere ufficiali. Stiamo parlando di 33mila 562 persone: 26mila 81 eritrei e 7mila 481 sudanesi.
Nell’ottobre 2017 Israele aveva annunciato che avrebbe iniziato a trasferirli verso “Paesi terzi” non espressamente nominati che si erano detti disponibili ad accoglierli. Pur se ampiamente risaputo che si trattava di Ruanda e Uganda, le autorità israeliane non lo hanno mai confermato e recentemente la Corte suprema ha sospeso le espulsioni. Nondimeno, il programma di trasferimenti “volontari” verso l’Uganda, cominciato nel 2013, è andato avanti.
L’espressione “volontari” ha qualcosa d’ingannevole. Le autorità israeliane hanno emesso documenti e fornito rassicurazioni verbali alle persone da espellere, le quali avrebbero ricevuto un permesso di soggiorno per poter lavorare e sarebbero state protette dal rischio di essere rimandate nei Paesi di origine. I richiedenti asilo espulsi verso l’Uganda hanno raccontato però ad Amnesty International di come le promesse israeliane si sono rivelate vuote. Invece di un permesso di soggiorno, si sono ritrovati in condizioni di irregolarità, a rischio d’arresto, senza possibilità di lavorare e in pericolo di essere rimandati nei Paesi di origine, in violazione del principio internazionale di non respingimento.
Il governo ugandese, dal canto suo, ha sempre smentito l’esistenza di un accordo per l’accoglienza delle persone espulse da Israele, rifiutando di riconoscere qualsiasi obbligo nei loro confronti. Amnesty International ha condotto 30 interviste con richiedenti asilo eritrei e sudanesi, alcuni dei quali già espulsi in Uganda, altri ancora detenuti in Israele e uno sottoposto a rimpatrio forzato in Sudan. Nessuno dei richiedenti asilo intervistati ha ricevuto un permesso di soggiorno all’arrivo in Uganda o altri documenti che avrebbero consentito loro di risiedere e lavorare nel Paese.
Le opzioni che Israele mette a disposizione dei richiedenti asilo sono tre:
1. Espulsione verso un Paese terzo.
2. Ritorno nei Paesi di origine.
3. Detenzione a tempo indeterminato.
Manca la quarta, che in realtà sarebbe un obbligo: avere accesso a una procedura equa e funzionante per determinare lo status di rifugiato.
Amnesty International ha esaminato i casi di 262 richiedenti asilo eritrei che hanno ripetutamente fatto domanda d’asilo tra il 2016 e il 2018. La maggior parte di loro ha tentato da una a quattro volte, 18 tra cinque e sei volte, 14 almeno sette volte e sette almeno 10 volte. La percentuale di accettazione delle richieste d’asilo da parte di cittadini eritrei e sudanesi negli stati membri dell’Unione europea è, rispettivamente, del 90% e del 53% mentre in Israele è, rispettivamente, dello 0,1% e dello 0,01%.
Insomma, Israele sta venendo meno alle sue responsabilità di fornire un rifugio a chi, in fuga dalla guerra e dalla persecuzione, si trova già sul suo territorio. Non solo, ma cerca persino di delegare le sue responsabilità a un Paese, l’Uganda, che già ha accolto un milione di rifugiati sud-sudanesi.
Mondo | 18 giugno 2018

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