Fonte: Il Fatto Quotidiano Ambiente & Veleni - 22 Agosto 2019 Patrizia Gentilini
E’ stato di recente pubblicato da parte dell’Istituto Superiore di Sanità il rapporto “Radiazioni a radiofrequenze e tumori: sintesi delle evidenze scientifiche”
finalizzato, secondo gli autori, a presentare una “sintesi delle
evidenze scientifiche sull’esposizione a radiofrequenze… e sugli effetti
più temuti, i tumori”. Il rapporto giunge a
conclusioni rassicuranti circa i possibili rischi per la salute umana,
tanto che l’Ansa titolava la notizia il 7 agosto in questo modo “ISS, l’uso dei cellulari a lungo termine non aumenta il rischio tumori”.
Il dibattito sugli effetti dei campi elettromagnetici (CEM)
sulla salute si arricchisce quotidianamente di importanti evidenze
scientifiche di rischio, ed è più che mai acceso anche a causa
dell’implementazione della nuova infrastruttura 5G, che
aumenterà l’esposizione della popolazione alle radiofrequenze in
generale e, in particolare, alle onde millimetriche, mai usate su così
larga scala. In questo contesto il rapporto non poteva passare sotto
silenzio.
Critiche sono giunte dall’Associazione Italiana Elettrosensibili con un comunicato stampa
in cui si sottolinea soprattutto la “sapiente” scelta operata dagli
autori nel citare studi e lavori senza tener conto alcuno delle fonti di
finanziamento, trascurando quindi i conflitti di interesse che gravano pesantemente sugli esiti delle ricerche.
Alla luce delle attuali conoscenze è inoltre assolutamente improprio e riduttivo
prendere in esame il solo effetto cancerogeno e riconoscere come validi
limiti di legge (quelli proposti a livello internazionale dall’ICNIRP,
ong privata) unicamente basati sull’azione acuta di riscaldamento dei
tessuti, ignorando deliberatamente numerosi effetti biologici non-termici
e successivi ad esposizione cronica, ben descritti dalla letteratura
scientifica anche per esposizioni inferiori ai limiti attuali: azione
genotossica, danno ossidativo con aumento di radicali liberi, riduzione
della sintesi di melatonina, alterazione della concentrazione del
calcio, inibizione della apoptosi (morte cellulare programmata),
alterazione della funzionalità del sistema immunitario, riproduttivo,
metabolico, neurologico ed altro ancora.
Quanto all’azione cancerogena, i Cem sono stati classificati nel 2011 dalla Iarc nel gruppo 2B (possibili cancerogeni), ma già nel 2013 se ne auspicava una rivalutazione in 2A (probabili cancerogeni), visto il rischio quadruplicato di glioma cerebrale ipsilaterale
in chi inizia ad usare il cellulare prima dei 20 anni. Al momento,
grazie soprattutto ai recentissimi studi del National Toxicology Program
e dell’Istituto Ramazzini, che hanno dimostrato la comparsa di tumori
in animali da laboratorio, la Iarc ha annunciato una rivalutazione
della classificazione dei Cem con “high priority” e, secondo alcuni, la ricollocazione potrebbe addirittura essere nel gruppo 1A (certamente cancerogeno).
Anche
l’Associazione Isde ha preso una netta posizione sul rapporto dell’Iss
grazie al Presidente del Comitato Scientifico Internazionale, dottor Agostino Di Ciaula, che ha pubblicato un documento
nel quale il rapporto ISS viene giudicato, con motivazioni dettagliate e
puntuali, inadeguato a proteggere la salute umana, chiedendone il
ritiro e una rielaborazione che tenga in adeguato conto tutte le
evidenze scientifiche disponibili.
Il documento di Di Ciaula per
la chiarezza e completezza merita di essere letto per intero e qui
posso solo riassumere i principali motivi per cui il rapporto dell’Iss è
severamente criticato. Il documento dell’ISS ignora i
risultati di numerosi studi che suggeriscono effetti biologici
non-termici successivi a esposizioni croniche anche inferiori ai limiti
attuali, ignora il rischio di patologie non-oncologiche da esposizione
a radiofrequenze e l’ipersensibilità ad esse, ignora il fatto che in
alcune metanalisi prese in esame sono stati inseriti studi “negativi”
senza tener conto dei limiti dichiarati dagli stessi autori, basa le
sue conclusioni su un esame della letteratura incompleto degli studi
descrittivi dei trend di incidenza dei tumori de sistema nervoso
centrale, nelle conclusioni parla timidamente di “incertezze scientifiche”
ma evita di esplicitare la sostanza di tali incertezze e non propone
quali conseguenze trarne specie per quanto attiene la maggiore vulnerabilità dei bambini, cui andrebbe aggiunta quella delle donne in gravidanza e dei soggetti elettrosensibili.
Per
quanto riguarda il 5G il rapporto dell’ISS riconosce come la normativa
nazionale sia in questo momento inadeguata a verificare l’esistenza di
livelli certamente sicuri per la salute pubblica, ammette che lo
sviluppo del 5G avverrà “in un futuro non facilmente prevedibile”, che
“al momento, non è possibile formulare una previsione
sui livelli di campo elettromagnetico ambientale dovuti allo sviluppo
delle reti 5G” e che “sarà dunque necessaria una revisione della
normativa nazionale”.
Tuttavia dall’Iss non viene avanzata alcuna soluzione immediata finalizzata a garantire la piena tutela sanitaria degli esposti né misure di prevenzione primaria, né viene richiesta una moratoria,
come fatto da tempo dall’Isde. Da un ente pubblico, organo di
riferimento tecnico-scientifico del Servizio Sanitario Nazionale in
Italia, quale è l’Iss, ci saremmo aspettati ben altra posizione, visto
che l’infrastruttura 5G ha già interessato, nello scorso anno e in via
“sperimentale”, circa 4 milioni di italiani ed è ora in fase di avanzata implementazione su tutto il territorio nazionale.
La
nostra attenzione non viene in alcun modo meno ed un appello affinché
il rapporto dell’Iss sia ritirato e rielaborato al più presto è stato
lanciato a firme congiunte dal dottor Agostino Di Ciaula e dal
Professor Benedetto Terracini, “padre” dell’Epidemiologia in Italia. Ovviamente invito tutti a sottoscriverlo e a diffonderlo il più possibile.
si parla di progresso, di evoluzione, di civiltà ci ritroviamo invece in un nuovo medio evo dove conta chi si nasconde dietro il potere o vi si allea con esso.
giovedì 22 agosto 2019
mercoledì 21 agosto 2019
Imprese Usa, i manager dicono stop allo strapotere degli azionisti. Ma non fanno mea culpa
Fonte: Il Fatto Quotidiano Economia & Lobby - 20 Agosto 2019 Sergio Noto
Il recente manifesto di 180 importanti manager americani a favore di un’economia più “umana” (così hanno scritto i giornali) non può che farci piacere, ma soprattutto ci farà sorridere per la sua ingenuità. In ogni caso ben venga, meglio di niente, sarebbe un passo in avanti, come confermato dall’immediata bocciatura stampata da uno dei più interessati supporter dello status quo, quel Larry Summers amico di Clinton ma soprattutto di molti grandi capitalisti nordamericani.
Il capitalismo è in difficoltà e, per fortuna, qualcuno sta incominciando a capire che andando avanti così “la va a pochi”, come si diceva quando esisteva la naja. Apparentemente è la forma di organizzazione sociale ed economica più diffusa, senza alternative sul piano ideologico, da quando anche i ciechi, i sordi e i muti hanno compreso i disastri che erano stati commessi in nome del comunismo e del socialismo. Ma è stata una vittoria di breve respiro, perché, rapidamente, quella “avidità” (greed) – di cui così bene ci ha parlato Jeff Madrick (Age of Greed. The Triumph of Finance and the Decline of America, 1970 to Present, Penguin Random House, 2011) – ha avuto il sopravvento.
Il modello di capitalismo che si è imposto dopo la caduta del comunismo non è stato quello nella sua versione più evoluta, più moderna, più “sociale”, ma quello senza concorrenti, primitivo e banditesco, parente più stretto dei Robber Barons che non dei capitalisti problematici e autocritici degli anni 70. Il capitalismo dei too big to fail, di Lehman Brothers, delle banche d’affari, che, anche se farà in tempo a provocare ancora un po’ di milioni di morti, tuttavia è destinato a crollare e non ci sarà nessun governo o pubblica istituzione complice (e ne ha avuti molti) che potrà salvarlo. È solo questione di tempo. Il modello del capitalismo avido è inefficiente, crea malcontento, oltre che essere inadeguato a una società avanzata.
Non stupisce quindi che, finalmente, del declino strutturale del capitalismo avido abbiano cominciato ad accorgersene anche alcuni Ceo, finora tutti allineati a portare acqua al mulino dei loro azionisti, senza distinguere se si trattasse di fognature o di acqua di fonte. Profitti, dividendi, tanti e subito, senza guardare ad altro, a volte mettendo perfino a rischio la sopravvivenza nel medio-lungo periodo delle stesse imprese (ammazzare la vacca con il vitello).
Tuttavia, i firmatari dell’appello avrebbero potuto aggiungere che un altro pilastro fondante del capitalismo rapace, aggressivo, che crea disuguaglianze e fa profitti solo per gli azionisti, sono le retribuzioni sproporzionate e ingiustificate dei manager. Ormai lo sanno tutti. Nel 1965 la retribuzione di un top manager era pari al massimo a quella di 20 lavoratori della medesima azienda; oggi la media è sopra 300, ma ci sono casi in cui bisogna mettere uno sopra l’altro lo stipendio di oltre 4mila lavoratori per raggiungere la retribuzione di un Ceo.
Va da sé quindi che l’avidità degli azionisti (altresì definibili “capitalisti”) abbia una delle sue colonne più solide nell’avidità non disinteressata e complice dei manager. Mi raccontava un grande imprenditore italiano (uno da miliardi di fatturato), presente anche in qualche board americano, che non c’è verso anche sotto Natale di convincere un CdA nordamericano a rinunciare a un po’ delle proprie prebende, nemmeno se l’alternativa è licenziare per una cifra equivalente decine o centinaia di persone… Anche i manager, evidentemente, tengono famiglia.
Non abbiamo certamente alternative al capitalismo, ma prima ci sbarazziamo dell’attuale versione degenerata meglio è per tutti. Siamo felici che alcuni manager abbiano incominciato a comprenderlo. D’altronde è solo un atto di razionalità: il capitalismo non è un mezzo per far soldi, è un sistema per produrre beni, per migliorare la vita delle persone. E solo su quello va misurato. Null’altro, i governi dovrebbero saperlo e a questo indirizzarlo, dolcemente ma fermamente. Il capitalismo – come peraltro diceva già Adam Smith, che non è un pericoloso comunista – o è etico o non è tale.
Il recente manifesto di 180 importanti manager americani a favore di un’economia più “umana” (così hanno scritto i giornali) non può che farci piacere, ma soprattutto ci farà sorridere per la sua ingenuità. In ogni caso ben venga, meglio di niente, sarebbe un passo in avanti, come confermato dall’immediata bocciatura stampata da uno dei più interessati supporter dello status quo, quel Larry Summers amico di Clinton ma soprattutto di molti grandi capitalisti nordamericani.
Il capitalismo è in difficoltà e, per fortuna, qualcuno sta incominciando a capire che andando avanti così “la va a pochi”, come si diceva quando esisteva la naja. Apparentemente è la forma di organizzazione sociale ed economica più diffusa, senza alternative sul piano ideologico, da quando anche i ciechi, i sordi e i muti hanno compreso i disastri che erano stati commessi in nome del comunismo e del socialismo. Ma è stata una vittoria di breve respiro, perché, rapidamente, quella “avidità” (greed) – di cui così bene ci ha parlato Jeff Madrick (Age of Greed. The Triumph of Finance and the Decline of America, 1970 to Present, Penguin Random House, 2011) – ha avuto il sopravvento.
Il modello di capitalismo che si è imposto dopo la caduta del comunismo non è stato quello nella sua versione più evoluta, più moderna, più “sociale”, ma quello senza concorrenti, primitivo e banditesco, parente più stretto dei Robber Barons che non dei capitalisti problematici e autocritici degli anni 70. Il capitalismo dei too big to fail, di Lehman Brothers, delle banche d’affari, che, anche se farà in tempo a provocare ancora un po’ di milioni di morti, tuttavia è destinato a crollare e non ci sarà nessun governo o pubblica istituzione complice (e ne ha avuti molti) che potrà salvarlo. È solo questione di tempo. Il modello del capitalismo avido è inefficiente, crea malcontento, oltre che essere inadeguato a una società avanzata.
Non stupisce quindi che, finalmente, del declino strutturale del capitalismo avido abbiano cominciato ad accorgersene anche alcuni Ceo, finora tutti allineati a portare acqua al mulino dei loro azionisti, senza distinguere se si trattasse di fognature o di acqua di fonte. Profitti, dividendi, tanti e subito, senza guardare ad altro, a volte mettendo perfino a rischio la sopravvivenza nel medio-lungo periodo delle stesse imprese (ammazzare la vacca con il vitello).
Tuttavia, i firmatari dell’appello avrebbero potuto aggiungere che un altro pilastro fondante del capitalismo rapace, aggressivo, che crea disuguaglianze e fa profitti solo per gli azionisti, sono le retribuzioni sproporzionate e ingiustificate dei manager. Ormai lo sanno tutti. Nel 1965 la retribuzione di un top manager era pari al massimo a quella di 20 lavoratori della medesima azienda; oggi la media è sopra 300, ma ci sono casi in cui bisogna mettere uno sopra l’altro lo stipendio di oltre 4mila lavoratori per raggiungere la retribuzione di un Ceo.
Va da sé quindi che l’avidità degli azionisti (altresì definibili “capitalisti”) abbia una delle sue colonne più solide nell’avidità non disinteressata e complice dei manager. Mi raccontava un grande imprenditore italiano (uno da miliardi di fatturato), presente anche in qualche board americano, che non c’è verso anche sotto Natale di convincere un CdA nordamericano a rinunciare a un po’ delle proprie prebende, nemmeno se l’alternativa è licenziare per una cifra equivalente decine o centinaia di persone… Anche i manager, evidentemente, tengono famiglia.
Non abbiamo certamente alternative al capitalismo, ma prima ci sbarazziamo dell’attuale versione degenerata meglio è per tutti. Siamo felici che alcuni manager abbiano incominciato a comprenderlo. D’altronde è solo un atto di razionalità: il capitalismo non è un mezzo per far soldi, è un sistema per produrre beni, per migliorare la vita delle persone. E solo su quello va misurato. Null’altro, i governi dovrebbero saperlo e a questo indirizzarlo, dolcemente ma fermamente. Il capitalismo – come peraltro diceva già Adam Smith, che non è un pericoloso comunista – o è etico o non è tale.
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lunedì 19 agosto 2019
Brexit: carenza di cibo e medicine, cosa rischia Londra in caso di no-deal
Fonte: W.S.I. 19 Agosto 2019, di Mariangela Tessa
Gravi carenze di cibo, medicine, carburante. Confine rigido con l’Irlanda, caos nei porti, difficoltà per i viaggiatori britannici negli aeroporti, aumento della tensione sociale. E’ un futuro apocalittico quello che aspetta la Gran Bretagna nel caso di una Brexit senza accordo, il cosiddetto no-deal, stando a un documento segreto del governo pubblicato dal Sunday Times. Un dossier “ufficiale e sensibile” diffuso nel giorno in cui il governo, con un gesto atteso ma con un forte valore politico, ha firmato la misura per annullare l’atto del 1972 che sanciva l’adozione delle leggi europee da parte del Regno Unito.
Nel documento si parla, ad esempio, del rischio che l’85% dei camion che attraversano la Manica non siano pronti per la dogana francese in caso di mancato accordo e potrebbero generare caotiche file di attesa di giorni, mandando i porti in tilt per almeno tre mesi.
Dopo poco si farebbe sentire la penuria di molte merci primarie. Secondo Whitehall, la fornitura di medicinali e cibo potrebbe “essere suscettibile di gravi e lunghi ritardi”, con un aumento dei prezzi e ricadute sui redditi delle persone più povere. Il documento mette in evidenza inoltre il pericolo che le imposte sulle importazioni di benzina portino alla chiusura di due raffineria con la conseguente perdita di “2.000 posti di lavoro”.
Gravi carenze di cibo, medicine, carburante. Confine rigido con l’Irlanda, caos nei porti, difficoltà per i viaggiatori britannici negli aeroporti, aumento della tensione sociale. E’ un futuro apocalittico quello che aspetta la Gran Bretagna nel caso di una Brexit senza accordo, il cosiddetto no-deal, stando a un documento segreto del governo pubblicato dal Sunday Times. Un dossier “ufficiale e sensibile” diffuso nel giorno in cui il governo, con un gesto atteso ma con un forte valore politico, ha firmato la misura per annullare l’atto del 1972 che sanciva l’adozione delle leggi europee da parte del Regno Unito.
Nel documento si parla, ad esempio, del rischio che l’85% dei camion che attraversano la Manica non siano pronti per la dogana francese in caso di mancato accordo e potrebbero generare caotiche file di attesa di giorni, mandando i porti in tilt per almeno tre mesi.
Dopo poco si farebbe sentire la penuria di molte merci primarie. Secondo Whitehall, la fornitura di medicinali e cibo potrebbe “essere suscettibile di gravi e lunghi ritardi”, con un aumento dei prezzi e ricadute sui redditi delle persone più povere. Il documento mette in evidenza inoltre il pericolo che le imposte sulle importazioni di benzina portino alla chiusura di due raffineria con la conseguente perdita di “2.000 posti di lavoro”.
Secondo il giornale inglese il rapporto rappresenta “la valutazione più completa sulla preparazione del Paese al no-deal”. Chiamato in codice ‘Operation Yellowhammer’
(il nome in inglese di un uccellino, lo zigolo giallo), il piano era in
realtà già trapelato a settembre dell’anno scorso ma solo in forma di
foto rubata a qualcuno che usciva dagli uffici del governo a Whitehall
tenendolo sotto il braccio.
Il primo commento sulle rivelazioni del Sunday Times è arrivato dal ministro dell’Energia, Kwasi Kwarteng,
che ha cercato di ridimensionare la situazione. “Penso ci sia molto
allarmismo e che molte persone stiano giocando al ‘Progetto Paura’”, ha
dichiarato a Sky News, assicurando che il Paese “sarà pienamente
preparato a uscire senza accordo il 31 ottobre”.
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