giovedì 8 settembre 2016

Come AfD si è imposto in Meclemburgo-Pomerania: un’analisi del voto regionale in Germania

Fonte VOCI DALL'ESTERO di Stefano Solaro
Dopo l’exploit alle elezioni statali di Marzo, il partito di destra nazionalista ed euroscettico Alternative für Deutschland ha ottenuto un altro importante risultato nel Meclemburgo-Pomerania, dove diventa il secondo partito, superando per numero di voti il CDU. Da questa analisi, pubblicata dallo Spiegel il giorno dopo il voto, emerge come, nonostante il partito abbia sottrato voti a tutte le principali forze politiche, a perdere la porzione maggiore di elettori siano state le forze di sinistra, rappresentate da SPD e Die Linke. Importante sottolineare anche come in una regione con un tasso di disoccupazione molto alto, quasi il 30% dei votanti senza un lavoro abbia optato per il partito populista.
 Christoph Sydow – Spiegel, 5 settembre 2016
Traduzione di Stefano Solaro
In Meclemburgo-Pomerania Alternative für Deutschland ha ottenuto un importante successo grazie al voto dei lavoratori, dei disoccupati e degli ultratrentenni. Una persona su quattro ha votato con convinzione per i populisti di destra.
Una maggiore affluenza indebolisce i partiti populisti – questo il teorema che pare non avere più un riscontro effettivo nella Repubblica Federale Tedesca, come dimostrato dal successo di Alternative für Deutschland (AFD) in Meclemburgo-Pomerania. Si tratta di un fenomeno che era già stato osservato nelle recenti elezioni statali in Baden-Württemberg, Renania-Palatinato e Sassonia-Anhalt, tutti Land in cui l’affluenza è cresciuta notevolmente.
In Meclemburgo-Pomerania quest’ultima è aumentata di circa dieci punti percentuali rispetto al 2011. La partecipazione è ancora significativamente al di sotto dei valori riscontrati dal 1994 al 200. In passato, tuttavia, le elezioni regionali hanno quasi sempre coinciso con le elezioni nazionali, che attraggono tradizionalmente più elettori.
Ancora una volta è l’AfD a beneficiare dell’incremento dell’affluenza alle urne. Secondo le analisi di Infratest Dimap il partito avrebbe mobilitato oltre 56.000 ex astenuti – più di qualsiasi altro partito rappresentato nel Landtag della Pomerania. Inoltre, il partito è riuscito a convincere 20.000 sostenitori dell’NPD a mettere la croce su AfD. Come se non bastasse, i populisti di destra hanno strappato oltre 23.000 elettori alla CDU e 16.000 all’SPD. In Meclemburgo-Pomerania l’AFD ha spodestato dal trono di partito di protesta anche die Linke: 18.000 elettori che quattro anni fa avevano scelto per la sinistra, questa volta hanno votato per l’AFD.
Il fatto che l’AFD venga percepito principalmente come un partito di protesta è mostrato chiaramente dagli exit poll. Interrogati sul motivo della loro decisione di voto, il 66 % degli elettori di AfD ha dichiarato di aver scelto i populisti di destra per via della delusione nei confronti degli altri partiti. Solo il 25% si è detto pienamente convinto dal programma di AdD. Guardando l’elettorato totale il rapporto è invertito: il 57% ha scelto con convinzione il proprio partito, solo il 36% ha dichiarato di essere deluso dagli altri raggruppamenti.
“Non abbiamo fatto campagna contro i rifugiati” ha affermato Leif-Erik Holm, il principale candidato di Afd, la sera dopo la chiusura delle urne. È evidente come l’opinione degli elettori del suo partito sia differente. Interrogati sul tema che ha influito in modo decisivo sul voto, il 52% dei votanti di AdD ha risposto: i “profughi”. Al contrario, guardando la totalità degli elettori solo il 20%, ha menzionato questo punto.
L’AFD è particolarmente forte nell’elettorato tra i 35 e i 60 anni. Nella fascia tra i 35 e i 44 anni di età il partito è quasi alla pari con l’SPD. Minore è il consenso dei populisti tra gli elettori più giovani. Nella fascia compresa tra i 18 e i 24 anni di età l’AFD è al 15 per cento – alla pari con Die Linke e CDU, e solo cinque punti percentuali più avanti dei Verdi. La CDU riesce a superare l’AFD solo nell’elettorato over-60.
L’AfD è un partito che riscuote successo soprattutto nella popolazione maschile: in Meclemburgo-Pomerania il 25% degli elettori di sesso maschile ha messo la propria croce in favore dei populisti di destra. La percentuale di voto tra le donne è invece solo del 16%. In questo modo, nel computo totale dei voti femminili, AfD si piazza terzo, dopo SPD (34%) e CDU (20%).
Gli elettori AFD provengono da tutte le classi sociali. Tra i disoccupati (29%), i lavoratori (34%), e perfino i lavoratori autonomi (28%) sono stati i populisti di destra a diventare il partito più forte.
AFD guadagna punti soprattutto tra gli elettori con un livello di formazione medio –basso, si posizionandosi di pochissimo dietro l’SPD. Tra le fasce della popolazione altamente istruite il partito si piazza solo al terzo posto – proprio davanti alla sinistra.

mercoledì 7 settembre 2016

L’unico miracolo di Renzi (Andrea Scanzi)

Viviamo tempi davvero strani. Lo scorso weekend, alla festa del Fatto alla Versiliana, durante un incontro c’era Sallusti in prima fila. Lo so bene, perché a quell’incontro ero relatore con Travaglio, Buttafuoco eFerrucci. Parlavamo dei “Social Pirla”, che stanno sempre più sputtanando i social network, e si spanciava dal ridere. Due giorni fa, sul Giornale, ha scritto un articolo in prima pagina ammettendo di essere totalmente d’accordo con noi. Nessuno, alla festa del Fatto, lo ha contestato. Anzi. Eppure era lo stesso che, fino a due anni fa, era uno dei nemici più odiati. E ancora: al dibattito tra Parisi e Barca, con arbitriPadellaro e Caporale, quello più fischiato è stato Barca. E’ l’unico miracolo di Renzi: sta così sulle palle da avere reso assai più digeribili i berlusconiani.
Vale anche per D’Alema. Persino per D’Alema. L’uomo che ha fatto più danni della grandine alla sinistra italiana, danni che mai dimenticherò, negli ultimi giorni è incontenibile. Bastona Renzi con agio sublime, indovinando battute e tritandolo con serenità tibetana. A Catania, alla Festa de l’Unità, ha zittito Gentiloni (va be’) e ridicolizzato Cerasa(lo so, non è difficilissimo). E ieri, al lancio del Comitato per il No al Referendum Costituzionale del Centrosinistra, ha dato letteralmente spettacolo. Invito i lettori del Fatto a godersi l’imperdibile sintesi di due minuti nel nostro sito: è strepitosa. I tempi teatrali di D’Alema, quando perculeggia qualcuno, restano impeccabili. Pensate come siam messi: tocca quasi – tranquillo, ho detto “quasi” – rivalutare D’Alema. Poveri noi. Auguri e buona catastrofe.
Da facebook.com/Andrea-Scanzi
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Andrea Scanzi non me lo potevo perdere... d'altronde non è quel che dice, la storia la conosciamo, ma il come senza parlare della solita arguzia..

martedì 6 settembre 2016

La favola della riduzione delle tasse

Il governo Renzi, che non ha ancora disinnescato le clausole di salvaguardia valutate 54 miliardi di euro dall’Ufficio di Bilancio nel triennio 2017-2019, che potrebbero avere un impatto di circa 842 euro a famiglia dal 1 gennaio 2017, tra ricadute dirette (aumento dei prezzi) ed indirette (effetto moltiplicatore che l’aumento dei costi di produzione e di trasporto produrrebbe sull’intero sistema dei prezzi, incrementando quindi anche quelli dei beni primarie con IVA al 4%), continua a raccontare la favola di una riduzione della pressione fiscale, che sarebbe stata ridotta nonostante la contrarietà di: “autorevoli esponenti della maggioranza (precisamente esponenti della minoranza del mio partito) intervengono per dire che bisogna smetterla di ridurre le tasse. Perché una parte dei politici italiani pensa che ridurre le tasse sia un errore”.
Ma la pressione fiscale è stata realmente ridotta da Renzi, come sarebbe stata opportuna ed automatica con il ricorso all’aumento del debito pubblico, cresciuto dopo 28 mesi di Governo da 2.107,1 miliardi di euro nel febbraio 2014 a 2.248,8 miliardi di euro nel giugno 2016, al ritmo di 5,060 miliardi al mese; 168 milioni al giorno; 7 milioni di euro l’ora; 116.000 euro al minuto;1.943 euro al secondo, ed una tassa occulta pro-capite, per ognuno dei 60 milioni di abitanti di 2.360 euro?
Leggendo i dati Istat, la pressione fiscale, non è affatto diminuita, ma è aumentata come tutti gli altri indicatori economici pubblicati alla data del 31 dicembre 2015, mentre per i primi 6 mesi del 2016, fanno fede le entrate tributarie e contributive aumentate nel loro complesso rispetto all’analogo periodo dell’anno precedente, come si può leggere dall’allegato del Mef: “Nei primi sei mesi del 2016, le entrate tributarie erariali accertate in base al criterio della competenza giuridica ammontano a 203.477 milioni di euro, con un incremento di +8.374 milioni di euro rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (+4,3 per cento)“. Con una pressione fiscale diminuita, a parità di recupero dell’evasione fiscale, si dovrebbe registrare una diminuzione delle entrate tributarie e fiscali.
La pressione fiscale Italia, è cresciuta dal 41,6% del 2011 al 43,7% del 2015.
2011: 41,6%
2012: 43,6%
2013: 43,5%
2014: 43,6%
2015: 43,7%
Il debito pubblico sul Pil, era il 116,4% nel 2011, passato al 132,1% nel 2014, per arrivare al 132,7 nel 2015. Il saldo primario in percentuale sul Pil, pari al -3,5% nel 2011, ridotto a -1,6% nel 2014; -1,6% nel 2015. L’unico dato positivo l’indebitamento netto in percentuale sul Pil, che era a -3,5% nel 2011; sceso a – 3% nel 2012; -2,9% nel 2013; -3% nel 2014; -2,6 nel 2015, che non sembra essere frutto delle politiche economiche del Governo, ma dell’inserimento nel calcolo del Pil di “Sommerso Economico” e di alcune attività illegali introdotte dal 2014 nella nuova metodologia per la redazione dei conti pubblici (SEC2010), non includendo nel calcolo tutta l’economia criminale, ma solo quelle attività illegali che consistono in uno scambio volontario tra soggetti economici, quali il traffico di sostanze stupefacenti, la prostituzione, il contrabbando di sigarette.
Gli annunci del Governo sulla riduzione della pressione fiscale, non suffragati dai dati reali ed ufficiali, non certo dei consumatori, ma dell’Istat e di altre fonti, secondo le quali ci sarebbero stati incrementi delle imposte nazionali di circa 29,3 miliardi al netto del bonus di 80 euro, oltre a rappresentare mera propaganda, fanno indignare i cittadini che non notano l’asserita diminuzione della pressione fiscale (salvo rare eccezioni), con effetto boomerang su capacità di spesa e flebile ripresa economica, che ancora non si vede all’orizzonte nonostante la favorevole congiuntura dei tassi di interesse sul debito pubblico, il tasso di cambio euro/dollaro ed il costo del barile, che comincia a riprendere la corsa verso l’alto.
Da beppegrillo.it
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La spinta 'rottamatrice' esaurita da tempo; così come anche la novità del 'giovine' che manda a casa i vecchi della politica (dimostrando peraltro di avere glis tessi anni in termini politici) ... alla fine non può che ricorrere ad Andreotti senz'averne nè la levatura che la classe.

lunedì 5 settembre 2016

Lavoro, crescita, deficit, 80 euro, fondi alla sanità, mutui e investimenti: quello che le 30 slide di Renzi non dicono

02/09/2016 di triskel182
Il premier ha scelto accuratamente i numeri da usare per raccontare agli italiani, in occasione dei suoi primi 30 mesi a Palazzo Chigi, “come stavamo prima dell’arrivo del nostro governo” e “come stiamo adesso”. Nessun cenno all’aumento del debito pubblico, al fatto che l’occupazione sale solo per gli over 50 e alla restituzione del bonus. Quanto al pil, l’andamento negativo del 2013 viene confrontato con un “+1%” che è il dato – non paragonabile – relativo al primo trimestre 2016 rispetto allo stesso mese del 2015.
Trenta slide per trenta mesi”. Il premier Matteo Renzi non cambia verso: la settimana dopo il terremoto del Centro Italia, e nel giorno in cui dall’Istat è arrivata la notizia che gli occupatihanno ricominciato a calare, per rivendicare i risultati ottenuti dal governo in due anni e mezzo di lavoro non ha rinunciato alle usuali diapositive con numeri in caratteri cubitali. Improntati come sempre all’ottimismo e alla lotta ai gufi “seminatori di odioe di bugie”. Secondo il premier quei numeri raccontano “come stavamo prima dell’arrivo del nostro governo” e “come stiamo adesso”.
Numeri, “non chiacchiere“, chiosa il presidente del Consiglio nella sua enews, perché “le cifre non mentono“. Ma per comprimere trenta mesi in trenta slide sono state scelte accuratamente, cosa che non può non influenzare il quadro che ne risulta. Basti dire che il debito pubblico non compare da nessuna parte. Non solo: i numeri da soli – senza contesto, riferimenti temporali e spiegazioni – difficilmente danno informazioni sufficienti per “conoscere la verità” “in modo semplice e chiaro”. Soprattutto se si ricorre a quelli che Mario Seminerio sul suo blog Phastidio definisce “mezzucci da perfetto venditore di fumo come il cherry picking (la scelta dei numeri migliori, ndr) sui dati realizzato cambiando l’orizzonte temporale di riferimento”. Proprio per fare chiarezza Ilfattoquotidiano.it ha contestualizzato i principali dati economici che Renzi ha deciso di evidenziare. Aggiungendo i numeri su cui l’inquilino di Palazzo Chigi ha sorvolato.
Nell’ultimo anno su solo gli occupati over 50. E gli sgravi ci costeranno tra i 14 e i 22 miliardi
“Numero occupati: ieri 22,180 milioni, oggi 22,765 milioni“, recita la prima slide. Si tratta dei dati Istat sull’andamento complessivo dell’occupazione dipendente e indipendente. Ne seguono altre che rivendicano il calo della disoccupazionecomplessiva dal 13,1 all’11,4% e di quella giovanile 43,6 al 39,2%. Il confronto tra i numeri del febbraio 2014 e quelli del luglio 2016 è incontestabile, anche se nel frattempo l’istituto di statistica ha rivisto le serie storiche per cui ora i senza lavoro, nel mese in cui Renzi entrò a Palazzo Chigi, sono dati a quota 12,8% in assoluto e 43,1% tra i giovani. Ma soprattutto, i dati scelti dal governo sorvolano su aspetti cruciali.
Punto primo: un anno (il 2015) di sgravi contributivi del 100%sulle nuove assunzioni a tempo indeterminato ha indubbiamente spinto i contratti stabili. Che nel complesso sono saliti dai 14,44 milioni del febbraio 2014 ai 14,85 di luglio 2016. Ma a quale prezzo per le casse dello Stato? A regime, stando ai calcoli della ricercatrice Marta Fana, dottoranda in Economia aSciencesPo Paris, il costo oscillerà tra i 14 e i 22 miliardi di euro a seconda di quanto dureranno i nuovi contratti (occorre ricordare che il Jobs Act ha cancellato le tutele dell’articolo 18). Nel frattempo, il traino degli incentivi sta già venendo meno.
Punto secondo: mentre la disoccupazione giovanile resta a livelli drammatici (39,2% tra i ragazzi che un lavoro lo cercano, ma quasi 600mila sono totalmente inattivi e altri 700mila “hanno interrotto l’azione di ricerca attiva”), l’occupazione sta aumentando solo tra gli over 50. Basta guardare i numeri, come auspica Renzi: a febbraio 2014 erano al lavoro 6,926 milioni di persone con più di 50 anni di età, a luglio 2016 sono 7,815 milioni. Negli stessi 30 mesi gli under 49 al lavoro sono calati da 15,253 a 14,941 milioni. I 25-34enni al lavoro sono ora solo 4 milioni contro i 4,12 del febbraio 2014, i 35-49enni 9,9 milioni contro 10,2. Solo nell’ultimo anno (luglio 2015-luglio 2016) l’occupazione over 50 è salita di 402mila unità mentre quella dei più giovani è scesa di 134mila. Insomma: l’effetto della riforma Fornero si fa sentire sul mercato del lavoro più di Jobs Act e sgravi.
Il divario tra uomini e donne e quello tra Italia e il resto della Ue
Punto terzo: il divario tra uomini e donne resta incolmabile. Il tasso di occupazione maschile è passato, negli ultimi 30 mesi, dal 64,4 al 66,9, mentre quello di disoccupazione calava dal 12,2 al 10,6. Le donne al lavoro, invece, sono solo il 47,8%, pur in lieve salita rispetto al 46,7% del febbraio 2014. E il tasso di disoccupazione femminile resta al 12,6%, contro il 13,7% del 2014. E si concentra tra le donne anche il recente aumento degli inattivi, cioè i disoccupati che hanno perso la speranza di trovare un lavoro per cui hanno smesso di cercarlo: a luglio il numero ha ricominciato a crescere dopo quattro mesi di calo proprio per effetto della crescita delle inattive, salite a 8,83 milioni dagli 8,78 di giugno.
Punto quarto, cruciale per valutare i risultati ottenuti dal governo: nonostante incentivi e Jobs Act, il divario tra l’Italia e il resto della Ue per quanto riguarda la disoccupazione si è addirittura allargato. Il tasso medio dei 28 Paesi è all’8,6% , quello dell’Eurozona al 10,1 per cento.
Infine la cassa integrazione: Renzi rivendica come risultato del governo il fatto che il numero di ore autorizzate sia passato dai1.115 milioni del 2013 ai 677 milioni del 2015. Ma non spiega che il crollo della cassa ordinaria nell’ultima parte dell’anno è dipeso dal blocco delle autorizzazioni causato dall’entrata in vigore del decreto attuativo del Jobs Act che ha riformato gli ammortizzatorisociali prevedendo tra l’altro che i beneficiari non possano riceverli per più di 24 mesi in un quinquennio mobile. Quanto alla riduzione della cassa in deroga, che dall’anno prossimo scomparirà per essere sostituita dalla Naspi, il motivo del calo va cercato nel fatto che le risorse sono state sbloccate a singhiozzo. In più, il fatto che l’analisi si fermi al dicembre 2015 oscura il fatto che quest’anno si è registrato un nuovo aumento della cassa straordinaria, quella che viene concessa per le crisi aziendali più complesse: le ore concesse sono salite del 9,66% rispetto allo stesso periodo del 2015.
Il pil dell’intero 2013 confrontato con la crescita del primo trimestre 2016 rispetto all’anno prima. Ma senza spiegarlo
Qui sulla chiarezza dei numeri ci sarebbe da discutere. Le slide renziane mettono infatti a confronto il calo dell’1,9% del pil nel 2013 con un misterioso “+1%”. Non è facile capire da dove esca quel dato visto che l’unico indizio è “dati Istat” e l’ultimo dato ufficiale diffuso dall’istituto sul pil è il +0% registrato nel secondo trimestre. L’unico +1% – volendo escludere che il governo abbia scelto di anticipare nelle slide la revisione delle sue stime di crescita per l’intero 2016 – si ritrova nelle rilevazioni sul pil del primo trimestre. Che rispetto all’ultimo del 2015 – il confronto più rilevante – è salito a dire il vero dello 0,3%. Ma ha invece registrato, appunto, un +1% rispetto ai primi tre mesi del 2015. E fu quello il dato rivendicato su Twitter da diversi esponenti del governo, che ora si ritrova sulla slide. Un numero superato, considerato che venerdì 2 settembre l’Istat diffonderà il dato definitivo sul secondo trimestre che dallo “0” si discosterà al massimo di un decimale. La crescita acquisita finora è dello 0,6% contro la previsione di un +1,2% inserita nel Documento di economa e finanza, che verrà rivisto a fine mese prendendo atto del rallentamento dei consumi interni e dell’export e della frenata dell’industria. Non è un caso se gli indici di fiducia di consumatori e imprese sono in calo: il primo in agosto è sceso ai minimi da un anno. Nonostante questo, una delle slide di Renzi festeggia il confronto positivo tra il valore attuale dell’indice (definito “fiducia dei cittadini”) e quello registrato durante il governo Letta (109,2 contro 94,5)......
Il resto dell'articolo lo trovate su Il Fatto Quotidiano
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Vi suggerisco dis eguire il link perchè quest'articolo è un vero e proprio atto d'accusa contro le furberie del Governo: con una mano da e con l'altro si prende non solo il 'dato' ma anche gli interessi e gli interessi sugli interessi.....

domenica 4 settembre 2016

Solo un grosso spot: il dossier sul Jobs act che nasconde il flop

04/09/2016 di triskel182
Occasione persa – Per distrarre dal Pil arriva il primo monitoraggio sulla riforma.Senza annunci, in una giornata di intenso dibattito sulla non crescita dell’economia italiana, dal ministero del Lavoro arriva il primo “Quaderno di monitoraggio del mercato del lavoro” al tempo del Jobs Act. Novantacinque pagine per descrivere cosa è successo ai contratti di lavoro e all’occupazione nel 2015, incrociando i dati delle tre fonti istituzionali di riferimento: Inps, ministero del Lavoro e Istat. Appena pubblicato, le agenzie stampa si sono riempite di numeri positivi.
Il documento sarebbe potuto essere un ottimo strumento per verificare gli effetti della riforma. A uno sguardo qualitativo d’insieme, però, non c’è nessuna novità, a parte qualche dato sul lavoro in somministrazione e sui tirocini. Il testo è impegnato soprattutto a fornire una chiave di lettura ottimistica su quanto è avvenuto nel mercato del lavoro nel 2015. Il rapporto si apre con il dato sull’andamento del tasso di occupazione e disoccupazione, ma senza dettagli. Ad esempio, che l’occupazione del 2015 è assorbita quasi interamente da lavoratori over 50 (+229 mila) a fronte di un calo degli occupati tra i 25 e i 49 anni di 122 mila unità. Un trend che peraltro caratterizza tutti i 30 mesi del governo Renzi (da febbraio 2014 a luglio scorso ci sono 820 mila occupati ultracinquantenni in più e 338 mila tra i 25 e i 49 anni in meno), effetto soprattutto della riforma Forneno delle pensioni.
Il dossier parte dal classico dato sui nuovi contratti a tempo indeterminato attivati al netto dei cessati, comprese le trasformazioni di contratti a termine in tempo indeterminato. Ma senza sottolineare però che proprio le trasformazioni pesano sul dato complessivo per il 72%. Sarebbe utile saperlo visto che queste stabilizzazioni nel 41% dei casi non superano il triennio di vita. Non proprio un lavoro stabile. Manca poi il dettaglio sul tasso di sopravvivenza nel primo anno di queste trasformazioni, che si poteva desumere dalle “Comunicazioni Obbligatorie” del ministero stesso che però, guarda caso, non lo fa.
Una novità è invece il dato sui tirocini: la loro transizione in contratti a tempo indeterminato aumenta notevolmente dopo il 1° giugno 2015, probabilmente per la corsa ai generosi sgravi del governo (dimezzati nel 2016). Sul fronte della domanda di lavoro a tempo indeterminato da parte delle imprese arriva un dato interessante: il rapporto sottolinea come siano le imprese di piccole dimensioni quelle che hanno provveduto a stipulare contratti permanenti ex novo, non quindi come trasformazione di altre tipologie. In particolare, il 46% delle assunzioni permanenti (e il 49% di quelle con sgravio) si concentrano nelle micro imprese (1-9 addetti), solo il 13% in quelle tra i 10 e 19 dipendenti. L’effetto dell’abolizione dell’articolo 18 per le imprese intorno alla soglia dei 15 addetti non pare quindi essersi affatto verificato. Parliamo del cuore pulsante del Jobs act. Nessun dettaglio, invece, sulle cessazioni, e così non si capisce quale sia l’effetto occupazionale netto. I nuovi contratti hanno sostituito altri contratti e, se sì, di che tipo? Con i dati a sua disposizione, il ministero poteva indagare sull’incidenza dell’emersione del lavoro irregolare sull’aumento dei contratti, e invece nulla. Niente anche sulle retribuzioni dei nuovi assunti per tipologia d’impresa.
Altri due focus compongono poi il corposo rapporto: l’evoluzione dei contratti di collaborazione (co. co. co.) e il lavoro in somministrazione (lacunoso quello sul lavoro occasionale accessorio). Si scopre che dei collaboratori mono-committenti del 2014, solo il 41% ha avuto nel 2015 un contratto di lavoro dipendente. Il monitoraggio omette di riportare che – stando all’Inps – il 10% dei lavoratori con contratti di collaborazione nei sei mesi precedenti ha iniziato a lavorare con i voucher, i buoni lavoro orari nuova frontiera del precariato estremo. Sul lavoro in somministrazione (interinale) si nota il suo netto incremento sul totale degli occupati a tempo indeterminato avvenuto in dicembre: la quota aumenta dal 7 al 10% in poco meno di due mesi.
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 03/09/2016.
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Insomma a differenza del racconta renziano le cose nel mondo reale vanno come dovevano andare e come sono andate in altri paesi dove sono state introdotte misure simili..... nessuna meraviglia che il pil e la crescita siano ferme.

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