venerdì 12 luglio 2019

Elezioni Grecia, Tsipras paga il suo ‘obbedisco’ alla Troika. E non solo quello

Fonte: Il Fatto Quotidiano Zonaeuro | 9 Luglio 2019 

Tsipras ha perso il centro e il voto dei cittadini medi, senza un euro in tasca e indignati per il nome concesso alla Macedonia. Il problema della classe dirigente, il ruolo della troika e le speranze di un nuovo ambientalismo
Traditore o salvatore (l’uno)? Raccomandato o speranza (l’altro)? In Grecia, e anche altrove, il dibattito sulle recenti elezioni anticipate che hanno visto il cambio della guardia tra il premier uscente Alexis Tsipras e il liberal-conservatore Kyriakos Mitsotakis si è arenato sulla contrapposizione ideologica tra destra e sinistra, mancando di analizzare invece cause ed effetti politici, contingenze che ancora persistono nel paese, percezioni personali che hanno avuto un preciso peso specifico nelle urne.
Syriza al 31% dimostra che lo zoccolo duro di sinistra e socialista legato al vecchio Pasok che vive nel ricordo di Papandreou è rimasto con il premier. Ma Tsipras ha perso il centro che nel 2014/2015 gli aveva dato fiducia, mentre oggi si è spostato sul versante di Nea Dimokratia, in grado almeno domenica scorsa (oltre che alle Europee e alle amministrative di maggio) di chiudere i fronti interni per offrire l’immagine di una squadra unita e pronta a un compito durissimo.
La principale accusa rivolta a Tsipras è di aver fatto marcia indietro con i creditori internazionali (dopo aver promesso di sconfiggere la troika) coprendosi di cenere e portando a casa un memorandum dalle condizioni peggiori dei precedenti. Il no dei cittadini al referendum del 2015 ma tramutato in un “obbedisco” di Alexis alla troika è stato visto da molti come una pugnalata alle spalle, compresa la rottura personale con l’ex ministro Yanis Varoufakis che, al netto di tesi, controtesi e retroscena, è stato l’unico ad essersi dimesso in questa storia di prestiti infiniti.
Inoltre ha mostrato una classe dirigente spesso modesta che non è stata capace di canalizzare al meglio gli interessi che i player del mondo hanno manifestato in Grecia, come i cinesi di Cosco. Oggi i greci hanno un salario minimo di circa 500 euro ma prezzi “milanesi”, zavorrati dalla super Iva e da tasse davvero insostenibili per un tessuto commerciale all’anno zero come quello ellenico. Di contro il sistema bancario è stato messo in sicurezza, il paese è tornato a finanziarsi sui mercati, la disoccupazione è sempre a livelli record e mostra un trend in calo. Ma la Grecia rimane legata ai suoi creditori fino al 2052.
L’accordo di Prespa sul nome Macedonia concesso a Skopje non è stato secondario nell’economia complessiva del voto, dal momento che mentre Tsipras raggiungeva un punto di contatto con Fyrom e Ue, dall’altro nelle piazze di Atene e Salonicco protestavano in tanti, non solo cattolici ortodossi, nazionalisti o suoi oppositori. Ma anche cittadini di centro o apartitici, indignati per un clamoroso falso storico.
Passaggio che in tempi non sospetti, nel 2008, venne messo nero su bianco da uno dei più prestigiosi archeologi del mondo. Stephen Miller, docente presso l’Università della California, assieme ad altri 200 colleghi scrisse all’allora Presidente americano Barack Obama chiedendo di non avallare il cambio di nome, per ragioni meramente storiche e non ideologiche né di stampo razzista. Osservò che la provincia settentrionale della Grecia è stata chiamata Macedonia per circa 3mila anni; inoltre è noto alla storia che i macedoni erano greci e che, di fatto, Alessandro Magno si considerava un discendente di Achille ed Ercole. E si chiese: “C’è qualche dubbio su questi fatti storici?”.
Il neo premier Kyriakos Mitsotakis, discendente della nota famiglia che ha già dato alla Grecia un premier e un ministro degli Esteri, è accusato di essere il volto vecchio di un paese in ginocchio. Al momento promette in 12 mesi di realizzare il suo programma, fatto di liberalizzazioni e meno tasse puntando in primis a non pagare più le euromulte a Bruxelles per le discariche abusive che proliferano in Grecia. Ai suoi detrattori ricorda che dal 1981 ad oggi per 17 anni ha governato il Pasok e solo per sette Nea Dimokratia. Di fatto oggi oltre al governo ha in mano moltissime amministrazioni locali, tra regioni, prefetture e comuni. Per cui è regista in solitario del proprio destino.
Twitter @FDepalo
Zonaeuro | 9 Luglio 2019

giovedì 11 luglio 2019

Oggi il vero marxista è sovranista

Fonte: Il Fatto Quotidiano Società | 11 Luglio 2019  

Non è possibile risocializzare l’economia, in assenza di un preventivo recupero della sovranità nazionale. Lo Stato nazionale può essere democratico: l’economia globalizzata e senza politica non lo sarà mai. La liberazione dal giogo globalista e dai suoi “vincoli esterni” (modalità Unione Europea), che sovranazionalizzando le decisioni annichiliscono ogni spazio democratico, figura come conditio sine qua non per la ripoliticizzazione dell’economico e per la ridemocratizzazione della realtà socio-politica (con politiche welfaristiche e manovre nazionali orientate alla piena occupazione).
Senza sovranismo politico, non possono esservi democrazia e diritti sociali. Senza populismo, ossia senza movimento dal basso del Servo glebalizzato e uscito dalla passività, non può esservi un sovranismo democratico e socialista.
Contro le anime belle del globalismo dei diritti e della global democracy, occorre ribadire, con il realismo di Antonio Gramsci, che “ogni conquista della civiltà diventa permanente, è storia reale e non episodio superficiale e caduco, in quanto si incarna in una istituzione e trova una forma nello Stato” (Lo Stato e il socialismo, 1919).
Finché ci si limita a immaginare o – à la Toni Negri di Impero – un taumaturgico rovesciamento del globalismo nel comunismo, o una lineare evoluzione della mondializzazione verso la democrazia e l’uguaglianza, l’idea socialista – ancora con le parole del Gramsci di Lo Stato e il socialismo – resta “un mito, una evanescente chimera, un mero arbitrio della fantasia individuale”.
Per attuarsi, il socialismo democratico necessita di una soggettività organizzata in movimento rivoluzionario, coincidente oggi con il Servo nazionale-popolare (momento populista). E, insieme, abbisogna della forma Stato (momento sovranista), come forma in grado di istituzionalizzare le conquiste del movimento e di renderle governo centrato sulla sovranità popolare.
Non si registrano, del resto, forme di socialismo più o meno perfettamente realizzato se non nel quadro di Stati nazionali concreti: dal patria o muerte di Che Guevara al “socialismo in un solo Paese” di area sovietica, passando per le socialdemocrazie scandinave e per i socialismi patriottici “bolivariani” dell’America Latina (Bolivia, Venezuela, ecc.)
Così inteso, il populismo sovranista – variante del marxismo nel nuovo millennio – è il movimento mediante il quale il popolo, abbandonando la condizione di passività subalterna, torna a essere protagonista della propria vicenda storica. Recupera la propria sovranità e il proprio protagonismo conflittuale e rivendicativo, partecipativo e deliberativo: e prende a muoversi, con la propria “volontà collettiva”, direbbe Gramsci, secondo linee concettuali opposte rispetto a quelle del blocco dominante e tutte orbitanti intorno al fuoco prospettico del recupero della sovranità come base della riapertura del conflitto biunivoco tra Servo e Signore e del possibile ritorno alla democrazia e ai diritti sociali.
Per questo, il populismo sovrano, come bene ha mostrato Carlo Formenti in La variante populista, è oggi la sola possibilità di restituire potenza all’elemento democratico.
Senza sovranità “dello” Stato, non può esservi quella sovranità popolare “nello” Stato che coincide, in ultimo, con la democrazia come autodeterminazione del demos: nell’ordine della lotta di classe condotta dall’alto dall’élite globalista liquido-finanziaria, la rimozione delle sovranità “degli” Stati è sempre funzionale alla rimozione delle sovranità popolari “negli” Stati, di modo che le decisioni si spostino dai parlamenti nazionali ai consigli di amministrazione post-nazionali.
Anche da ciò si evince l’inevitabile nesso tra democrazia e spazio nazionale, da una parte, e tra dittatura dell’economico e spazio cosmopolitizzato, dall’altra. La lotta di classe è, oggi, tra l’illimitata apertura finanziaria e l’autonomia nazionale come base della possibile decisione del demos.
Il Signore, che un tempo fu nazionalista, ora è cosmopolita. Il Servo, per parte sua, deve essere sovranista e internazionalista, mai nazionalista in senso regressivo o, alternativamente, cosmopolitico in chiave liberista. Il nazionalismo, in quanto individualismo capitalistico riferito alla nazione, applica il competitivismo del bellum omnium contra omnes al nesso con le altre nazioni: se potesse, le neutralizzerebbe per tutelare il proprio egoismo acquisitivo. Il cosmopolitismo, per parte sua, battaglia contro la dimensione nazionale in nome della openness e della libera circolazione deregolamentata.
L’internazionalismo socialista, infine, valorizza la dimensione nazionale, ma non nazionalista: sa bene che non si può essere internazionali senza essere nazionali, e che non si può essere democratici e socialisti senza rovesciare il nazionalismo imperialista e la sua evoluzione globalizzata, il cosmopolitismo liberista come dominio planetario di un’unica nazione (la monarchia del dollaro) e di una sola maniera di pensare, esistere, parlare e relazionarsi.
Per questo l’internazionalismo socialista, coniugando il populismo sovranista con l’internazionalismo e con la democrazia socialista, si oppone fermamente tanto al nazionalismo imperialista, quanto al cosmopolitismo mercatista. Fa valere l’idea-guida di una costellazione nazionale (e non post-nazionale, à la Habermas) di patrie solidali e comunitarie, socialiste e democratiche, rispettose della propria irriducibile alterità e, insieme, concepite come sorelle e non come competitors nell’arena della guerra di tutti contro tutti.
Società | 11 Luglio 2019

mercoledì 10 luglio 2019

Alaska: temperature record, incendi, visibilita' ridotta, la calamita' dei cambiamenti climatici

Fonte: No all'Italia petrolizzata di Maria Rita D'Orsogna

La situazione in Alaska e' drammatica. Specie se si pensa che si parla di uno stato ai confini, e in qualche tratto pure dentro, al circolo polare artico.

Il Giugno 2019 e' stato disastroso e Luglio non promette di meglio.
Ad Anchorage, una delle citta' piu' grandi, la temperatura e' arrivata a 32 gradi, record mai raggiunto qui. I meterologi prevedono una lunga, lunghissima, ondata di caldo ulteriore.  La temperatura media e' di 24 gradi. Quindi siamo ad 8 gradi in piu' della media.
  
Nel circondario vari incendi che hanno mandato in fiamme foresta boreale, permafrost e tundra. Per paura che arrivino ancora piu' incendi in zona, il 4 luglio non ci sono stati fuochi pirotecnici.

Intanto il cielo di Anchorage, e' carico di fumi dagli incendi, specie dal cosidetto Swan Lake fire che arde da un mese. La visibilita' e' scarsa in una vasta area a sud della citta'. Ci sono quasi 500 pompieri a cercare di estinguere questo incendio, con circa 30mila ettari andati in fiamme. Alle persone sensibili e' stato consigliato di restare in casa.  

Ci sono qui 100 incendi attivi in questo momento.

E infine ci sono alti tassi di scioglimento delle nevi che ha portato anomalie e dannni specie alle popolazioni indigene che dipendono dalla pesca e dalla caccia.

In Alaska.

martedì 9 luglio 2019

Brexit: svolta per il Labour, in un secondo referendum sosterrà il Remain

Fonte: W.S.I. 9 Luglio 2019, di Alberto Battaglia

Il partito Laburista britannico ha concordato con i sindacati una nuova posizione più decisamente europeista: il leader del Labour, Jeremy Corbyn, ha annunciato che il partito chiederà un referendum per sottoporre al giudizio popolare qualsiasi accordo che il governo conservatore dovesse raggiungere sulla Brexit; incluso lo scenario No Deal.
In tale consultazione i laburisti sosterrebbero la permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, cambiando nettamente la linea mantenuta finora: rispettare l’esito del primo referendum sulla Brexit.
Le ambiguità non sono del tutto sparite: infatti, nel caso dovessero aver luogo nuove elezioni prima del recesso ufficiale dall’Ue, il partito laburista ha preso l’impegno di completare la Brexit cercando un accordo con Bruxelles. In tal caso, si tratterebbe di garantire un’uscita sufficientemente morbida, lasciando il Regno Unito all’interno dell’unione doganale (e abbandonando così la possibilità di esercitare una politica commerciale autonoma).
In altre parole, il Labour Party, ha spostato il suo baricentro verso l’ala europeista del partito, impegnandosi a sostenere un’eventuale campagna referendaria a sostegno del Remain. Non bisogna dimenticare, infatti, che il Regno Unito ha il potere di ritirare unilateralmente il processo di uscita dall’Unione Europea. Il problema non è giuridico, ma politico: solo un mandato popolare potrebbe rendere accettabile una retromarcia così clamorosa.
La linea concordata con i sindacati, tuttavia, sembra intrinsecamente contraddittoria. Come ha messo in evidenza il giornale progressista britannico The Guardian, non si capisce perché il partito dovrebbe rigettare un accordo sulla Brexit del governo conservatore in sede referendaria sostenendo il Remain, e allo stesso tempo annunciare che in caso di vittoria elettorale cercherebbe un accordo sulla Brexit. In sintesi: “Una Brexit conservatrice: male. Una Brexit laburista: bene, anche se fosse molto simile al Tory deal, come sembra probabile”, ha commentato Gaby Hinsliff sul quotidiano britannico.

lunedì 8 luglio 2019

Elezioni Grecia, Syriza pagherà per i suoi errori. Chissà se avesse dato retta a Varoufakis

Fonte: Il Fatto Quotidiano Economia Occulta | 7 Luglio 2019 

Le elezioni europee hanno confermato la scarsa popolarità del governo greco guidato da Tsipras, leader di Syriza. Specialmente tra i giovani, in Grecia ormai serpeggia il desiderio di votare per l’opposizione rappresentata dal partito conservatore, Nuova Democrazia, guidato da Kyriakos Mitsotakis. A maggio, il 30,5 per cento dei giovani tra i 18 e di 24 anni hanno infatti votato Nuova Democrazia alle elezioni europee.
Tutti quindi si aspettano che oggi Syriza non ce la farà a ripetere il successo del 2015, ma più che la sua sconfitta, ormai quasi certa, quello che ci interessa è il motivo per cui il partito anti-austerità di punta europeo ha finito per imporla, a seguito delle ripetute pressioni di Bruxelles, e come questo fallimento abbia infranto il sogno dell’elettorato greco di tenere testa alla Troika. Quest’analisi è importante per chi prenderà le redini della Grecia ed anche per chi guiderà altre nazioni europee affette da crisi finanziarie più o meno serie, come l’Italia. Oggi, dunque, assistiamo ad un’elezione importante per il futuro delle politiche nazionali europee e delle relazioni interne all’Unione Europea.
La Grecia ha pagato un prezzo alto per rimanere nell’Ue e così facendo ha avuto accesso agli aiuti economici. Dal 2010 ci sono stati tre salvataggi pari a 289 miliardi di euro, poi nel 2018 l’economia ha ricominciato a camminare da sola, anche se zoppicando. In cambio l’economia greca si è contratta dal 2008 al 2016 del 28 per cento e l’impennata della disoccupazione ha spinto un alto numero di famiglie sotto la soglia della povertà. Il fatto che all’inizio del 2018 il paese abbia ricominciato a crescere non ha prodotto l’effetto positivo sperato per Syriza, al contrario il governo ed il partito non sono stati mai così poco popolari. Il motivo? I greci si sentono traditi, le promesse fatte nel 2015 non sono state rispettate e questo tradimento pesa molto di più della modesta ripresa economica.
Fallito il tentativo “socialista”, i greci adesso puntano su Mitsotakis che offre esattamente l’opposto, e cioè una nuova formula neo-liberista: abbassamento delle tasse, privatizzazioni dei sevizi pubblici ed un piano per rinegoziare il debito con i creditori per incoraggiarli a reinvestire nella nazione. Sembra dunque che sull’ago della bilancia politica pesi meno la politica vera, socialismo verso neo-liberismo, del populismo moderno dove il primo ministro ed il governo “proteggono”, o almeno danno l’impressione di proteggere, la nazione contro Bruxelles ed il resto dei paesi membri dell’Unione. Tsipras ha fallito in questa missione.
A conferma del bisogno di protezione della popolazione nel mezzo di una crisi epocale come quella del debito sovrano basta menzionare la questione macedone. Tsipras è stato accusato di tradimento perché ha concluso un accordo con l’ex repubblica Macedone rinominata Repubblica della Macedonia del Nord. Ebbene questo ai greci non è piaciuto perché secondo loro la Macedonia è greca e quindi non può essere né divisa né appartenere ad un altro Stato. Argomento che non ha nulla a che fare con le politiche economiche, l’austerità, ma che poggia sul senso di appartenenza geografica che in momenti critici diventa prorompente.
Il forte senso di nazionalismo europeo è una delle conseguenze della crisi finanziaria, quando le cose vanno male il popolo fa quadrato, si comporta come una tribù e difende il proprio territorio. Un fenomeno prevedibilissimo che si è manifestato anche nel rifiuto di accettare i migranti visti come parassiti che succhiano le poche risorse del paese. Tematiche queste presenti in molti paesi europei.
Infine la corruzione, problema radicato in tutta l’Europa mediterranea e che in Grecia è venuto fuori durante la tragedia a Mati, quando più di 100 persone sono morte a causa dell’incendio della scorsa estate.
Syriza pagherà con la sconfitta di oggi tutti questi errori. C’è da domandarsi cosa sarebbe successo se avesse preso un’altra strada, se avesse, come voleva Varoufakis, scelto di dire no all’austerità contrapponendo una politica espansiva alle direttive di austerità di Bruxelles, se avesse difeso gli interessi del popolo, come aveva promesso. Cosa avrebbe fatto l’Europa? Siamo così sicuri che la punizione sarebbe stata tale da cacciare la Grecia dall’Unione fratturandone così la coesione? Certo, oggi il panorama è ben diverso da quello del 2015 basta menzionare la Brexit, ma forse una presa di posizione nazionalista avrebbe dato a Syriza l’opportunità di vincere di nuovo e avrebbe potuto accelerare il cambiamento interno all’Unione assolutamente necessario.
La risposta ce la daranno i libri di Storia alla fine del secolo, intanto possiamo solo speculare su una realtà politica alternativa a quella attuale.
Economia Occulta | 7 Luglio 2019

domenica 7 luglio 2019

Mercati, cifre positive dall’occupazione Usa. Il commento degli analisti

Fonte: W.S.I. 5 Luglio 2019, di Mariangela Tessa

Dopo la chiusura dei mercati Usa per l’Independence Day, Wall Street torna il punto di riferimento per gli investitori. Dagli Stati Uniti i fari sono puntati sul dato sull’occupazione e le retribuzioni, che potrebbe dare indicazioni significative in vista delle prossime mosse della Fed.
Le attese degli analisti di Reuters indicano, per il mese di giugno, un aumento della crescita dei posti di lavoro di 160.000 unità, dopo essere aumentati di soli 75.000 unità a maggio.
Il miglioramento atteso– dicono gli analisti – non sarà sufficiente a scoraggiare la Federal Reserve dal tagliare i tassi di interesse questo mese, alla luce delle crescenti prove che l’economia sta rallentando. Il mese scorso la Fed ha segnalato che potrebbe allentare la politica monetaria già a luglio, citando una bassa inflazione e crescenti rischi per l’economia  per via delle tensioni commerciali tra Washington e Pechino.
Mentre l’economia festeggia i 10 anni di espansione, la più lunga della storia e i suoi fondamentali rimangono sani, ci sono segnali che il momentum sta rallentando.
“Dati i segnali di un rallentamento della crescita e di pochi progressi materiali nella guerra commerciale, un rimbalzo della crescita occupazionale lascerebbe comunque la Fed in rotta per tagliare i tassi nella riunione di luglio e ci aspettiamo una riduzione di 25 punti base”, ha detto all’agenzia Reuters Sam Bullard, economista di Wells Fargo.

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