Fonte: Il Fatto Quotidiano Ugo Bardi Ambiente & Veleni - 16 Agosto 2019
di Stefano Agustoni*
Provate
a immaginare la quantità di acqua contenuta in 200 vasche da bagno e
moltiplicate questa cifra per il numero della popolazione mondiale,
circa 7,7 miliardi. Ora cercate di visualizzare una superficie pari ad
una volta e mezza l’Unione europea, oltre sei milioni
di chilometri quadrati. Queste mastodontiche cifre possono far capire
meglio, forse, alcune condizioni ambientali inquietanti che stanno
connotando la torrida e terribile estate artica del 2019.
L’acqua contenuta in circa 1600 miliardi di vasche da bagno corrisponde grossomodo alla quantità di ghiaccio che la Groenlandia
ha perso nelle ultime settimane: con temperature che hanno oltrepassato
i 20°C, dallo scorso mese di luglio se ne sono andati in mare circa 250 miliardi
di tonnellate di ghiaccio. Nella sola giornata del 30 luglio la
Groenlandia ha perso 12,5 miliardi di tonnellate di ghiaccio, in altri
termini s’è riversata in mare una quantità di acqua pari al contenuto di
cinque milioni di piscine olimpioniche. La grande isola nordica perde ghiaccio sia attraverso fusione superficiale sia attraverso deflussi di ghiacciai di sbocco.
Questa
è l’ennesima estate da fusione accelerante. L’ennesima estate…liquida.
Un aspetto relativamente nuovo dei cambiamenti climatici, ben messo in
evidenza dalle immagini satellitari raccolte dall’Agenzia spaziale europea e dalla Nasa, è anche l’aumento dei grandi incendi
nell’area attorno e oltre il circolo polare artico. Un fenomeno che
viene ricondotto all’anomalo ed estremo incremento delle temperature che
segna anche questa ennesima estate nordica.
Nell’Artico, infatti, si batte un record climatico dopo l’altro. Per esempio in Siberia la temperatura dello scorso mese di giugno è stata di dieci gradi più calda della media del trentennio 1981-2010. In Alaska a inizio luglio sono stati raggiunti 32 gradi, 13 gradi sopra la media, tre in più del primato precedente. Sul mare di Bering
non c’era mai stato così poco ghiaccio e giugno 2019 è stato il più
caldo da oltre un secolo. Per quanto concerne estensione totale, volume e
spessore della banchisa artica, siamo oggi vicini ai livelli del
record negativo del 2012.
L’ondata
di calore estremo che ha messo in ginocchio l’Europa nel mese di
luglio, s’è infatti spostata nelle regioni artiche, dove le temperature
hanno superato di 10-15 gradi quelle normali di stagione, causando, appunto, una fusione glaciale estrema.
E, come detto, vasti incendi. La coltre generata dai moltissimi roghi
che stanno infiammando il grande nord – oltre cento quelli fotografati
dallo spazio da due mesi a questa parte, dall’Alaska alla Siberia
passando per Canada e Groenlandia– ricopre oggi un’area pari a oltre 6 milioni di kmq, la maggior parte dei quali nella sola Siberia.
Stiamo parlando di qualcosa che non ha precedenti: si tratta del numero
più alto di incendi in questa regione nordica da 16 anni a questa
parte, quando è iniziato un monitoraggio preciso.
Oltre che
numerosi, i roghi sono anche persistenti perché intaccano un tipico
terreno artico che – come spiegano gli esperti – è particolarmente
favorevole alla propagazione e alla persistenza del fuoco.
“A bruciare non è solo il bosco, ma il terreno sottostante, la torba, ‘che può ardere anche per diverse settimane.
Contrariamente agli incendi di boschi che si registrano nelle zone
temperate, quelli dell’Artico si propagano infatti anche al sottosuolo–
afferma il glaciologo ed esperto di Artico Konrad Steffen–,
dove si nutrono degli spessi strati di torba. Bruciando in profondità
possono durare settimane o addirittura mesi, anziché poche ore o giorni
come per la maggior parte degli incendi boschivi alle nostre
latitudini. Tutto ciò innesca un circolo vizioso perché vengono
rilasciate grandi quantità di CO2, quella generata
dalla combustione degli alberi ma anche quella generata dalla torba,
una delle più grandi riserve di carbonio organico del mondo. E la CO2
alimenta il riscaldamento”.
Il fumo poi, essendo composto da
particolato carbonioso, fuliggine e residui della combustione, provoca
un annerimento dei ghiacci artici, che in questo modo assorbono maggior
radiazione solare accelerando ulteriormente la loro fusione.
Acqua di fusione e fumi da incendi: due fenomeni allarmanti causati da
un riscaldamento che nell’Artico è molto più intenso e rapido rispetto
alla media globale, amplificato anche da un numero impressionante di
circoli viziosi come quelli descritti sopra.
* Stefano
Agustoni è diplomato in geografia e climatologia presso l’Eth di Zurigo
docente di scienze della Terra e di geografia ed ecologia del turismo presso la Scuola specializzata superiore del Turismo di Bellinzona – Svizzera
si parla di progresso, di evoluzione, di civiltà ci ritroviamo invece in un nuovo medio evo dove conta chi si nasconde dietro il potere o vi si allea con esso.
venerdì 16 agosto 2019
giovedì 15 agosto 2019
Argentina, “la sconfitta di Macri figlia delle logiche fallimentari del Fmi”
Fonte: W.S.I. 14 Agosto 2019, di Alberto Battaglia
La sconfitta del presidente argentino Mauricio Macri
alle primarie, in vista delle prossime elezioni del 27 ottobre, è stata
in gran parte attribuita alla durezza delle politiche economiche
dell’ultimo anno. L’austerità è stata ancora una volta, la contropartita necessaria affinché il Fondo Monetario Internazionale accordasse all’Argentina un prestito da 57 miliardi di dollari
– il più grande mai erogato dal Fondo. Prima di questo passo, compiuto
lo scorso anno, la presidenza Macri aveva avviato una pericolosa
tendenza all’indebitamento (aumentato di 30 punti sul Pil solo fra 2017 e
2018) unita ad una maggiore libertà del tasso di cambio, che ha
consentito una svalutazione immediata del 30% nel dicembre 2015 e poi
proseguita negli anni successivi. Da quando Macri è entrato in carica il
peso argentino ha ceduto oltre l’80% del suo valore. Questo, peraltro,
non ha consentito grandi miglioramenti al saldo delle partite correnti
argentine fra 2015 e 2018 – e solo nel corso dello scorso anno le cose
sono migliorate su questo versante grazie a una durissima dieta di
austerità. Nel frattempo, però, il Pil è crollato, con quattro trimestri consecutivi a segno meno (l’ultimo, il primo quarto del 2019, è stato archiviato con un -5,8%).
Secondo Jayati Ghosh, professoressa di economia presso Jawaharlal Nehru University a New Delhi, questo tracollo è un parente stretto di quello visto in Grecia, dopo gli aiuti internazionali che non hanno consentito un vero e proprio default. Gli errori commessi dal Fmi in Grecia sono stati apertamente riconosciuti nel 2013. Ma, secondo quanto scrive Ghosh in un commento pubblicato su Project Syndacate, poco è cambiato nell’atteggiamento del Fmi rispetto ai suoi interventi finanziari sulle economie in crisi.
“Come può l’Fmi giustificare un approccio [verso i prestiti internazionali] con esperienze storiche così scarse?” si interroga l’accademica indiana, “una spiegazione potrebbe essere la mancanza di responsabilità che permea la burocrazia dell’istituzione, fino ai vertici”.
Secondo Jayati Ghosh, professoressa di economia presso Jawaharlal Nehru University a New Delhi, questo tracollo è un parente stretto di quello visto in Grecia, dopo gli aiuti internazionali che non hanno consentito un vero e proprio default. Gli errori commessi dal Fmi in Grecia sono stati apertamente riconosciuti nel 2013. Ma, secondo quanto scrive Ghosh in un commento pubblicato su Project Syndacate, poco è cambiato nell’atteggiamento del Fmi rispetto ai suoi interventi finanziari sulle economie in crisi.
“In cambio della liquidità del Fmi, l’Argentina ha dovuto attuare enormi tagli, al fine di riequilibrare il suo bilancio primario nel 2019 e ridurre significativamente il suo deficit con l’estero. L’Argentina ha accettato – e l’economia è costantemente peggiorata”, afferma la professoressa, “oggi, l’inflazione sta superando il 55%, il tasso di povertà ha superato il 30% e la produzione e l’occupazione si stanno riducendo. L’Argentina non si avvicina in alcun modo agli obiettivi del Fmi sugli investimenti e sulla crescita del Pil, che sono già stati rivisti due volte. Ulteriori revisioni al ribasso stanno arrivando senza dubbio”.Uno dei principi di fondo a sostegno della cosiddetta austerità espansiva è che la prudenza nel bilancio pubblico e le privatizzazioni conducano a un brusco aumento degli investimenti esteri verso il Paese in difficoltà, con la possibilità di far ripartire la crescita. “Un’economia in rovina, dovrebbe essere chiaro, non è attraente per il capitale privato”, argomenta Ghosh, citando un ulteriore piano di aiuti Fmi che sarebbe destinato al peggio, quello approvato lo scorso marzo per l’Ecuador. In attesa del ritorno degli investitori esteri, l’Argentina, come prima ancora era toccato alla Grecia, subisce le conseguenze sociali della crisi economica. Lo scenario, adesso, è che peronismo di sinistra possa ritornare al potere diminuendoo ulteriormente l’attrattività del Paese per i capitali esteri.
“Come può l’Fmi giustificare un approccio [verso i prestiti internazionali] con esperienze storiche così scarse?” si interroga l’accademica indiana, “una spiegazione potrebbe essere la mancanza di responsabilità che permea la burocrazia dell’istituzione, fino ai vertici”.
martedì 13 agosto 2019
Riscaldamento globale, è ‘albedo’ la parola dell’estate
Fonte: Il Fatto Quotidiano Paolo Martini Ambiente & Veleni - 13 Agosto 2019
L’estate delle brutte sorprese del riscaldamento globale ci ha portato anche una ventata d’esotismo entomologico. Conoscevamo già bene le zanzare tigre, ma ora con le famiglie West Nile e Usutu sono diventate infide, se non mortali. Portano malattie dai nomi altrettanto strani: dengue, chikungunya e zika virus. Ci mancavano solo le vespe samurai ed ecco che sono arrivate, poco prima di ferragosto, indicate dagli esperti come ultima spiaggia per contenere i danni devastanti alle culture ortofrutticole delle cimici asiatiche (halyoforma halys) e di altri parassiti orientali, come la drosophila suzukii: nemmeno i fitofarmaci con nomi da brivido, come il clorpirifos-metile e l’imidacloprid, tossici anche per l’uomo, riescono a fare pulizia come gli antagonisti naturali (le vespe samurai, ovvero il trissolcus japonicus e il t.mitsukurii), della famiglia terribile degli Imenotteri.
Dagli insetti alla storia: c’è stato persino un titolista giocoliere del Sole 24 ore che s’è divertito a mescolare il latino con l’inglese delle nuove espressioni che questa caldissima estate ha portato alla ribalta: “Tutta ‘culpa’ del climate change, così è caduto l’Impero romano”. Sic! Del resto, in pieno agosto ce ne vuole per far digerire ai pur colti lettori del domenicale allegato al quotidiano economico color salmone, un nuovo malloppo di 520 pagine sul destino di Roma, che del resto l’autore, un brillante storico dell’Oklahoma, Kyle Harper, svela chiaramente nel sottotitolo: “Clima, epidemie e fine di un Impero”.
È una fortuna se nel nostro circo mediatico sempre smanioso di novità, soprattutto se ansiogene, la narrazione degli effetti del riscaldamento globale non porta alla ribalta solo esotismi e anglicismi, ma anche antiche parole latine. E forse la più poetica che s’è riaffacciata nell’agenda di giornali e televisioni è “albedo“, che anche in inglese si conserva tale e quale l’originale, tutt’al più dietro a un suffisso “ice”.
Tra gli specialisti l’espressione ricorre dalla seconda metà dell’Ottocento, dopo che un climatologo autodidatta, James Croll, riuscì a formulare una prima teoria delle ere glaciali considerando anche l’effetto che si poteva imputare alla capacità di riflessione della luce da parte del ghiaccio, denominato “ice-albedo”. Già contadino, apprendista in una bottega di ruote, commerciante di tè, albergatore e agente delle assicurazioni, il geniale Croll affinò le sue intuizioni sul nostro albedo lavorando poi come bidello alla biblioteca dell’Anderson’s College dell’Università di Glasgow, e infine come custode delle mappe al servizio geologico scozzese.
Tornando ai giorni nostri, l’albedo entra nell’uso comune dei giornalisti con i primi approfondimenti sullo scioglimento dei ghiacciai alpini, un fenomeno che viene spiegato anche in conseguenza delle polveri da inquinamento e delle sabbie del Sahara che rendono più scuri, e quindi più caldi, gli strati superiori di queste riserve glaciali. L’albedo ha poi preso definitivamente il centro del discorso in seguito a uno degli eventi più tragici di questa estate, gli incendi che si sono portati via un grande patrimonio boschivo artico. Greenpeace ha parlato in prima battuta di qualcosa come tre milioni e 300mila ettari di foreste in fiamme, un’area più grande del Belgio, che avrebbe prodotto una quantità di CO2 in fumo pari a quasi 140 milioni di tonnellate, il doppio per esempio rispetto a quella dell’Austria.
“In un solo giorno, il 31 luglio, si sono sciolti dieci miliardi di tonnellate d’acqua e il 56% dei ghiacciai della Groenlandia si è assottigliato di un millimetro”, riassumeva un inquietante sommario de Il Manifesto, sotto al titolo: “Scioglimento record della calotta polare con gli incendi artici”. Bisogna considerare che non solo queste aree desertico-boschive funzionavano come uno dei più capaci polmoni di raffreddamento della terra, ma a preoccupare gli studiosi è anche la trasformazione di queste piante in fuliggine (il cosiddetto “black carbon“) che si sparge prima di tutto verso le zone artiche del pianeta e diminuisce ancor più l’albedo.
Tutte le foreste, a dire il vero, contribuiscono in modo fondamentale all’indice d’albedo del Pianeta: le tundre della Siberia e della Yakuzia che si sono incendiate lo facevano con percentuali maggiori, ma anche le fasce amazzoniche che Jair Bolsonaro sta lasciando abbattere per fare campi di soia avevano un ruolo notevole nell’equilibrio tra zone di maggiore riflessione e altre di maggiore assorbimento della luce. Che non importi nulla dell’ice-albedo alla stragrande maggioranza dei potenti della Terra è purtroppo arcinoto, ma questo è un triste discorso che non scalfisce il ‘plus’ poetico della parola.
Nella sua singolarità, l’albedo ha conosciuto una certa fortuna anche molto precedentemente allo studio del clima: se ne è cominciato a parlare secoli fa in alchimia, con la maiuscola, Albedo, a indicare la seconda fase della Grande Opera, dopo il nigredo e prima del rubedo, il rossore che accompagna la sublimazione e il compimento, tra fenice e pietra filosofale, nel sogno di trasformare in oro i metalli. Con echi meno esoterici, si può poi ritrovare d’uso comune l’albedo anche in botanica, per definire le parti bianche degli agrumi. Persino curiosando sul versante etimologico l’albedo moltiplica il suo effetto. Siamo nell’ambito dei vocaboli intorno all’alba, che nasce dal latino lux alba, ovvero luce bianca. A dire il vero è ancora incerto e misterioso l’originale remoto del femminile alba, che sarebbe “albus”, termine da cui vengono anche albo e album, intesi da secoli come tavolette appunto bianche da esporre per sovrascriverci gli avvisi pubblici.
Divagando ancora, viene naturale chiedersi quale sia stato il processo per cui ci siamo persi il bianco latino derivante da questo “albus”, per adottare il “blank” germanico: forse, in prima battuta, è stato traslitterato in cognome dai longobardi. Resta da notare che, mentre l’umanità intera si gioca il futuro facendo diminuire l’albedo alla terra, in italiano abbiamo accantonato il precedente “albèdine”: era questa, almeno fino al 1979, stando al grande dizionario di Cortellazzo-Zolli, l’unica e rara ricorrenza nella nostra lingua dell’albedo latino. E adesso, altro che l’eco soave di un’albedine perduta: stiamo per negare alle prossime generazioni anche l’esperienza del gelo nei boschi, un tesoro culturale senza cui non avremmo mai avuto i racconti di Jack London, per citare il primo esempio che viene in mente.
Ma del resto oggi, persino potendo trovare una foresta ancora nella fissità estrema di un inverno glaciale, immersi come siamo nei rumori permanenti delle nostre appendici elettroniche, pochi sarebbero ancor in grado di ascoltare – per dirla con un nostro grande poeta – “l’impercettibile sussurro” dell’albèdine tra gli alberi, “lieta dove non passa l’uomo”.
L’estate delle brutte sorprese del riscaldamento globale ci ha portato anche una ventata d’esotismo entomologico. Conoscevamo già bene le zanzare tigre, ma ora con le famiglie West Nile e Usutu sono diventate infide, se non mortali. Portano malattie dai nomi altrettanto strani: dengue, chikungunya e zika virus. Ci mancavano solo le vespe samurai ed ecco che sono arrivate, poco prima di ferragosto, indicate dagli esperti come ultima spiaggia per contenere i danni devastanti alle culture ortofrutticole delle cimici asiatiche (halyoforma halys) e di altri parassiti orientali, come la drosophila suzukii: nemmeno i fitofarmaci con nomi da brivido, come il clorpirifos-metile e l’imidacloprid, tossici anche per l’uomo, riescono a fare pulizia come gli antagonisti naturali (le vespe samurai, ovvero il trissolcus japonicus e il t.mitsukurii), della famiglia terribile degli Imenotteri.
Dagli insetti alla storia: c’è stato persino un titolista giocoliere del Sole 24 ore che s’è divertito a mescolare il latino con l’inglese delle nuove espressioni che questa caldissima estate ha portato alla ribalta: “Tutta ‘culpa’ del climate change, così è caduto l’Impero romano”. Sic! Del resto, in pieno agosto ce ne vuole per far digerire ai pur colti lettori del domenicale allegato al quotidiano economico color salmone, un nuovo malloppo di 520 pagine sul destino di Roma, che del resto l’autore, un brillante storico dell’Oklahoma, Kyle Harper, svela chiaramente nel sottotitolo: “Clima, epidemie e fine di un Impero”.
È una fortuna se nel nostro circo mediatico sempre smanioso di novità, soprattutto se ansiogene, la narrazione degli effetti del riscaldamento globale non porta alla ribalta solo esotismi e anglicismi, ma anche antiche parole latine. E forse la più poetica che s’è riaffacciata nell’agenda di giornali e televisioni è “albedo“, che anche in inglese si conserva tale e quale l’originale, tutt’al più dietro a un suffisso “ice”.
Tra gli specialisti l’espressione ricorre dalla seconda metà dell’Ottocento, dopo che un climatologo autodidatta, James Croll, riuscì a formulare una prima teoria delle ere glaciali considerando anche l’effetto che si poteva imputare alla capacità di riflessione della luce da parte del ghiaccio, denominato “ice-albedo”. Già contadino, apprendista in una bottega di ruote, commerciante di tè, albergatore e agente delle assicurazioni, il geniale Croll affinò le sue intuizioni sul nostro albedo lavorando poi come bidello alla biblioteca dell’Anderson’s College dell’Università di Glasgow, e infine come custode delle mappe al servizio geologico scozzese.
Tornando ai giorni nostri, l’albedo entra nell’uso comune dei giornalisti con i primi approfondimenti sullo scioglimento dei ghiacciai alpini, un fenomeno che viene spiegato anche in conseguenza delle polveri da inquinamento e delle sabbie del Sahara che rendono più scuri, e quindi più caldi, gli strati superiori di queste riserve glaciali. L’albedo ha poi preso definitivamente il centro del discorso in seguito a uno degli eventi più tragici di questa estate, gli incendi che si sono portati via un grande patrimonio boschivo artico. Greenpeace ha parlato in prima battuta di qualcosa come tre milioni e 300mila ettari di foreste in fiamme, un’area più grande del Belgio, che avrebbe prodotto una quantità di CO2 in fumo pari a quasi 140 milioni di tonnellate, il doppio per esempio rispetto a quella dell’Austria.
“In un solo giorno, il 31 luglio, si sono sciolti dieci miliardi di tonnellate d’acqua e il 56% dei ghiacciai della Groenlandia si è assottigliato di un millimetro”, riassumeva un inquietante sommario de Il Manifesto, sotto al titolo: “Scioglimento record della calotta polare con gli incendi artici”. Bisogna considerare che non solo queste aree desertico-boschive funzionavano come uno dei più capaci polmoni di raffreddamento della terra, ma a preoccupare gli studiosi è anche la trasformazione di queste piante in fuliggine (il cosiddetto “black carbon“) che si sparge prima di tutto verso le zone artiche del pianeta e diminuisce ancor più l’albedo.
Tutte le foreste, a dire il vero, contribuiscono in modo fondamentale all’indice d’albedo del Pianeta: le tundre della Siberia e della Yakuzia che si sono incendiate lo facevano con percentuali maggiori, ma anche le fasce amazzoniche che Jair Bolsonaro sta lasciando abbattere per fare campi di soia avevano un ruolo notevole nell’equilibrio tra zone di maggiore riflessione e altre di maggiore assorbimento della luce. Che non importi nulla dell’ice-albedo alla stragrande maggioranza dei potenti della Terra è purtroppo arcinoto, ma questo è un triste discorso che non scalfisce il ‘plus’ poetico della parola.
Nella sua singolarità, l’albedo ha conosciuto una certa fortuna anche molto precedentemente allo studio del clima: se ne è cominciato a parlare secoli fa in alchimia, con la maiuscola, Albedo, a indicare la seconda fase della Grande Opera, dopo il nigredo e prima del rubedo, il rossore che accompagna la sublimazione e il compimento, tra fenice e pietra filosofale, nel sogno di trasformare in oro i metalli. Con echi meno esoterici, si può poi ritrovare d’uso comune l’albedo anche in botanica, per definire le parti bianche degli agrumi. Persino curiosando sul versante etimologico l’albedo moltiplica il suo effetto. Siamo nell’ambito dei vocaboli intorno all’alba, che nasce dal latino lux alba, ovvero luce bianca. A dire il vero è ancora incerto e misterioso l’originale remoto del femminile alba, che sarebbe “albus”, termine da cui vengono anche albo e album, intesi da secoli come tavolette appunto bianche da esporre per sovrascriverci gli avvisi pubblici.
Divagando ancora, viene naturale chiedersi quale sia stato il processo per cui ci siamo persi il bianco latino derivante da questo “albus”, per adottare il “blank” germanico: forse, in prima battuta, è stato traslitterato in cognome dai longobardi. Resta da notare che, mentre l’umanità intera si gioca il futuro facendo diminuire l’albedo alla terra, in italiano abbiamo accantonato il precedente “albèdine”: era questa, almeno fino al 1979, stando al grande dizionario di Cortellazzo-Zolli, l’unica e rara ricorrenza nella nostra lingua dell’albedo latino. E adesso, altro che l’eco soave di un’albedine perduta: stiamo per negare alle prossime generazioni anche l’esperienza del gelo nei boschi, un tesoro culturale senza cui non avremmo mai avuto i racconti di Jack London, per citare il primo esempio che viene in mente.
Ma del resto oggi, persino potendo trovare una foresta ancora nella fissità estrema di un inverno glaciale, immersi come siamo nei rumori permanenti delle nostre appendici elettroniche, pochi sarebbero ancor in grado di ascoltare – per dirla con un nostro grande poeta – “l’impercettibile sussurro” dell’albèdine tra gli alberi, “lieta dove non passa l’uomo”.
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