Fonte: Il Fatto Quotidiano Paolo Martini Ambiente & Veleni - 13 Agosto 2019
L’estate delle brutte sorprese del riscaldamento globale ci ha portato anche una ventata d’esotismo entomologico. Conoscevamo già bene le zanzare tigre, ma ora con le famiglie West Nile e Usutu sono diventate infide, se non mortali. Portano malattie dai nomi altrettanto strani: dengue, chikungunya e zika virus. Ci mancavano solo le vespe samurai
ed ecco che sono arrivate, poco prima di ferragosto, indicate dagli
esperti come ultima spiaggia per contenere i danni devastanti alle
culture ortofrutticole delle cimici asiatiche (halyoforma halys) e di altri parassiti orientali, come la drosophila suzukii: nemmeno i fitofarmaci con nomi da brivido, come il clorpirifos-metile e l’imidacloprid, tossici anche per l’uomo, riescono a fare pulizia come gli antagonisti naturali (le vespe samurai, ovvero il trissolcus japonicus e il t.mitsukurii), della famiglia terribile degli Imenotteri.
Dagli insetti alla storia: c’è stato persino un titolista giocoliere del Sole 24 ore
che s’è divertito a mescolare il latino con l’inglese delle nuove
espressioni che questa caldissima estate ha portato alla ribalta: “Tutta
‘culpa’ del climate change, così è caduto l’Impero romano”. Sic! Del
resto, in pieno agosto ce ne vuole per far digerire ai pur colti lettori
del domenicale allegato al quotidiano economico color salmone, un
nuovo malloppo di 520 pagine sul destino di Roma, che del resto
l’autore, un brillante storico dell’Oklahoma, Kyle Harper, svela chiaramente nel sottotitolo: “Clima, epidemie e fine di un Impero”.
È
una fortuna se nel nostro circo mediatico sempre smanioso di novità,
soprattutto se ansiogene, la narrazione degli effetti del riscaldamento
globale non porta alla ribalta solo esotismi e anglicismi, ma anche
antiche parole latine. E forse la più poetica che s’è riaffacciata nell’agenda di giornali e televisioni è “albedo“, che anche in inglese si conserva tale e quale l’originale, tutt’al più dietro a un suffisso “ice”.
Tra gli specialisti l’espressione ricorre dalla seconda metà dell’Ottocento, dopo che un climatologo autodidatta, James Croll, riuscì a formulare una prima teoria delle ere glaciali considerando anche l’effetto che si poteva imputare alla capacità di riflessione della luce
da parte del ghiaccio, denominato “ice-albedo”. Già contadino,
apprendista in una bottega di ruote, commerciante di tè, albergatore e
agente delle assicurazioni, il geniale Croll affinò le sue intuizioni
sul nostro albedo lavorando poi come bidello alla biblioteca
dell’Anderson’s College dell’Università di Glasgow, e infine come custode delle mappe al servizio geologico scozzese.
Tornando ai giorni nostri, l’albedo entra nell’uso comune dei giornalisti con i primi approfondimenti sullo scioglimento dei ghiacciai alpini, un fenomeno che viene spiegato anche in conseguenza delle polveri da inquinamento
e delle sabbie del Sahara che rendono più scuri, e quindi più caldi,
gli strati superiori di queste riserve glaciali. L’albedo ha poi preso
definitivamente il centro del discorso in seguito a uno degli eventi più
tragici di questa estate, gli incendi che si sono portati via un
grande patrimonio boschivo artico. Greenpeace
ha parlato in prima battuta di qualcosa come tre milioni e 300mila
ettari di foreste in fiamme, un’area più grande del Belgio, che avrebbe
prodotto una quantità di CO2 in fumo pari a quasi 140 milioni di
tonnellate, il doppio per esempio rispetto a quella dell’Austria.
“In
un solo giorno, il 31 luglio, si sono sciolti dieci miliardi di
tonnellate d’acqua e il 56% dei ghiacciai della Groenlandia si è
assottigliato di un millimetro”, riassumeva un inquietante sommario de Il Manifesto,
sotto al titolo: “Scioglimento record della calotta polare con gli
incendi artici”. Bisogna considerare che non solo queste aree desertico-boschive funzionavano come uno dei più capaci polmoni di raffreddamento della terra, ma a preoccupare gli studiosi è anche la trasformazione di queste piante in fuliggine (il cosiddetto “black carbon“) che si sparge prima di tutto verso le zone artiche del pianeta e diminuisce ancor più l’albedo.
Tutte le foreste, a dire il vero, contribuiscono in modo fondamentale all’indice d’albedo del Pianeta: le tundre della Siberia e della Yakuzia che si sono incendiate lo facevano con percentuali maggiori, ma anche le fasce amazzoniche che Jair Bolsonaro sta lasciando abbattere per fare campi di soia
avevano un ruolo notevole nell’equilibrio tra zone di maggiore
riflessione e altre di maggiore assorbimento della luce. Che non importi
nulla dell’ice-albedo alla stragrande maggioranza dei potenti della
Terra è purtroppo arcinoto, ma questo è un triste discorso che non
scalfisce il ‘plus’ poetico della parola.
Nella sua singolarità, l’albedo ha conosciuto una certa fortuna anche molto precedentemente allo studio del clima: se ne è cominciato a parlare secoli fa in alchimia, con la maiuscola, Albedo, a indicare la seconda fase della Grande Opera, dopo il nigredo e prima del rubedo,
il rossore che accompagna la sublimazione e il compimento, tra fenice e
pietra filosofale, nel sogno di trasformare in oro i metalli. Con echi
meno esoterici, si può poi ritrovare d’uso comune l’albedo anche in
botanica, per definire le parti bianche degli agrumi. Persino curiosando
sul versante etimologico l’albedo moltiplica il suo effetto. Siamo
nell’ambito dei vocaboli intorno all’alba, che nasce dal latino lux alba,
ovvero luce bianca. A dire il vero è ancora incerto e misterioso
l’originale remoto del femminile alba, che sarebbe “albus”, termine da
cui vengono anche albo e album, intesi da secoli come tavolette appunto
bianche da esporre per sovrascriverci gli avvisi pubblici.
Divagando
ancora, viene naturale chiedersi quale sia stato il processo per cui
ci siamo persi il bianco latino derivante da questo “albus”, per
adottare il “blank” germanico: forse, in prima battuta, è stato
traslitterato in cognome dai longobardi. Resta da notare che, mentre
l’umanità intera si gioca il futuro facendo diminuire
l’albedo alla terra, in italiano abbiamo accantonato il precedente
“albèdine”: era questa, almeno fino al 1979, stando al grande
dizionario di Cortellazzo-Zolli, l’unica e rara ricorrenza nella nostra lingua dell’albedo latino. E adesso, altro che l’eco soave di un’albedine perduta: stiamo per negare
alle prossime generazioni anche l’esperienza del gelo nei boschi, un
tesoro culturale senza cui non avremmo mai avuto i racconti di Jack London, per citare il primo esempio che viene in mente.
Ma
del resto oggi, persino potendo trovare una foresta ancora nella
fissità estrema di un inverno glaciale, immersi come siamo nei rumori
permanenti delle nostre appendici elettroniche, pochi sarebbero ancor in
grado di ascoltare – per dirla con un nostro grande poeta –
“l’impercettibile sussurro” dell’albèdine tra gli alberi, “lieta dove
non passa l’uomo”.
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