venerdì 26 ottobre 2018

Generale USA: “alta probabilità guerra con Cina”

Fonte: Sputnik news
Il tenente generale degli Stati Uniti, Ben Hodges, ex comandante delle forze di terra in Europa, ha dichiarato al Forum sulla sicurezza di Varsavia che c’è un alta probabilità che tra quindici anni inizia una guerra con la Cina. È riportato da Sputnik International.
L'ex generale ha invitato l'Europa a prestare maggiore attenzione alla propria difesa, perché gli Stati Uniti devono concentrarsi sulla regione del Pacifico e sulla "minaccia cinese".
"Gli Stati Uniti hanno bisogno di un sostegno europeo molto forte, credo che tra 15 anni questo non sia inevitabile, ma c'è un'alta probabilità che gli Stati Uniti entreranno in guerra con la Cina", ha detto il generale.
Hodges ha aggiunto che, nonostante lo spostamento delle priorità geopolitiche, l'impegno statunitense nei confronti dell'Alleanza del Nord Atlantico rimane irremovibile.
In precedenza, il sondaggio del Military Times ha mostrato che quasi la metà del personale militare americano ritiene che il proprio paese sarà presto coinvolto in una guerra su vasta scala.

giovedì 25 ottobre 2018

Alert Inps: sei milioni di pensionati vivono con meno di 1000 euro al mese

Fonte: W.S.I. 25 ottobre 2018, di Alessandra Caparello

Sei milioni i pensionati italiani con un reddito da pensione sotto i mille euro al mese (il 37,5% del totale) e tra questi oltre il 64% (3,85 milioni) è rappresentato da donne. Lo dice l’INPS  nel suo ultimo Monitoraggio sui flussi di pensionamento da cui emerge come tra le donne pensionate il 45,9% ha meno di 1.000 euro al mese.
Le persone che possono contare su oltre 5.000 euro lordi al mese sono 266.180 (l’1,7% dei pensionati) in stragrande maggioranza (80,8%) uomini. L’istituto guidato da Tito Boeri sottolinea anche come tra gennaio e settembre soprattutto a causa dell’aumento dell’età per la pensione di vecchiaia delle donne e per gli assegni sociali scattato nel 2018 (da 65 anni e sette mesi a 66 anni e sette mesi) crollano le nuove pensioni, 349.621 a fronte delle 454.534 liquidate nei primi nove mesi del 2017. Il crollo si è registrato soprattutto nei nuovi assegni sociali passati da 57.758 a 13.168 (-77%).
La rilevazione è stata effettuata il 2 ottobre 2018, sottolinea l’INPS, e quindi nei prossimi mesi i dati esposti subiranno delle variazioni in relazione allo smaltimento delle domande ancora in giacenza. L’istituto poi sottolinea come mentre nel 2017  i requisiti di età per la pensione di vecchiaia e quelli di anzianità per la pensione anticipata sono rimasti immutati rispetto al 2016, nel 2018 invece si conclude il percorso di equiparazione dei requisiti per la pensione di vecchiaia tra uomini e donne nel settore dei dipendenti privati e dei lavoratori autonomi.
Così la pensione di vecchiaia nel 2018 viene infatti erogata al raggiungimento dell’età di 66 anni e 7 mesi sia per gli uomini che per le donne, arrivando quindi alla completa armonizzazione dei requisiti per tutti i lavoratori dipendenti privati ed i lavoratori autonomi. Per quanto riguarda invece la pensione anticipata, per il 2018 non sono previsti cambiamenti nei requisiti per la generalità dei lavoratori, ma entra stabilmente a regime la possibilità di pensionamento anticipato con soli 41 anni di contributi, per i cosiddetti “lavoratori precoci”.

mercoledì 24 ottobre 2018

Non solo l’Italia: un altro grande paese preoccupa Bruxelles

Fonte: W.S.I. 24 ottobre 2018, di Alessandra Caparello 

Non è solo l’Italia a preoccupare Bruxelles. La Francia, la seconda economia più grande d’Europa, ha ricevuto un’ avvertimento dall’Ue la settimana scorsa, secondo cui la riduzione del debito prevista per il 2019 dal governo Macron non rispetta le proposte che Parigi aveva precedentemente concordato con l’UE.
Anche la Spagna, il Belgio, il Portogallo e la Slovenia sono stati richiamati dall’UE. Ma soffermandoci sulla Francia, il piano di bilancio del 2019 prevede che il deficit strutturale, ossia la differenza tra le spese e le entrate, escluse le voci una tantum, scenda dello 0,1 per cento quest’anno e dello 0,3 per cento nel 2019. Lo scorso aprile Parigi aveva concordato una riduzione annuale dello 0,6% del PIL per il disavanzo strutturale. Anche se il tono dell’avvertimento arrivato da Bruxelles a Parigi è stato più morbido di quello verso Roma, i due paesi hanno in realtà forse più somiglianze che differenze come scrive Silvia Amaro della Cnbc.
La legge di bilancio francese per il 2019 dimostra che il governo conta molto su entrate molto ottimistiche per raggiungere il consolidamento fiscale e che la spesa è di nuovo fuori controllo”.
Così Daniel Lacalle, capo economista e responsabile degli investimenti di Tressis Gestion. Anche l’Italia è stata criticata per avere previsioni economiche molto ottimistiche nel suo piano di bilancio 2019. I dati dell’agenzia di statistica europea, Eurostat, mostrano che, da quando ha iniziato a raccogliere i dati francesi nel 1978, la Francia non ha mai registrato un’eccedenza di bilancio. Anche l’Italia, che fornisce dati dal 1995, non ha mai presentato un’eccedenza di bilancio.
Florian Hense, economista di Berenberg, ha detto che a prima vista il bilancio francese potrebbe essere anche peggiore di quello italiano, ma c’è una grande differenza.
“Presi nel loro valore nominale, i piani del bilancio francesi non sembrano molto migliori di quelli italiani, o addirittura peggiori. Ma, mentre la Francia sta lavorando in modo credibile per migliorare il suo potenziale di crescita a lungo termine (rafforzando sia la domanda che l’offerta dell’economia), l’Italia sta facendo il contrario (si pensi alla riforma pensioni e alla spesa fiscale incanalata verso i consumi piuttosto che verso gli investimenti)”.
Nel complesso, la Francia ha promesso di ridurre il debito pubblico totale nel 2019, ma con un margine molto sottile. Mentre il debito della Francia dovrebbe raggiungere il 98,7% del PIL nel 2018, si prevede una sua riduzione di 0,1 punti percentuali nel 2019 al 98,6%. Guardando all’Italia, il governo giallo-verde ha dichiarato che il rapporto debito/PIL del Paese scenderà dal 131,2% del PIL nel 2017 al 126,7% nel 2021. Numeri più alti quindi.
Le regole fiscali europee suggeriscono che i paesi membri non dovrebbero superare un rapporto debito/PIL del 60%. I dati di Eurostat hanno dimostrato che entrambi i paesi fondatori dell’UE hanno lottato per mantenere il rapporto debito/PIL al di sotto di tale soglia, ma la situazione sembra peggiore in Italia, dove dal 1995 il rapporto debito/PIL è sempre stato superiore al 100%.

martedì 23 ottobre 2018

Spread, ai mercati non conviene far fallire l’Italia ma vorrebbero una patrimoniale

Fonte: Il Fatto Quotidiano  Zonaeuro | 23 ottobre 2018 
Per uno Stato carico di debiti come quello italiano, è meglio continuare a indebitarsi sempre di più sui mercati finanziari, eventualmente applicare una nuova imposta patrimoniale o invece emettere moneta fiscale? E’ impossibile anticipare l’esito del braccio di ferro tra lo Stato debitore e la grande finanza che specula sul debito. E’ impossibile prevedere quale sarà nel prossimo futuro il valore di mercato dei titoli di Stato, dei Bot e dei BTP, e se lo spread – il differenziale di rendimento con i titoli di debito dello Stato tedesco – scenderà o invece salirà a livelli insostenibili. I mercati finanziari sono, infatti, per loro natura caotici e imprevedibili. Tuttavia c’è sempre una logica nella loro follia.
Il caos ha una natura deterministica; il mercato è imprevedibile ma nulla avviene per caso: tutto accade secondo ragione e necessità. In questo senso voglio azzardare una scommessa basandomi su argomentazioni razionali. I mercati sono spaventati perché credono che la nuova legge di bilancio del governo aumenterà il debito pubblico già troppo alto e non produrrà i tassi di crescita annunciati. Gli investitori chiedono tassi di interesse più alti sul debito italiano perché ritengono che il rischio Italia sia maggiore. Così lo spread cresce, e il debito rischia di aumentare a spirale.
La scommessa che faccio è che – nonostante i downgrade di Moody’s e di S&P e nonostante le bocciature della Ue – i mercati nei prossimi mesi non faranno fallire l’Italia. Posso sbagliarmi, ma se il governo regge, è difficile che nel prossimo futuro lo spread (già troppo alto) si allontani molto dai 300 punti. La previsione è basata su due elementi fondamentali: l’Italia è sicuramente solvibile; e a nessuno conviene fare fallire l’Italia. Infatti l’Italia ha un patrimonio tassabile che (almeno potenzialmente) permette certamente agli investitori e agli speculatori internazionali e nazionali di essere ripagati dei loro crediti. Con oltre 4000 miliardi di ricchezza finanziaria, basterebbe una patrimoniale – quella che tutti in Italia temono – per abbassare drasticamente il debito pubblico. Una tassa sui super-ricchi non è impensabile. In Italia l’1,5% dei cittadini italiani controlla circa 800 miliardi di ricchezza finanziaria. L’Italia è abbastanza ricca per rientrare dai debiti. Del resto una patrimoniale a sorpresa costituisce da sempre l’arma segreta di un governo in forte crisi che però voglia restituire i suoi debiti. E questo gli investitori finanziari lo sanno bene.
C’è poi un altro motivo per cui agli investitori in linea teorica non conviene far crescere lo spread fino a livelli insostenibili. Se lo Stato italiano fosse costretto a fallire – cioè a dichiarare formalmente che non restituisce i suoi debiti – molti operatori nazionali e internazionali registrerebbero forti perdite e si innescherebbe una reazione a catena che, almeno in teoria, non conviene a nessuno. Per gli investitori è meglio “tosare la pecora” che ammazzarla. La montagna del debito pubblico italiano sul mercato (circa 2000 miliardi) rappresenta già da qualche decennio una ghiotta e sicura opportunità di business per i creditori. Il fallimento dell’Italia comporterebbe invece quasi certamente la rottura dell’eurozona. La caduta dell’Euro provocherebbe choc economici e politici che nessuno saprebbe governare.
Da qui la mia (molto azzardata) previsione. Credo che l’Italia sarà costretta a fronteggiare ancora operazioni di logoramento piuttosto che di scontro frontale. Tuttavia, come ho già detto all’inizio, i mercati – fiancheggiati dalle istituzioni Ue – non sono prevedibili, sono caotici, e gli operatori si muovono in ordine sparso e in maniera cieca. Nell’economia di mercato non esiste l’ottimo di Pareto, cioè una soluzione stabile e razionale che conviene a tutti al massimo livello possibile. Cioè che è razionale dal punto di vista collettivo non lo è affatto dal punto di vista individuale. La mossa di un solo investitore può scatenare bruscamente un disastro economico. Un fatto è certo: in queste condizioni per l’Italia non esiste una strada facile e sicura per uscire dalla crisi del debito e rilanciare l’economia. Tuttavia esistono delle soluzioni meno rischiose è più praticabili di altre.
La soluzione migliore sarebbe certamente quella di sganciarsi per quanto possibile dalle speculazioni degli investitori, e che lo Stato italiano si riappropri, almeno in parte, della sua sovranità monetaria per finanziare la ripresa dell’economia di cui abbiamo bisogno come dell’aria. La soluzione potrebbe essere che lo stato, nel rispetto delle regole dell’eurozona, emetta autonomamente un titolo facilmente convertibile in euro, ovvero una quasi-moneta (così si chiamano in gergo i titoli molto liquidi, cioè subito convertibili in denaro sonante) nazionale. La soluzione è realmente realizzabile: lo Stato potrebbe infatti emettere dei Titoli di Sconto Fiscale per qualche decina di miliardi di euro senza metterli all’asta sul mercato primario dove le grandi banche d’affari comprano il nostro debito pubblico fissando di volta in volta lo spread. Lo Stato potrebbe, invece, assegnare gratuitamente e direttamente i TSF a famiglie, enti pubblici e imprese. I TSF servirebbero a pagare le tasse, i contributi, multe, tariffe pubbliche ecc, ma, per non generare un immediato buco fiscale, maturerebbero – cioè sarebbero utilizzabili – solo al quarto anno dall’emissione. Questi titoli negoziabili potrebbero però essere subito convertiti in euro, proprio come lo sono i Bot e i Btp.
La nuova liquidità assegnata a famiglie, imprese e enti pubblici ridarebbe ossigeno all’economia. In questa maniera lo Stato eviterebbe lo spread e rilancerebbe direttamente la domanda aggregata (investimenti, consumi, spesa pubblica) e, quindi, la produzione e l’occupazione. In Italia infatti non mancano le capacità produttive. Quello che manca è la moneta per rimetterle in moto. Se la nuova moneta messa in circolazione con l’assegnazione dei TSF fosse spesa bene, grazie al moltiplicatore fiscale e alla crescita dell’inflazione dovuta all’aumento della domanda, in tre anni il Pil crescerebbe in misura tale che al quarto anno – nel momento dell’utilizzo effettivo degli sconti fiscali – ci sarebbero entrate fiscali tali da più che compensare l’emissione iniziale. Lo Stato non ha, quindi, bisogno di indebitarsi con i mercati: può finanziarsi da solo. E può farlo senza uscire dalle (stupide) regole dell’euro: infatti, i TSF non sono moneta, e, come strumento fiscale, sono perfettamente compatibili con il trattato di Maastricht.
Zonaeuro | 23 ottobre 2018

lunedì 22 ottobre 2018

Italiani popolo di formiche: cosa c’è dietro la crescita dei risparmi

Fonte: W.S.I. 22 ottobre 2018, di Alessandra Caparello

Crescono i risparmi delle famiglie italiane che vuoi la crisi politica, vuoi le tensioni finanziarie, decidono di lasciare il loro denaro sui conti con la conseguenza che aumentano le riserve in banca cresciute in 12 mesi di oltre 50 miliardi di euro mentre i c/c arrivano a sfondare il tetto dei mille miliardi.
Questi i dati principali che emergono dalle ricerca del Centro studi di Unimpresa sull’andamento delle riserve delle famiglie e delle imprese italiane, secondo la quale, in totale, negli ultimi 12 mesi nei conti correnti sono stati accumulati 74 miliardi in più rispetto all’anno precedente. Nel dettaglio, dice il rapporto, le famiglie non spendono e hanno lasciato in banca 26,1 miliardi in un anno (+2,77%), così anche le aziende i cui fondi sono cresciuti di circa 20 miliardi (+7,95%), e di oltre 4 miliardi invece le imprese familiari (+7%).
“Da diversi anni registriamo questo preoccupante andamento dei depositi bancari. A frenare consumi, investimenti e credito sono rispettivamente la paura di nuove tasse e l’assenza di certezze sul futuro, nell’ultimo periodo si è aggiunta anche qualche preoccupazione sul fronte politico per l’instabilità del governo”.
Così il presidente di Unimpresa, Giovanna Ferrara. Questi dati arrivano mentre la Consob mette in luce come le scelte di investimento degli italiani sono ancora segnate da una scarsa conoscenza dei concetti base della finanza. Nel rapporto  sulle scelte di investimento delle famiglie italiane per il 2018, l’Autorithy  evidenzia che la ricchezza netta delle famiglie rimane stabile sui livelli del 2012 attestandosi a 9 volte il reddito disponibile, sopra la media Ue ma i risparmiatori italiani sono “affetti” da un cronico ritardo in termini di educazione finanziaria. Solo il 50% degli intervistati ha dichiarato di comprendere il significato di nozioni di base  come inflazione, relazione rischio/rendimento, diversificazione, mutui e interesse composto, mentre solo il 20%ha risposto correttamente su temi come relazione prezzo/tassi di interessi delle obbligazioni e rischiosità delle azioni. Solo il 20% degli intervistati infine manifesta la volontà di voler accrescere le proprie competenze, con una maggiore frequenza tra le donne.

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