sabato 26 gennaio 2019

Soros: “guerra fredda tra Usa e Cina rischia di diventare calda”

Fonte: W.S.I. 25 Gennaio 2019, di Mariangela Tessa

Stati Uniti e Cina sono bloccati una una guerra fredda, che rischia di trasformarsi presto in una guerra calda. La pensa così il miliardario George Soros che, ieri, durante una cena a Davos, dove è in corso il World Economic Forum , ha puntato il contro il presidente Usa Donald Trump, giudicando “semplicistico” il suo approccio alle relazioni con la Cina.
“Una politica efficace nei confronti della Cina non può essere ridotta a uno slogan, deve essere molto più sofisticata”, ha affermato Soros, aggiungendo che “purtroppo il presidente Trump sembra seguire un altro corso: fare concessioni alla Cina e dichiarare la vittoria, rinnovando i suoi attacchi contro gli alleati degli Stati Uniti. Tutto questo potrebbe minare l’obiettivo politico degli Stati Uniti di arginare gli abusi e gli eccessi della Cina”, ha affermato.
Soros, un importante donatore del partito democratico e critico del presidente Donald Trump, ha quindi aggiunto:
“La realtà è che siamo in una guerra fredda che minaccia di trasformarsi in una guerra calda”, sottolineando così i pericoli impliciti delle tensioni commerciali tra i due paesi.
Il finanziere Usa non risparmia colpi per il presidente cinese Xi Jinping, paragonato al Grande Fratello. Parlando della Cina, il finanziere ha sottolineato che la Cina non è il solo regime autoritario al mondo, ma di sicuro il più forte, il più ricco e più pericoloso visto che usa la tecnologia per il controllo sociale.
“Questo rende Xi Jinping il più pericoloso oppositore delle società aperte”.

mercoledì 23 gennaio 2019

Come la Francia usa il CFA per garantire parte del debito

Fonte: W.S.I. 22 gennaio 2019, di Francesco Puppato
Il tema è vecchio e noto, ma proprio in questi giorni sta tornando alla ribalta.
Vuoi per l’evolversi degli scenari in Francia, vuoi per un crescente euroscetticismo, negli ultimi tempi si fa un gran parlare della questione legata al CFA, ovvero il Franco Centrafricano (Comunità Finanziaria Africana).
Ancora circa sette anni fa ne parlava l’economista Alberto Bagnai, ponendo l’attenzione su questioni inerenti alla sovranità monetaria. Ad oggi, la domanda è: se la questione del CFA relativa alla sovranità monetaria dei Paesi africani che adottano questa moneta spaventa tanto, perché non ci preoccupiamo allo stesso modo dell’euro?
Recentemente, alla trasmissione “Che tempo che fa”, Alessandro Di Battista ha dichiarato in merito alla questione:
“Attualmente la Francia, vicino Lione, stampa la moneta utilizzata in 14 paesi africani, tutti i paesi della zona subsahariana. I quali, non soltanto hanno una moneta stampata dalla Francia, ma per mantenere il tasso fisso, prima con il franco francese e oggi con l’euro, sono costretti a versare circa il 50 per cento dei loro denari in un conto corrente gestito dal tesoro francese…ma soprattutto la Francia, attraverso questo controllo geopolitico di quell’area dove vivono 200 milioni di persone che utilizzano le banconote di una moneta stampata in Francia, gestisce la sovranità di questi paesi impedendo la loro legittima indipendenza, sovranità fiscale, monetaria e valutaria, e la possibilità di fare politiche economiche espansive”.
In realtà a emettere la moneta non è la banca centrale francese, come spiega il sito LaVoce.info in un esauriente fact checking che smentisce parte dell’argomentazione critica di Di Battista (che confine il posto di dove si stampa denaro da quello dove si emette), bensì le singole banche centrali africane. A stampare la moneta sono anche due fabbriche francesi, ma questo non significa nulla. Stampare è questione di tecnologia, ma non dà alcun “potere” decisionale monetario.
Il sistema di cambi fissi è garantito dalla Banca centrale francese, che in cambio del servizio offerto chiede che gli Stati africani depositino il 50% delle riserve valutarie in monta estera presso il tesoro Francese (riserve quindi e non dei “denari” come sostiene Di Battista), in un conto di trading che corrisponde interessi e che è aperto a loro nome. Si stima che il valore di queste riserve sia pari a 10 miliardi di euro circa.
“Ogni politica di tasso di cambio fisso – spiega La Voce.info – richiede una riserva di valuta estera (in questo caso, l’euro) a garanzia. E le riserve in valuta estera si possono tenere soltanto in banche commerciali dell’area valutaria di riferimento oppure nella sua banca centrale”.
Prima di Di Battista, anche il sito Scenarieconomici.it – che ha una linea editoriale euro scettica e che ha ospitato spesso commenti del ministro del governo attuale Paolo Savona – aveva trattato l’argomento, sostenendo più precisamente che il funzionamento del CFA segue l’esempio sottostante:
  • Mandate l’euro per la scuola in Senegal;
  • L’euro va a Parigi;
  • Parigi trattiene l’euro, lo cambia in franco CFA, ma solo la metà viene mandata in Africa;
  • Queste riserve in euro depositate in Francia sono investiti in Titoli di Stato francesi.
Un video con dichiarazioni di professori universitari, che può essere definito un mini documentario, è facilmente reperibile al link e ne spiega in maniera sintetica ma chiara il funzionamento, mettendo in evidenza le criticità e i problemi della situazione. Detto questo, non si può parlare di imposta coloniale, come fanno alcuni.
I Paesi africani che fanno parte della cosiddetta “zone franc” e che utilizzano il CFA sono 14: Camerun Ciad, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo, Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo. I primi sei Paesi hanno il Franco CFA CEMAC (Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale), gli altri otto hanno il Franco CFA UEMOA (Unione economica e monetaria occidentale africana).
Wikipedia riporta che gli accordi che vincolano i due istituti centrali con le autorità francesi sono identici. Sono in vigore da quando sono stati firmati due trattati tra il 1959 e il 1962 (dopo la conquista dell’indipendenza da parte dei paesi africani sopra citati) e prevedono le seguenti clausole:
  • Un tipo di cambio fissato alla divisa europea;
  • Piena convertibilità delle valute con l’euro garantita dal Tesoro francese;
  • Fondo comune di riserva di moneta estera a cui partecipano tutti i paesi del CFA (almeno il 65% delle posizioni in riserva depositate presso il Tesoro francese, a garanzia del cambio monetario);
  • In contropartita alla convertibilità era prevista la partecipazione delle autorità francesi nella definizione della politica monetaria della zona CFA.
Questo sistema permette chiaramente una grande fiducia nella stabilità della moneta del paese africano dell’area. Per gli investitori, infatti, il legame con l’euro viene considerato come una garanzia monetaria.
Il franco CFA ha sempre mantenuto la parità rispetto al franco francese, salvo in casi particolari; dopo l’introduzione dell’euro, il valore del franco CFA è stato agganciato alla nuova valuta. Gli Stati africani sono loro per primi d’accordo nel mantenere il sistema di cambio fisso, che contribuisce a scongiurare inflazioni galoppanti nei paesi più vulnerabili, garantendo un’economia più solida.
14 paesi africani contribuiscono a sostenere il debito francese
La divisa straniera che viene convertita in franco CFA viene mandata alle banche centrali africane, ma il 50% deve restare in Francia come garanzia. La Francia trattiene la metà delle riserve in valuta estera: 10 miliardi che contribuiscono in parte a finanziare il debito pubblico. Di fatto i paesi africani contribuiscono a sostenere il debito francese.
In cambio ottengono una moneta forte, che tuttavia non sempre offre una situazione ideale per alcuni paesi che invece forse preferirebbero svalutare e investire maggiormente. Il franco CFA è una moneta forte, soltanto che dietro c’è spesso una moneta debole. È una divisa sopravvalutata del 10-15%. Inoltre le banche di questi paesi di solito preferiscono non prestare troppo  denaro, per evitare un incremento dell’inflazione, che metterebbe a rischio la salvaguardia del tasso di cambio fisso.
Sebbene sia la Banca di Francia e non la Banca centrale europea a continuare a garantire la convertibilità del franco CFA, la parità con l’euro obbliga le Banche centrale dell’area CFA a sottostare alla politica monetaria della Bce. I paesi africani dell’area “franco” sono costretti  a mantenere l’inflazione sotto il 2 % per la UEMOA e sotto il 3 % per la Cemac, subendo le conseguenze di una moneta forte,  talvolta poco adatta al contesto regionale che ne limita gli investimenti pubblici.
Questa tematica ha dunque notevoli impatti sull’economia, ovviamente, che a sua volta impatta sulla qualità della vita. Second Chiara Barison di Tfm.tv “questo fattore è uno dei motivi per cui tanti senegalesi decidono di avventurarsi in progetti migratori regolari o irregolari”.
Insomma, tanta carne al fuoco che davvero varrebbe la pena fosse affrontata con la giusta serietà, senza considerare il già enorme ritardo. La questione CFA non è solo africana ma anche europea e sembra davvero ridicolo che l’Ue si impunti testardamente quando si tratta di discutere sullo “zero virgola…” del deficit italiano, ma permetta operazioni distorte del genere.

martedì 22 gennaio 2019

Oxfam, stanno tornando i faraoni. Ce lo dice l’ultimo rapporto sulla distribuzione della ricchezza

Fonte: Il Fatto Quotidiano Economia & Lobby | 22 Gennaio 2019 

La prima volta che mi imbattei nel Rapporto sulla distribuzione della ricchezza che Oxfam rende noto alla vigilia del supervertice di Davos i miliardari necessari a “pesare” tanto quanto la metà della popolazione mondiale erano alcune centinaia. Mi parve un dato così sconvolgente che presi a concludere ogni mio contributo nella radio in cui allora lavoravo con un “ricordatevi di Oxfam”. Uno squilibrio che da solo, scrissi, mi sembrava sufficiente a spiegare tutte le contorsioni e distorsioni politiche e sociali del nostro mondo, dall’ondata populista, che allora faceva le sue prime apparizioni, ai fenomeni migratori di massa.
Negli anni che da allora sono passati il tema della diseguaglianza e della concentrazione di ricchezza è diventato dominante nel dibattito intellettuale, economico e politico. Tutti o tanti fra quelli che contano hanno comprato e magari qualcuno anche letto i libri di Atkinson, Piketty, Milanovic. Altri, invece, si sono accaniti contro i criteri adottati dalla Ong inglese per calcolare il patrimonio nel tentativo di rimpicciolire l’immagine di zii Paperoni che si tuffano nel deposito. Energumeni da tastiera che magari villeggiano all’ombra dei petrodollari si sono entusiasmati per gli scandali che l’hanno colpita, ostentando la stessa logica per cui se in America sta nevicando allora è falso che in Australia ci siano 50 gradi. Ma alla fine nessuno è riuscito a cancellare il fatto, ormai assodato, che la piramide dei redditi è formata da una base amplissima e bassissima su cui svetta una guglia incredibilmente alta e sottile. E nemmeno a incidere anche minimamente sul fenomeno.
Anno dopo anno il numero dei miliardari necessari a bilanciare i tre miliardi e settecento milioni di esseri umani normali è diminuito fino a scendere agli attuali 26. Gli altri nababbi rimasti indietro non se la passano tanto male, visto che i 2200 più ricchi hanno visto crescere il loro patrimonio complessivo di 900 miliardi di dollari nel solo 2018. Scherzando possiamo dire che l’azione di contrasto più rilevante del decennio potrebbero essere i termini del divorzio di Jeff Bezos. Esattamente come nella questione del global warming, il quantitativo di dati e commenti è inversamente proporzionale ai risultati concreti nell’affrontare il problema. Anzi sul tema della ricchezza i fatti agiscono in direzione ostinata e contraria.
Dalla riforma fiscale di Trump a quella di Macron, dalla flat tax per ricchi stranieri di Renzi a quella finora solo pensata di Salvini e Borghi, dalla competizione al ribasso tra Stati di cui parlava Il Fatto Quotidiano domenica scorsa alla spregiudicatezza con cui vengono sfruttate da aziende e individui privi di qualsivoglia senso della misura, le élite continuano a favorire il ritorno a condizioni faraoniche. Chiedendosi perplesse, poi, come mai chi è restato plebe affamata e chi ha perso anche l’ultimo vagone della redistribuzione sia così arrabbiato, inferocito e privo di buoni sentimenti. Davvero, chissà perché?
Economia & Lobby | 22 Gennaio 2019

lunedì 21 gennaio 2019

Cottarelli, l’economia commette un grosso errore. E Di Maio l’ha capito

Fonte: Il Fatto Quotidiano  Economia & Lobby | 21 Gennaio 2019 
Vorrei parlare di due persone: il professor Carlo Cottarelli e Aurelio Peccei.
Il professor Cottarelli non abbisogna di presentazione. Persona dalla evidente correttezza e integrità professionale, oltre che competenza, lo stimo moltissimo, così come la grande maggioranza dei nostri connazionali. Aurelio Peccei pochi lo conoscono, ma è stato un grande, grandissimo italiano, un nome da Premio Nobel. Ne parlo anche in relazione a una piccola vicenda personale che mi ha portato nel 1984 a un contatto con lui che mi rimarrà sempre impresso. Fu uno dei più grandi italiani del secolo scorso; una persona poco conosciuta ma grandiosa, che aveva posto l’uomo al centro dell’Universo. Aurelio Peccei, il fondatore del Club di Roma cui si deve il libro I limiti dello sviluppo.
Circa 35 anni fa, quando – giovane 42enne, pieno di impulsi conoscitivi – mi era interessato della sorte dell’oro (bene rifugio per eccellenza), era l’epoca in cui avvenivano dei cambiamenti sensibili nel mondo arabo, a seguito di una forte evoluzione del prezzo del petrolio che faceva affluire oro a palate nelle casse arabe. Avevo scritto un piccolo studio che andavo raccontando in diversi Rotary e diversi Lions club. Ero un ingegnere, non un economista e percepivo qualcosa al di fuori degli schemi in voga: raccoglievo consensi. Ma portavo in me una rilevante incertezza. Pensai di mandare queste mie idee ad Aurelio Peccei, che non avevo mai conosciuto, ma che per me era una figura di grandissimo valore e di grande umanità concreta. Gli chiesi, se possibile, un parere su quelle idee.
Con mia grande sorpresa, nel giro di una settimana mi rispose con una bellissima lettera che conservo gelosamente e il cui contenuto costituisce la ragione di questo mio post sul Fatto Quotidiano. Mi disse:
a) apprezzo e condivido le valutazioni da lei fatte sui problemi dell’oro (e, devo dire, trassi un bel sospiro di sollievo); b) stiamo varando e lanciando una iniziativa di studio macropolitico a Ginevra chiamata Forum Humanun. La invito a prendere contatto e a parteciparvi; c) voi economisti commettete tutti quanti un grosso errore: ritenete che l’economia costituisca il “grosso” della politica. Non è così, l’economia è semplicemente un mezzo per avvicinarci il più possibile alla felicità di tutti, per raggiungere la quale, però, esistono altre tematiche forse più importanti dell’economia, quali la giustizia, la sicurezza, la cultura, l’equità, la qualità della vita, l’utilizzo delle risorse terrestri e umane.
Circa il Forum Humanum dovetti rinunciarci. Avevo da poco abbandonato la carriera manageriale (a 39 anni ero un vicedirettore Fiat) per intraprendere, per mia scelta di vita, quella di consulente indipendente per la direzione aziendale e, con due figli piccoli, dovevo stare molto attento a impostare bene questa scommessa. Ma l’osservazione di cui al punto c) fu per me una vera a propria svolta filosofica. E così torniamo al professor Cottarelli.
La realtà è molto semplice: Cottarelli sta a Peccei come un radiologo sta ad un medico curante. Cottarelli ricopre un ruolo (molto dignitoso e assolutamente necessario, per carità) di formatore professionale delle informazioni e di controllo di ciò che avviene a fronte delle previsioni adottate; Peccei studiava e forma le previsioni. Non solo, mentre Peccei pensava e “prevedeva” esplorando al meglio tutti i settori che compongono la vita politica di un Paese, se togliamo lo scenario puramente “contabile-amministrativo” Cottarelli è sostanzialmente cieco.
Ma dove sta il busillis (la difficoltà)? Sta in un vezzo che discende da un’abitudine antica e ingannevole di confondere, specie in Italia, l’economia con la sola componente amministrativa. È un classico: discende da come è impostata la cultura nelle nostre scuole di economia. Qualche sera fa, seguendo la trasmissione di Di Martedì, fui molto colpito dalla tensione quasi rabbiosa fra Giovanni Floris e Cottarelli da un lato e Luigi Di Maio dall’altro. Era straevidente che si assisteva allo scontro fra due mondi che non comunicavano fra di loro. A mio parere Floris e Cottarelli recitavano un ruolo legato a un approccio tradizionale, vecchio, anche se corretto e necessario, sia ben chiaro; ma Di Maio parlava un altro linguaggio, suonava un’altra musica. E Floris e Cottarelli – due ottimi professionisti dalla evidente onestà intellettuale – non lo capivano.
Chissà come andrà il futuro, ma una cosa è sicura. Ed è che questo governo gialloverde ha avviato un approccio del tutto nuovo ed è anche sicuro che io sono dalla sua parte. Ed è pure opportuno che questa strabordante ossessiva presenza della parola “economia” nei problemi di politica (che poi è ormai diventata “finanza” ancor più che “economia”) ha un riscontro pazzesco nella realtà umana: ha concentrato la ricchezza sempre di più su una parte piccolissima della popolazione terrestre e ha dilatato a dismisura la povertà in tutta la restante parte: bingo, dottor Peccei!
Economia & Lobby | 21 Gennaio 2019

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