17/03/2016 di
triskel182
QUASI
cinque anni fa, nel giugno 2011, ventisei milioni di italiani votarono
sì in un referendum con il quale si stabiliva che l’acqua deve essere
pubblica. Oggi, ma non è la prima volta, si cerca di cancellare quel
risultato importantissimo, approvando norme che sostanzialmente
consegnano ai privati la gestione dei servizi idrici. Non è una
questione secondaria, perché si tratta di un bene della vita e perché
viene messa in discussione la rilevanza di uno strumento essenziale per
l’intervento diretto dei cittadini. Tutto questo avviene in un momento
in cui si parla intensamente di referendum sì che, prima di
approfondire la questione, conviene dire qualcosa sul contesto nel
quale ci troviamo.
Una domanda,
prima di tutto. Il 2016 è l’anno del referendum o dei referendum? Da
molti mesi si insiste sul referendum autunnale, dal quale dipendono un
profondo mutamento del sistema costituzionale e, per esplicita
dichiarazione del presidente del Consiglio, la stessa sopravvivenza del
governo. Ma nello stesso periodo si sono via via manifestate diverse
iniziative dei cittadini per promuovere altri referendum, ma anche per
raccogliere firme per presentare leggi di iniziativa popolare e per
chiedere che la Corte costituzionale si pronunci sulla legittimità
della nuova legge elettorale (e già il Tribunale di Messina ha inviato
l’Italicum alla Consulta).
Questo non
significa che quest’anno saremo chiamati a pronunciarci su una serie di
referendum. Questo avverrà in un solo caso, il 17 aprile, quando si
voterà per dire sì o no alle trivellazioni nell’Adriatico. Per gli
altri dovremo aspettare il 2017. Ma già dai prossimi giorni
cominceranno le diverse raccolte delle firme, con effetti politici che
non possono essere trascurati. In un tempo dominato dal distacco tra i
cittadini e la politica, dalla progressiva perdita di fiducia nelle
istituzioni, questo attivismo testimonia l’esistenza di riserve diffuse
di attenzione per grandi e concreti problemi, di mobilitazioni non
sollecitate dall’alto che non possono per alcuna ragione essere
sottovalutate. Ma non saremo di fronte soltanto ad un inventario di
domande sociali. Poiché a ciascuna di queste domande si fa
corrispondere una iniziativa istituzionale, questo significa che i
cittadini diventano protagonisti della costruzione dell’agenda
politica, dell’indicazione di temi di cui governo e Parlamento dovranno
occuparsi. Non è un fatto secondario per chi vuole stabilire lo stato
di salute della democrazia nel nostro Paese.
Seguiamo
i diversi casi in cui si vuol dare voce ai cittadini. Una larga
coalizione si è costituita intorno a tre referendum “sociali”, che
riguardanolavoro, scuola, ambiente e beni comuni, per abrogare norme di
leggi recenti (Jobs act, “buona scuola”) che più fortemente incidono
sui diritti. Tre sono pure i referendum istituzionali, poiché a quello
sulla riforma costituzionale se ne aggiungono due riguardanti
l’Italicum. Le leggi d’iniziativa popolare riguardano l’articolo 81
della Costituzione, il diritto allo studio nell’università (per
iniziativa della rete studentesca Link), la disciplina dell’ambiente e
dei beni comuni. E bisogna aggiungere l’iniziativa della Cgil che sta
consultando tutti i suoi iscritti su una “Carta dei diritti universali
del lavoro”, mostrando come si vada opportunamente diffondendo la
consapevolezza che vi sono decisioni che bisogna prendere con il
coinvolgimento il più largo possibile di tutti gli interessati.
Sarebbe
un grave errore archiviare queste indicazioni come se si fosse di
fronte ad una elencazione burocratica. Vengono invece poste tre
serissime questioni politico-istituzionali: come riaprire i canali di
comunicazione tra istituzioni e cittadini, per cercar di restituire a
questi la fiducia perduta e avviare così anche una qualche
ricostruzione dei contrappesi costituzionali; come evitare che si
determini una inflazione referendaria; come riprendere seriamente la
riflessione su “ciò che resta della democrazia” (è il titolo del bel
libro di Geminello Preterossi da poco pubblicato da Laterza). Ma
sarebbe grave anche giungere alla conclusione che l’unico referendum che
conta sia quello, sicuramente importantissimo, sulla riforma
costituzionale, e che tutti gli altri non meritino alcuna attenzione e
che si possa ignorarne gli effetti.
Sembra
proprio questa la conclusione alla quale maggioranza e governo sono
giunti negli ultimi giorni, nell’approvare le nuove norme sui servizi
idrici, che contraddicono il voto referendario del 2011. Quel risultato
clamoroso avrebbe dovuto suscitare una particolare attenzione politica
e, soprattutto, una interpretazione dei risultati referendari la più
aderente alla volontà dei votanti. E invece cominciò subito una
guerriglia per vanificare quel risultato, tanto che la Corte
costituzionale dovette intervenire nel 2012 con una severa sentenza che
dichiarava illegittime norme che cercavano di riprodurre quelle
abrogate dal voto popolare. Ora, discutendo proprio una nuova legge in
materia, si è prodotta una situazione molto simile e viene ripetuto un
argomento già speso in passato, secondo il quale formalmente l’acqua
rimane pubblica, essendo variabili solo le sue modalità di gestione. Ma
qui, come s’era cercato di spiegare mille volte, il punto chiave è
appunto quello della gestione, per la quale le nuove norme e il testo
unico sui servizi locali fanno diventare quello pubblico un regime
eccezionale e addirittura ripristinano il criterio della ”adeguatezza
della remunerazione del capitale investito” cancellato dal voto
referendario.
È evidente che, se questa
operazione andrà in porto, proprio il tentativo di creare occasioni e
strumenti propizi ad una rinnovata fiducia dei cittadini verso le
istituzioni rischia d’essere vanificato. Se il voto di milioni di
persone può essere aggirato e messo nel nulla, il disincanto e il
distacco dei cittadini cresceranno e crollerà l’affidabilità degli
strumenti democratici se una maggioranza parlamentare può impunemente
travolgerli.
Questo, oggi, è un vero punto
critico della democrazia italiana, non il rischio di una inflazione
referendaria sulla quale Ian Buruma ha richiamato l’attenzione. Le sue
preoccupazioni, infatti, riguardano un particolare uso del referendum,
populistico e plebiscitario, promosso dall’alto, e dunque l’opposto del
referendum per iniziativa dei cittadini, che è il modello adottato
dalla Costituzione. I costituenti, una volta di più lungimiranti e
accorti, hanno previsto una procedura per il referendum che lo sottrae
al rischio di divenire strumento di quel dialogo ravvicinato tra “il
capo e la folla” indagato da Gustave Le Bon. E che prevede una
separazione tra tempi referendari e tempi della politica, per evitare
che questi stravolgano il senso del ricorso a uno strumento così
delicato della democrazia diretta.
Anche
per questa via, dunque, siamo obbligati ad interrogarci intorno al
senso della democrazia nel tempo che stiamo vivendo. Di essa si è
talora certificata la fine o si sono segnalate trasformazioni tali da
indurre a parlare, ben prima delle recenti sgangherate polemiche, di
democrazia “plebiscitaria”, “autoritaria”, “dispotica” (forse la
lettura di qualche libro dovrebbe essere richiesta a chi pretende di
intervenire nelle discussioni).
Articolo intero su La Repubblica del 17/03/2016.
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A Rodotà piace vincere facile nel raccontare la realtà e i suoi sviluppi..