venerdì 1 marzo 2019

Germania rischia doppio smacco da dazi e no-deal Brexit

Fonte: W.S.I. 1 Marzo 2019, di Alessandra Caparello

L’aumento delle tariffe statunitensi per le auto e uno scenario no-deal per la Brexit rischiano di essere un doppio smacco per la Germania e per mitigare gli effetti la cancelliera Angela Merkel e i suoi ministri stanno lavorando dietro le quinte.
“Se il doppio smacco si materializzasse, vogliamo estrarre qualcosa dal cappello”.
Così alla Reuters un alto funzionario del governo tedesco secondo cui il governo sta lavorando a un pacchetto di stimoli fiscali. La Germania, che ha evitato per un soffio la recessione, è particolarmente vulnerabile sia ai rischi delle tariffe statunitensi fino al 25% sulle automobili, sia alla Gran Bretagna che esce dall’UE il 29 marzo senza un accordo.
Germania, export valgono quasi metà produzioneLe esportazioni rappresentano quasi la metà della produzione economica della Germania e le auto sono di gran lunga la principale esportazione con vendite annuali che toccano un valore di 230 miliardi di euro (263 miliardi di dollari), secondo i dati dell’Ufficio federale di statistica.
La destinazione di esportazione più importante per le auto tedesche lo scorso anno è stata negli Stati Uniti con ricavi per 27,2 miliardi di euro, seguita dalla Cina con 24,7 miliardi di euro e dalla Gran Bretagna con 22,5 miliardi di euro. In termini di numero di auto esportate, Londra è in cima alla lista con 666.000 e gli Stati Uniti sono al secondo posto con 470.000, secondo i dati dell’associazione del settore VDA.
Se entrambi gli scenari – tariffe e no deal – diventeranno realtà, l’impatto combinato potrebbe ridurre fino a 0,7 punti percentuali la crescita del prodotto interno lordo (PIL) della Germania a lungo termine, secondo le stime separate di Commerzbank e dell’Istituto Ifo.
Dazi più elevati e Brexit no deal: ciclo vizioso per economiaPer l’economia tedesca nel suo complesso, dazi più elevati negli USA e un no deal per la Brexit insieme colpiranno anche il sentiment delle imprese e il morale dei consumatori che potrebbero gettare l’economia in un circolo vizioso, dicono gli economisti.
Ma meno crescita significa anche meno entrate fiscali che limitano la capacità del governo di mettere insieme un enorme pacchetto di stimoli fiscali che potrebbe far uscire l’economia da una spirale al ribasso. Un ciclo vizioso insomma a cui il ministro Scholz sta attualmente lavorando per porre fine.
L’idea è contenuta in un progetto di legge che mira a sostenere le aziende che investono in ricerca e sviluppo con 5 miliardi di euro in incentivi fiscali per quattro anni, come hanno riferito fonti vicine al governo a Reuters.  Il piano sarà finanziato attraverso l’eccedenza di bilancio prevista, restringendo la platea per eventuali misure aggiuntive.

giovedì 28 febbraio 2019

Monete collaterali, i vantaggi sono indiscutibili. Ma i nostri dirigenti lo sapranno?

Fonte: Il Fatto Quotidiano Economia & Lobby | 28 Febbraio 2019 

Mi ero impegnato a stendere un post di chiarimento circa ciò che penso delle monete collaterali. Ma il primo passo deve essere quello di chiarire alcune caratteristiche dei vari tipi di monete che possono avere corso (anche se di diversa portata) nella vita economica, aziendale e individuale.
Intanto esistono monete d’uso corrente (euro, dollaro, sterlina, yen, ecc.) e monete d’investimento (sterlina-oro, marenghi-oro, ecc.). Queste ultime non riguardano, ovviamente, la mia discussione tecnica, invito subito a non confondere le monete speculative (ad esempio i Bitcoin) con le monete collaterali. Le monete di uso corrente si dividono in quattro grandi famiglie:

Cominciamo col dire che se si arriva a parlare di moneta collaterale (o parallela), la causa è profonda, chiarissima: il sistema monetario corrente, evidentemente, non arriva a dare completa soddisfazione alle esigenze commerciali, innanzitutto, e finanziarie subito dopo. Non c’è bisogno di essere dei Bagnai o degli Stiglitz, basta dire le cose come stanno. Il sistema euro non è affatto un sistema fondato su una moneta comune in vigore in tanti Stati molto diversi fra di loro, è molto più semplicemente un sistema di cambi fissi, tecnicamente forzoso, innaturale, applicato a tanti Stati le cui leggi interne sono del tutto indipendenti e diverse fra di loro.
Sono assolutamente pro-euro. Se da un lato è una camicia di forza, dall’altro a noi italiani ha dato numerosi vantaggi. Ma soprattutto contribuisce a tenere insieme questa Ue, pur se così riottosa e difettosa, conferendo doti di forza che i singoli componenti non avrebbero sul piano internazionale.
Conviene subito dire che, proprio per la forzosità del sistema euro, in tutta Europa c’è da anni un fiorire di monete collaterali impressionante. La sensazione è che sempre in Ue si possano contare forse più di un centinaio di iniziative operanti. L’economia è come un motore che abbisogna di un carburante e questo carburante si chiama liquidità. Che, come tutti i carburanti, ha un suo proprio costo. Di questa inevitabile “condizione” di costo deve ovviamente tenere conto ogni imprenditore: la liquidità ha sempre un suo costo, al pari di qualsivoglia materia prima. Ma che cosa succede se nel sistema di costo basato sull’euro introducessimo una quota parte di liquidità basata su una moneta collaterale?

In via normale (e per comodità pensando a uno sviluppo progressivo delle lavorazioni, quindi dei costi finanziari) e servendosi della sola moneta a debito (euro), nel tempo contrassegnato dal segmento A-3, al momento della commessa pronta per la fatturazione, il costo finanziario viene rilevato dall’altezza del segmento C-3. Questo costo è oltretutto condizionato dall’andamento del costo del denaro che nell’Ue viene stabilito dalla Bce (Banca centrale europea).
Ma immaginiamo ora di introdurre una variazione. Il nostro imprenditore, al tempo 1, introduce una fase della lavorazione finanziata con una moneta collaterale. Supponiamo che la fase duri un tempo 1-2 e al termine supponiamo che debba riprendere la lavorazione finanziandola ancora con l’euro. Il suo costo finanziario riprenderà a crescere secondo il segmento B’-C’, ma quale sarà il risultato per le casse della sua società? Sarà che il costo finanziario verrà a ridursi rispetto alla marcia a tutto euro, e si concreterà in un costo C’-3 inferiore al costo canonico C-3: si evidenzia così un vantaggio competitivo per la sua azienda.
Ma l’effetto benefico non si arresterebbe a questo risultato, che già di per sé sarebbe benedetto. Pensiamo, ad esempio, al minor ricorso al finanziamento da parte della sua banca (il che lo rende più forte nelle trattative). Pensiamo al minor ricorso del Paese al prelievo di euro presso la Bce. Pensiamo alla maggior facilità con cui il Paese potrebbe reperire euro per pagare quella montagna di interessi alla Bce che rischia di ucciderci.
Qualcuno potrebbe pensare che questa operazione sarebbe fraudolenta nei confronti della Bce e del sistema euro. Niente di più falso. Esiste una sola condizione che il nostro Stato deve rispettare, ed è quella che riguarda il fatto per cui è impegnato a non stampare moneta diversa rispetto all’euro (del quale è autorizzato a stampare le monete metalliche che, ovviamente, non risolvono problemi se non nel mercato del consumo individuale).
Al di fuori dello Stato qualsiasi altro ente, pubblico o privato, può stampare moneta collaterale che, ricordiamo, è gratuita (moneta positiva). Poi c’è la possibilità di stampare e diffondere “moneta di piccolo taglio” destinata al mondo del consumo: l’esperienza degli assegnini dei primi anni 70 è là a testimoniarne i benefici. Ma siete sicuri che i nostri dirigenti passati e presenti tutto questo lo conoscano bene?
Economia & Lobby | 28 Febbraio 2019

mercoledì 27 febbraio 2019

Spesa pubblica e deficit in crescita: a chi fa paura?

Fonte: W.S.I. 27 Febbraio 2019, di Daniele Chicca

Nel 2018 il debito federale Usa ha raggiunto i tremila trecento quaranta miliardi di dollari. Ben 4.130 miliardi di dollari sono stati spesi in programmi di Difesa, sanità, Social Security, pagamenti degli interessi e spese pubbliche varie. Gli Stati Uniti hanno un deficit di 790 miliardi di dollari al momento e rischiano di trovarsi impelagati in una crisi del debito.
Se le cose restano così tra 30 anni il deficit toccherà i 6.150 miliardi di dollari e il debito pubblico federale i 99.300 miliardi di dollari. Nel 2031 sarà pari al 100% del Pil e nel 2048 il 152%. Ogni americano ha un debito di 46 mila dollari. Una persona nata oggi avrà un debito di 120 mila quando compirà 30 anni.
Lo segnala l’Hoover Institution, un think tank americano vicino al Partito Repubblicano. Fondato nel 1919 da Herbert Hoover, l’illustre istituto specializzato in economia è a favore di una riduzione del deficit, ma senza alzare le tasse. Ecco come il think tank situato all’università Stanford propone di fare. La proposta vale anche per altri paesi come l’Italia.
Più deficit, più interessi e salari più bassiLa cosa più importante da sapere è che se il governo prende più soldi in prestito, per le aziende diventerà più caro espandere le attività e investire in ricerca, sviluppo e personale. I salari sono destinati a scendere rispetto all’inflazione.
Ci sono poi rischi in caso di terremoti, disastri naturali o guerre: un paese indebitato rende più difficile ottenere finanziamenti utili in caso di emergenze. I piani di intervento potrebbero risultare compromessi.
Ovviamente, anche la spesa per interessi tendono a salire in uno scenario di deficit in crescita. Un incremento dell’1% dei tassi di interesse a lungo termine implica spese per interessi del 50% maggiori.
Il problema è che le politiche per risolvere la questione e ridurre il deficit sono impopolari. Un’alternativa all’innalzamento delle tasse per ridurre i deficit, non è quella di aumentare le entrate bensì di ridurre le uscite. Se si abbattono le spese del governo dove si può.
La crescita economica può fare tanto per contribuire ad alleviare questi timori. Nel grafico si vede qual è la differenza di impatto sul debito tra un PIL Usa in aumento dell’1,9% oppure del +3%.

martedì 26 febbraio 2019

L’euro ha 20 anni: Italia ha perso 4.300 miliardi, tedeschi e olandesi vincitori

Fonte: W.S.I. 26 Febbraio 2019, di Mariangela Tessa

L’euro ha portato enormi benefici alla Germania e ai Paesi Bassi, mentre per gli altri paesi membri ha rappresentato un serio freno alla crescita economica e alla ricchezza della popolazione.
È quanto emerge da uno studio condotto dal Center for European Politics, firmato da Alessandro Gasparotti e Matthias Kullas, che fa il punto dei primi vent’anni trascorsi dal lancio della moneta unica.
La ricerca, che tratta esclusivamente dell’impatto puramente economico dell’euro, mostra come i Paesi membri che hanno promosso in questi anni l’ortodossia di bilancio, e hanno criticato il salvataggio dei Paesi più indebitati, siano stati i maggiori beneficiari della valuta unica. Il CEP è dichiaratamente euroscettico e all’economista Michele Boldrin non va giù che venga spacciato come uno ‘studio’ attendibile (vedi tweet più sotto).
Nell’esamina si cita il caso della Germania: grazie all’euro dal 1999 al 2017 Berlino ha guadagnato complessivamente 1.900 miliardi di euro in termini di ricchezza, detto in altri termini 23mila per ogni cittadino. Bene anche i Paesi Bassi, che hanno visto la prosperità del loro popolo aumentare di 346 miliardi di euro, pari circa a 21mila euro per ogni cittadino residente.
Tutt’altra musica per gli italiani e i francesi, con i primi che hanno subito le maggiori perdite. Il saldo negativo è rispettivamente di 74.000 euro di 56.000 euro. In termini di ricchezza, l’Italia ha perso 4.300 miliardi di euro, mentre la Germania ha guadagnato 1.900 miliardi di euro.

lunedì 25 febbraio 2019

Surriscaldamento globale, il pianeta è a rischio. Sta per scoppiare una bomba climatica?

Fonte: Il Fatto Quotidiano Ambiente & Veleni | 25 Febbraio 2019 
C’è gente che è contentissima del fatto che i ghiacci artici stiano scomparendo: pensano che si potrà tirar fuori petrolio dal fondo del mare Artico, guadagnandoci sopra un bel po’ di soldi. La storia ricorda un po’ quella del tale che era contento che gli bruciava la casa perché così risparmiava con la bolletta del gas. Allo stesso modo, il petrolio che (forse) troveremo nel mare Artico ripagherebbe i danni del riscaldamento globale? Su questo punto, c’è un articolo che è uscito recentemente su Nature, dove gli autori trovano che i danni supererebbero di gran lunga i vantaggi, soprattutto come effetto del rilascio rapido e incontrollato di metano dai ghiacci, la cosiddetta “bomba degli idrati di metano”.
Questa “bomba climatica” è nota come uno dei molteplici “punti di non ritorno” dell’atmosfera terrestre che potrebbe cominciare a riscaldarsi per conto suo se – a furia di emettere gas serra – superiamo una certa temperatura. È per questo che si parla tanto dei famosi “due gradi in più” da non superare. In questo caso, il punto di non ritorno è correlato al metano intrappolato in composti chiamati “idrati” sui fondali oceanici e nelle regioni del Nord permanentemente ghiacciate.
Si sa che il metano è un gas-serra molto potente ma, finché se ne sta intrappolato dentro il ghiaccio, non fa danni. Ma se la Terra si scalda, il ghiaccio si fonde e rilascia il metano che contiene. Più metano va nell’atmosfera, più l’atmosfera si riscalda. E questo causa il rilascio di altro metano e alla fusione di altro ghiaccio e così via. Ed è davvero una bomba climatica che potrebbe fare enormi danni causando fino a 5-6 gradi di riscaldamento globale – o anche di più.
È possibile che succeda una cosa del genere? Si, perché sbalzi di temperatura rapidi si sono già verificati nella storia del nostro pianeta. Sappiamo che il clima terrestre è instabile e che, nell’ultimo milione di anni circa, la temperatura della Terra è andata fra ere glaciali e periodi interglaciali con sbalzi anche di 5-6 gradi. In un passato più lontano, le variazioni sono state anche più ampie: 50 milioni di anni fa, la Terra era probabilmente 12 gradi più calda di oggi. Perlomeno in certi casi, si ritiene che sia stata l’emissione di metano dagli idrati a causare il cambiamento.
Chiaramente, a quei tempi non c’erano esseri umani a emettere gas serra con i loro suv, ma prima di lanciarvi a gridare: “Ma allora l’uomo non c’entra!” pensateci un attimo. Queste oscillazioni dimostrano che il clima terrestre è fragile: basta una perturbazione anche piccola per causare grossi cambiamenti. Se poi la perturbazione è molto forte ed è causata dalla nostra inveterata abitudine di bruciare combustibili fossili, allora si che siamo a rischio. Vi ricordate del vecchio proverbio che sconsiglia di giocare col fuoco? Esattamente.
Questa faccenda è nota da un pezzo fra gli scienziati, ma ora si sta diffondendo con il pubblico negli Stati Uniti con delle conseguenze inaspettate. Una è la nascita di una setta di assatanati convinti che la specie umana si estinguerà a breve scadenza, forse già fra pochi anni. Li trovate sul Web se cercate cose come “Near Term Human Extinction” o “Nthe.” L’effetto pernicioso di questa idea è che se tanto dobbiamo morire tutti fra breve, che senso ha affannarsi a evitare il riscaldamento globale? Tanto vale continuare a guidare i suv, finché possiamo.
Questi qui fanno gli stessi danni di quelli che ancora non hanno capito che cosa rischiamo e che anche loro pensano che non c’è niente di cui preoccuparsi. Ma non è affatto detto che dobbiamo morire tutti a breve scadenza: su questo vi potete leggere un post recente di Peter Sinclair. In sostanza, i climatologi pensano che ci sia ancora tempo per fermarsi ben prima che la bomba degli idrati esploda. Speriamo che abbiano ragione, ma il rischio esiste. Quindi, abbiamo ottimi motivi per ridurre le emissioni più alla svelta possibile, non importa se c’è chi per una ragione o per un’altra ci dicono che non dobbiamo fare niente. Diamoci da fare per evitare il peggio.
Ambiente & Veleni | 25 Febbraio 2019

domenica 24 febbraio 2019

Istat, migliora soddisfazione (anche economica) italiani

Fonte: W.S.I. 22 Febbraio 2019, di Alberto Battaglia

Nel 2018 spread e incertezze sull’andamento dell’economia non hanno pesato sulla soddisfazione degli italiani che, al contrario, è aumentata rispetto all’anno precedente. Lo ha comunicato l’Istat, precisando che i soggetti con almeno 14 anni di età che hanno espresso una soddisfazione elevata per la propria vita sono passati dal 39,6% al 41,4%. Anche il giudizio strettamente legato alla situazione economica è migliorato, e in misura ancor superiore, con una quota di intervistati “soddisfatti” che ha raggiunto il 53%, contro il 50,5% del 2017. Inoltre, aumenta la quota di famiglie che giudicano la propria situazione economica stabile (dal 59,5% del 2017 al 62,5%) o migliorata (dal 7,4% all’8,1%).
Uno sguardo sulle serie storiche rivela che il 2018 è stato l’anno che ha visto il maggior grado di soddisfazione, secondo solo al 2011 (anno in cui è stata condotta la ricerca per la prima volta: i “soddisfatti”, allora, erano il 45,9%).
La soddisfazione degli italiani, però, varia sensibilmente da Nord a Sud: se nel Settentrione si dice soddisfatto della propria vita il 47% del campione, al Mezzogiorno il dato scende al 35,1%, mentre al Centro si sale al 39,2%.
Chi un lavoro ce l’ha, si dice molto o abbastanza soddisfatto della sua attività nel 76,7% dei casi, in linea con l’anno precedente, prosegue l’Istat, precisando che le donne esprimono maggiore soddisfazione degli uomini (77,6% contro 77,1%).
L’Italia si conferma un Paese nel quale si esprime soddisfazione per le proprie relazioni famigliari, con un grado di apprezzamento pari al 90,1%. Cresce anche la soddisfazione nelle reti amicali, passando dall’81,7 all’82,5%. Lo stato di salute, infine, soddisfa l’80,7% delle persone stabile a livelli elevati, così come la soddisfazione per il proprio tempo libero, al 66,2%.

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