giovedì 15 giugno 2017

Matteo Renzi e la nuova definizione di faccia di bronzo

di | 14 giugno 2017  Il Fatto Quotidiano

Ai tempi d’oro della “Prima Repubblica”, quando ancora tutti i politici dovevano parlare in pubblico nei comizi in piazza, tenendo un linguaggio rispettoso e, almeno apparentemente, sincero (non nei super-protetti studi televisivi dove ogni sorta di commedia è sempre ammessa ed applaudita da colleghi e pubblico scientemente selezionati per far accettare dalla platea di qua e di là dello schermo qualunque frottola purché raccontata con maestria) nessun venditore di fumo politico, ancorché bravo e suadente, si sarebbe arrischiato a presentarsi in pubblico dopo aver solennemente “bucato”, non una promessa qualunque, ma nientemeno che la parola d’onore che, in caso di sconfitta elettorale, egli stesso avrebbe fatto ammenda dei suoi errori ritirandosi a vita privata.
Ai giorni nostri invece qualunque atteggiamento, anche il più fantasioso, il più bizzarro, il meno onorevole, è consentito. Nella convinzione (per niente plausibile) che il popolo al di là dello schermo sia una vuota entità senza memoria e senza cervello, utile solo a tracciare una crocetta sulla scheda voto, voluttuosamente disegnata non solo sul piano grafico ma anche su quello istituzionale allo scopo unico e palese di fare il “pieno” elettorale senza nulla impegnare seriamente né di pubblico né di personale.
Il cittadino dunque, degradato a soggetto immateriale per mezzo di qualche panzana ben condita con adeguata retorica e astuzia, può essere attraversato impunemente con la stessa naturalezza dell’etereo fantasma mentre procede con noncuranza oltre un muro di consistente materia, diventando così bersaglio e oggetto dei più ingegnosi progetti di conquista per ogni livello di potere. Anche dei più eccelsi, come ci è data testimonianza dalle conquiste attuate nell’ultimo trentennio da una triade di improbabili o improvvisati statisti, diventati famosi a livello planetario oltre che per le loro similitudini culturali, anche grazie ai nomignoli coi quali i media di mezzo mondo li hanno battezzati: mi riferisco ovviamente agli oramai ben noti “Renzusconi Trumpusconi”.
Ben diverso approccio poteva ovviamente consentirsi qualunque politico che avesse deciso, nel secolo scorso, per dovere e convenienza professionale, di attraversare una piazza che immateriale non era. E se avesse fatto pubblicamente quella avventata promessa, senza sentirsi poi in serio dovere di mantenerla, sarebbe stato immancabilmente accolto da una pioggia di verdura variegata e di abbondanti quantità di uova scrupolosamente scelte tra quelle sicuramente marce.
Nel secolo scorso, per molto meno che una totale abiura fatta da un personaggio pubblico di altissimo livello, si diceva di chi teneva tale comportamento che aveva una “faccia di tolla”, probabilmente allo scopo di caratterizzare la scarsa affidabilità e consistenza del materiale usato per “metterci la faccia” di chi impegnava la propria credibilità senza curarsi del fatto che era invece già ben nota la sua completa inaffidabilità.
Generalmente tale appellativo era assegnato a fanciulli che bonariamente e furbescamente, speravano di conquistare credibilità a danno dei compagni di gioco. Mai si sarebbe pensato che lo stesso puerile atteggiamento potesse essere ripetuto a distanza di un secolo nientemeno che da qualcuno che fino a pochi mesi prima era assiso nella poltronissima di Palazzo Chigi.
Ecce homo, dicevano i latini.
Se questo è l’uomo dobbiamo però ricordarci di aggiungere nel vocabolario dei sinonimi, anche la nuova locuzione “faccia di Renzi”, vicino alle consimili “faccia di bronzo” e “faccia di tolla”, per indicare chi non si preoccupa minimamente di essere privo di ogni credibilità ogni volta che apre bocca, tanto più quando si mette su un piedistallo istituzionale promettendo a destra e manca riforme la cui affidabilità, personale e politica, è ridotta ormai allo stremo dello zero negativo.
di | 14 giugno 2017

Il Fatto Quotidiano

mercoledì 14 giugno 2017

Decreto vaccini: il corto circuito tra affari, una scienza usata male e una politica senza politica

di | 13 giugno 2017  Il Fatto Quotidiano

Sia chiaro io credo giusto riportare la copertura vaccinale nel nostro paese nei livelli di sicurezza convenzionale, ma dissento sull’imbroglio che il decreto rappresenta. L’imbroglio, vaccini a parte, sono i vaccinatori d’assalto. Per costoro i vaccini sono un treno che passa e che per tante e diverse ragioni di bottega conviene cogliere al volo perché un treno così perfetto non capita tanto di frequente.
Perché “imbroglioni”? Quando la scienza viene usata in modo scorretto per influenzare la politica e quando la politica è preoccupata di sopravvivere a se stessa, allora gli imbroglioni hanno un nome, si chiamano “tecnocrati”.
Si definisce tecnocrazia la tendenza ad affiancare il potere politico non per consigliarlo, secondo competenza, ma per soppiantarlo, assumendo in proprio la funzione decisionale. La razionalità della tecnocrazia che ha ispirato, controllato e validato il decreto è fondata su elementi meramente quantitativi, relegando nel mondo dell’irrazionale, quindi del deprecabile per definizione, tutto ciò che non è quantificabile, quindi tutto ciò che è sociale, culturale, personale.
E siccome la paura della gente, la sfiducia nella medicina e nei medici, il disagio non sono quantificabili, tutto ciò viene assunto dal tecnocrate d’assalto come inesistente, con la conseguenza di cancellare la società come problema. Alla fine l’errore politico e scientifico più grande di questo decreto ottuso è quello di proporci una medicina senza umanità e un vaccino come un dogma di cui non si può dubitare.
Per me (attenti a non equivocarmi) la salute della gente, per la sua estrema complessità, è sempre e soprattutto una questione politica che, ovviamente, nel decidere cosa fare deve tenere conto delle indicazioni della scienza. L’ultima parola, però, non spetta alla scienza, ma alla politica (la “scienza regia” di Platone), perché ciò che serve in certi casi non è il massimo grado di razionalità, ma il massimo grado di saggezza.
Non c’è dubbio che il decreto derivi da una certa razionalità ma non c’è dubbio che esso sia pressoché privo di saggezza. Coloro che l’hanno congegnato non sono gli scienziati che dicono di essere, ma degli impiegati della scienza con smisurati curricula personali che dimostrano non la genialità del loro pensiero scientifico, ma la loro grande capacità nel penetrare all’interno dei sistemi di potere della scienza, quindi la loro smisurata ambizione personale.
Dietro a questo decreto si intravede il medico intransigente che si rifà delle tante umiliazioni sofferte gonfiando il petto dello scienziato; il professore universitario convinto di accrescere il suo appeal soprattutto nei confronti dell’industria farmaceutica; il grande burocrate convinto in cuor suo di essere l’unico ad avere i titoli per fare il ministro della salute nel mondo.
Tutta questa roba è l’imbroglio tecnocratico.
Quando mi è capitato di vedere in tv da una parte, la ministra della Salute Beatrice Lorenzin parlare di evidenza scientifica, di società da rieducare alla scienza, e che quasi offesa, accusava di “demenza” coloro (cioè noi) che pur estimatori dei vaccini nutrivamo dubbi sul loro uso superficiale (La 7 “Faccia a faccia”15 maggio 2017); dall’altra i “funzionari della scienza” a supporto della stessa ministra nota per le sue gaffe e tanti dottorini infilati financo nei board scientifici delle aziende farmaceutiche che parlano di vaccini come se non avessero alcun conflitto di interesse. Si vedeva chiaramente il corto circuito tra affari, una scienza usata male e una politica senza politica. E’ da questo cortocircuito che nascono le coercizioni in luogo della persuasione, le multe in luogo degli incentivi, le aberrazioni anticostituzionali in luogo del rispetto dei diritti, ma soprattutto il disamore per la gente e l’uso dei medici e della medicina come se fossero i primi degli esattori e la seconda una clava.
In questo decreto la tecnocrazia è andata oltre i mezzi necessari all’azione sociale e si è appropriata degli scopi sociali, parlando di false emergenze, con false epidemie, per cui la decisione saggia che sarebbe convenuta a tutti noi non è stata presa, perché le convenienze personali dei vaccinatori di assalto, hanno semplicemente prevalso.
Ma la politica che si fa vicariare dalla tecnocrazia, non fa mai un buon affare.
Intanto etichettare tutti i critici del decreto come “no vax” è una prima stupidaggine che vi assicuro le persone anche del Pd, non hanno gradito. Poi pensare che i presunti “no vax” siano tutti fuori dal PD o tutti M5S è un’altra stupidaggine. Chi non vuole i 12 vaccini tutti obbligatori allo stesso modo e difende il valore della responsabilità genitoriale, è in tutti i luoghi di questa società. La questione è trasversale.
Chiudo invitando tutti a riflettere sull’esperienza diversa del Veneto (Quotidiano sanità 8 giugno 2017) che ha organizzato, innanzitutto, un’anagrafe vaccinale dai cui dati si dimostra che se si usa il cuore oltre che la testa, è possibile ottenere una buona copertura vaccinale, senza inutili costrizioni.
di | 13 giugno 2017

Il Fatto Quotidiano

martedì 13 giugno 2017

Elezioni amministrative 2017: chi perde, chi non vince, chi vince (Andrea Scanzi)

Riflessione su queste amministrative 2017, che hanno acceso gli animi come un doppio misto al torneo di Tegoleto tra Picierno e Sibilia versus Gasparri e la Fusani.
Chi perde
Il Movimento 5Stelle. Era ampiamente previsto, le Amministrative sono il loro tallone d’Achille. Stavolta però sono riusciti ad andare oltre ogni ragionevole speranza (degli avversari). Suicidio a Genova e Palermo, harakiri colpevolissimo a Parma (e Pizzarotti sogna la torcida). In passato, avevano spesso vinto in città stremate dalle disastrose giunte di centrosinistra e centrodestra: Parma, Livorno, Roma. Adesso no (Taranto). Sul piano nazionale è tutto un altro sport, ma i campanelli d’allarme ci sono. Pizzarotti ha ragione quando asserisce sadicamente che ormai il M5s è forza che mira più al nazionale che al locale (e ciò è in controtendenza con gli albori dei Meet up).
In più, alle Amministrative si votano le persone e non i simboli. E le persone candidate dai 5Stelle non le conosce quasi nessuno. È difficile dare la propria città in mano a uno sconosciuto, ancor più contro avversari molto più organizzati e radicati. Il teatrino sulla legge elettorale ha spostato pochissimo, gli affanni di Raggi e parzialmente Appendino, un po’ di più. L’aspetto dirimente resta però l’allergia dei 5Stelle alle amministrative: una Torino non fa primavera, mentre una Genova è per sempre.
Chi non vince
Il Partito democratico. Sta esultando perché i grillini hanno scontato la pena, ma in 13 casi si presenteranno al ballottaggio in ritardo rispetto al centrodestra: Asti, Como, Monza, Genova, Padova, Spezia, Piacenza, Rieti, Lecce, Taranto, Catanzaro, Oristano, Trapani. E, in nove di questi casi, la giunta uscente era di centrosinistra o di sinistra. Il Pd soffre (ovviamente), anche in realtà un tempo rossissime: se questa è una vittoria, Orfini è il nuovo leader dei Led Zeppelin. Ha ragione il Movimento democratico e progressista (Mdp), nel ricordare che, senza l’aiuto della “sinistra riformista” (e spesso pure “radicale”), il Pd non va da nessuna parte. Se non a un apericena con Verdini.
A Renzi è già tornata la voglia di andare al voto anticipato, stavolta a novembre, ma non si capisce quali meriti avrebbe avuto. In primo luogo, il Pd non ha vinto, ma casomai pareggiato: solo i ballottaggi diranno se sarà trionfo o gogna. In secondo luogo, le elezioni nazionali seguiranno tutt’altre logiche. C’è poi l’aspetto personale: Renzi, terrorizzato di perdere, per queste elezioni non si è mai fatto vedere (e anche per questo non sono andate malissimo). Non è che adesso può appropriarsi di una (non) vittoria. O meglio: non potrebbe, ma lo farà. Ah, dimenticavo: è riuscito a perdere anche nella sua Rignano. Idolo.
Chi vince
Più volte ho scritto – e detto – in questi mesi che, tra i due litiganti, il Berlusconi gode. Appunto: a livello comunale e regionale, il centrodestra signoreggia con antica sicumera baldanzosa. I motivi sono semplici. Uno: l’Italia è un paese di centrodestra. Due: il centrodestra è, da sempre, la forza che in nome del bene comune (cioè il loro) è in grado di ingoiare qualsiasi rospo. Mentre Pisapia litiga con Fratoianni che litiga con Bersani che litiga con Civati, e mentre i 5Stelle rileggono in chiave nu-metal i sacri testi dell’Asilo Mariuccia, il centrodestra in apparenza si scazza, ma poi si presenta unito come un sol uomo. Per questo vinceranno. O comunque saranno sempre decisivi per fare un governo nazionale. Agili.
Dal Fatto Quotidiano

lunedì 12 giugno 2017

Boom licenziamenti: Stato e imprese raggirati

12 giugno 2017, di Mariangela Tessa
WSI
Che nel 2016 ci sia stato un vero e proprio boom di licenziamenti per giusta causa lo dicono chiaramente le statistiche. Secondo la Cgia di Mestre, dietro a questo fenomeno potrebbe esserci un raggiro ai danni delle imprese e delle casse dell’Inps collegato alla volontà del lavoratore di ricorrere di ottenere vantaggi previsti dall’attuale normativa. Quest’ultima prevede una indennità speciale dell’azienda che può arrivare a sfiorare i 1.500 euro e un sostegno al reddito da parte dell’Inps fino a 2 anni.
Nel 2016, sempre secondo l‘Ufficio studi della Cgia, i licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo soggettivo nel settore privato hanno registrato una crescita del 26,5%, contro il +3,5% generale delle interruzioni di rapporti.
Stante la leggera ripresa economica e l’aumento dell’occupazione in atto, questo orientamento fatica a trovare una giustificazione legata alle normali dinamiche esistenti tra i datori di lavoro e le proprie maestranze”, si sostiene.  “Non sono pochi coloro che negli ultimi tempi hanno deciso di non recarsi più al lavoro senza dare alcuna comunicazione al proprio titolare”.
Questo per far sì che sia il datore di lavoro, dice la Cgia, a muovere il primo passo e iniziare la procedura di interruzione del rapporto.
Per il segretario della Cgia, Renato Mason, è un “astuto espediente” avrebbe “assunto i contorni di un raggiro a carico di moltissime aziende e anche dello Stato, perché un numero sempre crescente di dipendenti non rispetta la norma e costringe gli imprenditori al licenziamento e, di conseguenza, fa scattare la Nuova ASpI (NASpI, in vigore dal maggio 2015) in maniera impropria”.
 

domenica 11 giugno 2017

Jeremy Corbyn, la sua rimonta è la prova che la nostra idea di carisma è sbagliata


Può un anziano dirigente laburista britannico dalle idee radicali e i toni compassati guidare il suo partito a una rimonta nel periodo di massima egemonia dei conservatori? Secondo molti, era solo fantascienza. Corbyn era “troppo scollato dal mondo reale”, “troppo socialista”, “troppo novecentesco”, “troppo poco mediatico”, dando per scontato che il suo partito sarebbe stato relegato a un ruolo di pura comparsa alle elezioni. Questa prognosi infondata ha costretto in molti a mangiarsi il cappello tra giovedì sera e venerdì mattina, quando il Labour Party ha dimostrato di essere ancora vivo e vegeto, ottenendo molti più seggi di quanti ne avesse ottenuti nel 2015 il più moderato Ed Miliband, e prendendo molti più voti di quanti ne avesse presi nel 2005 l’ex primo ministro Tony Blair, oratore dall’eloquio coinvolgente.
L’impresa ha il sapore dello straordinario soprattutto perché mette un argine alla destra in un periodo in cui la sua ideologia sembrava dilagante, e solo poche settimane dopo che i sondaggi avevano previsto per Corbyn una Caporetto definitiva. Non è una vittoria, ma la rimonta c’è stata e l’attuale debolezza di Theresa May potrebbe di qui a poco aprire lo scenario di nuove elezioni, a cui i Labour si presenterebbero da una posizione di maggior forza. Il risultato ha lasciato molti commentatori basiti. Non solo Corbyn incarna un orientamento politico dato per sconfitto, ma è altrettanto vero che il candidato laburista non sia esattamente un appassionato agitatore di folle. Il suo aspetto da vecchio professore di geografia e i suoi pacati sermoni fanno di lui un leader anomalo e riluttante – aspetto, quest’ultimo, confermato anche da chi lo conosce bene. Nel senso classico del termine, Corbyn non è esattamente una figura carismatica: le sue battute non sono prorompenti, i suoi giri di parole sono semplici, la voce non ha mai acuti e non sciorina metafore graffianti.
Questa, tuttavia, è l’analisi superficiale di chi si limita a prendere in considerazione le caratteristiche esteriori della politica. Il politologo americano James Scott offre una definizione di carisma molto più convincente. Il carisma non risiederebbe tanto in qualità personali – ossia nel magnetismo di un determinato candidato –, quanto nella reciprocità che si viene a stabilire tra quest’ultimo e un particolare pubblico....

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