giovedì 25 maggio 2017

La gara della modernità


«Qualsiasi pensiero "responsabile", "moderno" e "realista",
ovvero conforme a tale razionalità, è caratterizzato
dall'accettazione preventiva dell'economia di mercato,
delle virtù della concorrenza, dei vantaggi della globalizzazione
dei mercati, dei vincoli ineludibili introdotti
dalla "modernizzazione" finanziaria e tecnologica.»
Pierre Dardot e Christian Lavalle, La nuova ragione del mondo.

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Senza la complicità della sinistra, e non solo quella socialdemocratica, il neoliberismo non avrebbe raggiunto un tale grado di penetrazione, di pervasione, di perversione. Le politiche, ad esso ispirate, della Thatcher e di Reagan dei primi anni '80 si sono perfezionate - si potrebbe dire compiute - con la third way di Blair, che ha cantato le lodi del mercatismo fino a farne il principio ispiratore di un'intera stagione di contro-riforme che ha smantellato una parte consistente della cultura del welfare, dei diritti del lavoro, della solidarietà sociale.
Ma andiamo con ordine.
Il motivo ricorrente, per molti versi fondativo, di una sinistra convertita alle ragioni del management esistenziale, più ancora che aziendale, è la patetica solfa della centralità dello stato e della sua mission, di contro alle presunte tesi neoliberiste del laissez faire. L'arrogante bugia è stata, in altre parole, quella di raccontarsi come portatrice di un valore - l'organizzazione della società da parte dello stato - in netto contrasto con la strategia della spoliazione statale attribuita alla destra.
Una maledetta balla!
Già da tempo, e completamente dentro al suo dibattito interno, il neoliberismo aveva precisato la funzione fondamentale dello stato nella cornice teorica e politica che assegnava ai mercati - al loro giudizio finale - una sorta di priorità metodologica nella definizione dei programmi economici e sociali. Il cosiddetto laissez faire era ed è rimasta solo una delle posizioni che compongono la galassia neo-liberale. Lo stato deve costruire, mantenere, sorvegliare, una complessa struttura istituzionale che garantisca la realizzazione dei princìpi fondamentali della governamentalità neoliberista: la concorrenza sempre e dovunque, la misura della valorizzazione economica applicata alle materie più refrattarie, il dispiegamento pieno e privo di intralci della cultura del "capitale umano".
La distinzione è dunque fasulla, come una moneta fra i denti che segnala la sua natura fraudolenta. Una sinistra che consegna l'anima e il corpo a una "razionalità" irriducibile, moderna, autocentrata, senza deroghe, fatta di progressive mortificazioni del patrimonio keynesiano di una politica economica e di una economia politica nel segno del compromesso sociale. Una sinistra il cui sogno - da realizzare mediante la sostituzione della lotta per l'uguaglianza con la lotta alla povertà - è divenuto la scomparsa delle classi. E non nel senso vaticinato da Marx...
Insomma, un mondo totalmente riempito da piccoli medi e grossi capitalisti!

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Ma la responsabilità della sinistra, specie nell'imminenza del varo dell'euro e dell'Europa come fetazione di quel processo ambiguo che è la globalizzazione (altra infatuazione ingovernabile), non si esaurisce nel fatto di aver fornito alla destra finanziaria i suoi strumenti istituzionali. Il potere di penetrazione che la nuova ragione del mondo ha dispiegato nel passaggio al nuovo millennio proviene dalla sottile, pervicace, quotidiana costruzione di una soggettività perfettamente speculare alle necessità oggettive di cui lo stato si fa garante. La forgia di un soggetto costantemente richiamato al suo diritto/dovere di essere libero - concorrenzialmente libero - è stata portata avanti nelle officine di una sinistra che ha fatto valere il peso delle sue rinunce, della sua sconfitta, della sua colpa, quasi come un enorme motivo di vanto: una gara con la destra nella partita della modernità, una vigliacca dimostrazione di cambiamento epocale sulle spalle di un'intera umanità del lavoro, che ha visto stravolgere giorno dopo giorno il modo di intendere, di vivere, di sognare il rapporto con il proprio fare e con il proprio essere, entrambi risucchiati dentro la logica dell'auto-misurazione, dell'auto-premiazione, perfino dell'auto-esecrazione.
La solidarietà sociale è divenuta presto una sorta di materia purulenta che infetta la mente e l'anima dell'individuo, privandolo dell'energia che gli occorre per realizzare la piena forma del suo essere: un capitale da amministrare, nei rischi e nei successi, nella certezza che l'infelicità è riconducibile solo e soltanto a un errore di computo!


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Bun weekend

Manchester (Vauro

mercoledì 24 maggio 2017

Il paradosso di Matteo e il dominio degli asini selvatici

di | 23 maggio 2017  Il Fatto Quotidiano

di Enzo Marzo
“Un lungo governo degli asini temperato dalla corruzione”
Benedetto Croce
Non siamo appassionati del genere, ma dobbiamo riconoscere che il buon Stephen King non aveva torto quando raccolse una serie di racconti horror in un volume dal titolo A volte ritornano. L’esergo di Croce che abbiamo messo in apertura si riferiva ai governi fascisti e stabiliva una tipologia del potere: l’onagrocrazia, ovvero il dominio degli asini selvatici. Ci siamo scivolati dentro lentamente, ma inesorabilmente. Adesso, le nuove generazioni non sanno che una volta Berlusconi chiese di poter incontrare e parlare con papà Cervi, una figura mitica della Resistenza, purtroppo morto 28 anni prima. Oppure che Bertinotti sosteneva in tv che Berlusconi era un liberale, dimostrando di non sapere assolutamente nulla né di liberali né di liberalismo. Altro che congiuntivi a casaccio. Ma gli esempi sono milioni.
Come se ci fossimo svegliati da un lungo sonno, ora ci rendiamo conto che tutta l’Italia, le sue classi dirigenti in ogni campo sono precipitati in un abisso di ignoranza e d’incapacità senza fine. Per un attimo la fanfara della retorica soft di Monti accompagnò le scelte nelle migliori università dei suoi “tecnici” più preparati. Fu quella la cartina di tornasole che anche i famosi “professori” erano impreparati, pasticcioni, conniventi persino con la criminalità in doppiopetto. Una vera truffa. Nel frattempo, i banchieri, i manager, gli alti burocrati si impegnavano e continuano a perseguire la bancarotta del paese.

lunedì 22 maggio 2017

Va rispettata la legge, non i “valori” (Massimo Fini)

La sentenza della Cassazione che obbliga lo straniero che vive in Italia a conformarsi ai nostri valori (e implicitamente a quelli occidentali) è aberrante, inquietante, pericolosa. Lo straniero che vive in Italia ha il solo obbligo, come tutti, di rispettare le leggi dello Stato italiano. Punto. Il sikh che girava con un coltello kirpan, sacro nella sua cultura, doveva essere condannato perché in Italia è vietato andare in giro armati. Se si accettasse il principio enunciato dalla Cassazione un italiano che vive in un Paese islamico dovrebbe, in conformità alla cultura di quel Paese, farsi musulmano.
La sentenza della Cassazione è incostituzionale perché viola l’articolo 3 della nostra Carta: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. La questione non riguarda semplicemente le differenze religiose, punto su cui si sono soffermati quasi tutti, ma è molto più ampia: riguarda l’identità culturale, religiosa e non religiosa. La Cassazione afferma: “La società multietnica è una necessità, ma non può portare alla formazione di arcipelaghi culturali confliggenti a seconda delle etnie che la compongono”. Non so dove la Cassazione sia andata a scovare un principio di questo genere, inaudito nel senso letterale di mai udito fino a oggi. Lo straniero che vive in Italia non ha l’obbligo di conformarsi alle nostre tradizioni, ha il sacrosanto diritto di conservare le sue, sempre che, naturalmente, non siano in contrasto con le nostre leggi. Al limite lo straniero non ha nemmeno l’obbligo di imparare la nostra lingua, sarebbe più intelligente se lo facesse ma non ne è obbligato. La questione della sicurezza, importante ma che non ha nessuna rilevanza se lo straniero rispetta le leggi del nostro Stato (il burqa va vietato non perché è un simbolo religioso ma perché copre l’intero viso e le nostre leggi prevedono che si debba andare in giro a volto scoperto), sta facendo dell’“arcipelago culturale” occidentale un sistema totalitario che non tollera le diversità culturali sia all’esterno (vedi le aggressioni armate ad altri Paesi, dalla Serbia alla Libia) sia al proprio interno. Stiamo di fatto calpestando proprio quei valori, democrazia in testa, cui diciamo di appartenere e ai quali vorremmo costringere qualsiasi “altro da noi”. Alla povera gente che migra nel nostro Paese e negli altri Stati europei, a causa molto spesso delle nostre prevaricazioni economiche e armate che abbiamo fatto nei loro, vorremmo togliere, alla fine, anche l’anima. Spostando il discorso mi piacerebbe sapere quali sono i nostri valori. A parte quello di una democrazia che in realtà non è tale, perché non appartiene ai cittadini ma è nel pieno possesso di oligarchie, nazionali e internazionali, non vedo in Occidente un altro valore che non sia l’adorazione del Dio Quattrino e la supina subordinazione alle leggi del mercato. Siamo molto gelosi della nostra identità, più che altro a parole perché un’identità non l’abbiamo più, ma non tolleriamo quella altrui.
Io sono libero di essere sikh, sono libero di essere indù, sono libero di essere musulmano, sono libero, se abito in un Paese di cultura diversa, di essere laico. Dell’Illuminismo abbiamo conservato e sviluppato il peggio, ma abbiamo dimenticato il meglio che sta nella famosa frase di Voltaire: non sono d’accordo con le tue idee ma difenderò il tuo diritto a esprimerle fino alla morte.
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 18/05/2017.
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