Fonte: Il Fatto Quotidiano Politica | 7 Giugno 2019
Pierfranco Pellizzetti
Sassari 25 maggio 1922,
Padova 11 giugno 1984: l’arco temporale in cui si è svolta la parabola terrena di
Enrico Berlinguer, grande capo dell’
Eurocomunismo
e icona di una politica a sinistra che ancora non aveva smarrito il
proprio alto senso civile. La biografia di un predestinato, come
ricordava l’abituale sarcasmo di
Giancarlo Pajetta: “giovanissimo si iscrisse al Comitato Centrale del
Partito Comunista Italiano”.
Nel 1972 viene eletto leader nazionale di un partito che, tra i due “pezzi da novanta” di
destra e
sinistra interne (il liberal-stalinista
Giorgio Amendola e il
Pietro Ingrao
attratto dal movimentismo), opta per una scelta “centrista”; incarnata
al meglio da questo 50enne cultore degli aspetti più rassicuranti dell’
ortodossia e dal profilo un po’ grigio del perfetto funzionario gradito alle masse dei militanti.
Eppure il prudente neo-segretario imprimerà un’accelerazione alla linea politica del
Pci già l’anno seguente la sua nomina, varando la strategia detta del
“Compromesso storico”: una grande alleanza tra le masse popolari
cattoliche e
comuniste per lottare contro i rischi di involuzioni
autoritarie e superare la
conventio che
dal 1948 escludeva il suo partito dalle possibili alleanze di governo
(anche se nelle regioni centrali italiane i comunisti erano stabilmente
alla guida delle istituzioni, mentre pratiche consociative vigevano
nelle commissioni parlamentari già dagli anni 50). Lanciata con una
serie di articoli su
Rinascita, la nuova linea affermava
esplicitamente di rispondere alle evoluzioni del quadro internazionale;
dove faceva da battistrada di quello che sarebbe stato l’ordine
reazionario in arrivo, incarnato dal duo
Ronald Reagan-Margaret Thatcher, il colpo di stato in
Cile, avvenuto l’11 settembre 1973: l’assassinio del presidente legittimo
Salvator Allende e l’instaurazione della dittatura del generale fellone
Augusto Pinochet.
Eppure, anche nel nuovo scenario era possibile individuare il persistente filo di continuità con la tradizione
togliattiana,
egemone nella cultura comunista italiana: si governa solo in
condominio con i cattolici, garanti degli equilibri sanciti nella
spartizione delle sfere di influenza mondiali a
Jalta; va respinta ogni velleità radicaloide di perseguire alternative democratiche alla
Dc. Scelta indubbiamente coerente con narrazioni e lasciti culturali vigenti in
via delle Botteghe Oscure
e dintorni. Ma priva di quel respiro necessario per un effettivo
rinnovamento della politica nazionale, che iniziava a mostrare forme di
incanaglimento in un quadro bloccato: quanto veniva descritto da
politologi anticonformisti come
“bipartitismo imperfetto”. Che l’onesto ma scolastico Berlinguer stentava a scorgere, anche perché influenzato da un
entourage in cui prevalevano i cattocomunisti di
Franco Rodano e il loro ecumenismo estraneo a un’idea di
democrazia come regolazione competitiva della lotta politica; a partire dal suo segretario personale
Antonio Tatò.
Resta il fatto – sconfortante per la sinistra laica-azionista – di una strategia difensiva quando il fronte
progressista conosceva la propria massima avanzata elettorale. Difatti i marpioni
democristiani incassano i dividendi di questa apertura al buio per uscire dall’
impasse e poi liquidano lo scomodo partner varando il
Caf, acronimo dell’alleanza tra i campioni del cinismo furbesco –
Bettino Craxi,
Giulio Andreotti e
Arnaldo Forlani – nell’ultima stagione spartitoria di
Prima Repubblica; il saccheggio del pubblico denaro all’origine di quanto diventerà il deficit strutturale dei conti pubblici.
Messo in un angolo da tali volponi, Berlinguer reagirà lanciando la nuova parola d’ordine della
“Questione morale”, invisa a un personale politico in via di farsi
casta e ormai dedito spudoratamente al carrierismo. Compresi strati dello stesso Pci.
Il 28 aprile 1981, intervistato da
Eugenio Scalfari, denuncia “l’occupazione dello Stato da parte di ladri,
corrotti
e concussi”. Ma ormai è solo una voce testimoniale, uno sconfitto dalla
nuova politica rampante che seduce folle crescenti di accaparratori:
la futura
Italia berlusconiana. Battaglia solitaria che si conclude tragicamente il 7 giugno 1984: colpito da
ictus
durante un appassionato comizio elettorale a Padova, muore quattro
giorni dopo. Con lui si estingue la stirpe dei politici per bene, i
Sandro Pertini, gli
Alcide De Gasperi. Poco dopo arriverà
Tangentopoli con l’indagine di
Mani Pulite.