sabato 6 maggio 2017

Ballottaggi Francia, Macron vincerà ma c’è poco da festeggiare


Se Emmanuel Macron dovesse vincere al secondo turno, come i sondaggi continuano a ripeterci, dalla mattina seguente ricomincerebbe, in modo ovviamente amplificato rispetto alle ultime due settimane, la ricerca del Macron d’oltralpe. Chi è il Macron italiano? Qual è la figura che più gli si avvicina? Quale sarà l’eroe che ci salverà dal populismo? E immagino che discorsi identici siano già stati fatti, o verranno preso fatti, anche in altri Paesi. Macron sarà dipinto come l’archetipo del politico moderno, che si libera delle zavorre ideologiche della destra e della sinistra, propone un programma innovativo, diciamo anche “smart”, mette tutti d’accordo e così soffoca sul nascere le pulsioni radicali che in altri contesti nessuno è riuscito a tenere a bada.
E tutto ciò accadrà, in caso di vittoria, nonostante Macron sia un personaggio che arriva in ritardo di almeno dieci anni, con un programma economico respinto non soltanto dall’evidenza dalla storia recente ma anche dagli stessi elettori francesi, e che potrebbe diventare Presidente soltanto perché le persone che la pensano diversamente da lui su economia e lavoro sono irrimediabilmente divise su altri temi.
La ricetta di Macron consiste, in sostanza, nel connubio trito e ritrito di tagli considerevoli alla spesa pubblica e alleggerimento dei vincoli che ricadono sui datori di lavoro. Con meno regole, meno coinvolgimento dello Stato e un’apertura incondizionata al mercato globale, gli imprenditori saranno finalmente liberi di creare lavoro, si tornerà a crescere e saranno tutti più contenti. Tutto ciò è in continuità con la seconda versione, liberista, di Hollande. Un Presidente che è passato dalle roboanti dichiarazioni della campagna elettorale, e dal proclamato intento di ridare unità e serenità alla Francia, all’approvazione della sua ormai famosa legge sul lavoro (licenziamenti più facili e meno ricorsi) che è riuscita nello straordinario intento di unire nelle proteste e nelle manifestazioni studenti e lavoratori, come non avveniva più da tanto tempo. Per poi terminare il mandato con una popolarità così bassa da escludere perfino la sua partecipazione alle elezioni seguenti.
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giovedì 4 maggio 2017

“Vaccini, famiglie tenute all’oscuro del rischio”.


Nel 2013 l'onorevole dem Burtone chiese di istituire una "giornata in memoria delle vittime". La legge, mai discussa, è stata ritirata giusto ieri, in piena polemica anti-M5s. E c'è chi come il ministro Pinotti ha dichiarato, interrogata dai colleghi parlamentari che "non esiste allo stato, anche per i vaccini, la garanzia assoluta che siano innocui". Per non dire delle vaccinazioni obbligatorie nelle scuole, osteggiate trasversalmente tanto dal candidato alla segreteria Emiliano che da consiglieri regionali di FdI nel Lazio


“Ritirato il 3 maggio 2017”. Non è sopravvissuta alla necessità politica la proposta di legge dell’onorevole Giovanni Burtone. Burtone è un medico chirurgo, di professione medico legale. E’ anche deputato del Partito Democratico. Il 21 maggio 2013, a legislatura appena iniziata, deposita a sua firma un progetto di legge che prevede l’istituzione della “Giornata nazionale in ricordo delle vittime dei vaccini”. Non era facile ignorare la circostanza, visto che è una delle poche menzioni riportate perfino da Wikipedia sull’attività del parlamentare. Ma i vaccini non fanno male e neppure vittime, chi lo dice è uno spergiuro populista, è la linea del partito. Che soffre evidentemente di amnesie selettive: nella sua proposta Burtone parla di vittime “le cui famiglie sono state tenute all’oscuro del rischio reale in cui i loro cari sarebbero incorsi. Sono cittadini ai quali il diritto ad avere una vita normale è stato negato per tutelare il bene supremo della salute”. Per il deputato dem, la colpa “è da ricercare in chi ha compiuto una valutazione degli interessi collettivi al limite di quelle che sono state denominate le scelte tragiche del diritto”. Cosa è successo tra il 21 maggio 2013 e il 3 maggio 2017 per arrivare a ritirare il testo?
Scorre il sangue, politicamente parlando, sulla questione vaccini. Dopo Report, dopo l’attacco del New York Times sulle “epidemie colpa dei populisti come Grillo” in Italia si è scatenata la corsa ad appioppare il nomignolo di “partito anti-vaccini” ai Cinque Stelle, che non hanno mai fatto mistero dei loro dubbi in materia e hanno incaricato l’immunologo Guido Silvestri di chiarirgli le idee e scrivere per loro (senza compenso) un piano strategico per la prevenzione e il contrasto tramite terapia vaccinale che sarà presentato oggi. La polemica politica divampa. Renzi va all’attacco con post e tweet e ai suoi dice: “Ragazzi, dobbiamo inchiodare i grillini sui vaccini, deve essere la Banca Etruria”. Detto, fatto. Oggi tanti rilanciano e vanno a scandagliare i vecchi video di Grillo e le proposte di legge firmate dai Cinque Stelle che proverebbero definitivamente da che parte soffia il vento irrazionale di diffidenza verso la medicina. Tutto lecito. Salvo scoprire poi che il partito anti vaccini in Italia è molto trasversale e annovera, tra gli altri, anche esponenti e onorevoli dello stesso Pd che oggi vuol monetizzare (o dimenticare) il caso.
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mercoledì 3 maggio 2017

Alitalia, il conto è già raddoppiato: il prestito ponte è salito a 600 milioni di euro

Il premier Gentiloni ribadisce che la nazionalizzazione è esclusa, ma c’è già chi è pronto a scommettere che l’aiuto varato a favore della compagnia Alitalia sarà un boomerang per i contribuenti.Fino ad una manciata di ore fa per Alitalia si prospettava un prestito ponte da 300-400 milioni per “traghettare” la ex compagnia di bandiera verso i privati. E invece alla fine il governo ha raddoppiato la posta in gioco la posta in gioco appesantendo ulteriormente il fardello delle imprese attaccate alla macchina dell’ossigeno pubblico. Proprio mentre slittava la vendita dell’Ilva e il conto per la messa in sicurezza del Monte dei Paschi di Siena si appresta a salire, il consiglio dei ministri ha deciso di varare un prestito ponte da 600 milioni a favore di Alitalia.
Su proposta del premier Paolo Gentiloni e dei ministri Pier Carlo Padoan e Carlo Calenda, che, durante il referendum dei lavoratori, si erano espressi contro qualsiasi operazione di sostegno pubblico per l’ex compagnia di bandiera. “Per Alitalia siamo ad un nuovo inizio – dice Padoan, intervistato da Cnn International  – Abbiamo nominato tre commissari e garantito liquidità per altri sei mesi in cui i voli continueranno. Alitalia ha asset di valore in termini di capitale umano e rotte che possono rappresentare un nuovo inizio, possibilmente con altri partner”.
“Il finanziamento è concesso, nel rispetto della disciplina sugli aiuti di Stato per il salvataggio e la ristrutturazione di imprese non finanziarie in difficoltà (…) e dovrà essere restituito entro sei mesi dalla sua erogazione”, spiega una nota di Palazzo Chigi. Sempre che i neoincaricati commissari, Luigi Gubitosi, Enrico Laghi e Stefano Paleari, non abbiano bisogno “di qualche altro mese” come precisa il ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio. Per ora bisognerà accontentarsi perché “questo è il massimo che si possa fare ad oggi” spiega il ministro Calenda, che fino a lunedì sembrava intenzionato ad abbandonare Alitalia al suo destino.
Certo il premier Gentiloni ribadisce che la nazionalizzazione è esclusa come del resto fa Padoan (“Se c’è una soluzione è una soluzione di mercato. La nazionalizzazione l’abbiamo già rifiutata pubblicamente”), ma c’è già chi è pronto a scommettere che l’aiuto varato a favore di Alitalia sarà un boomerang per i contribuenti: “Un prestito che nessuno restituirà agli italiani. Gli unici che rimangono sempre a terra!” commenta il leader di Direzione Italia, Raffaele Fitto via Twitter. E mentre infervora la polemica politica sui nomi dei tre commissari, durante la trasmissione televisiva Di Martedì, l’ex premier Romano Prodi spiega che “se non c’è una strategia precisa e un’alleanza, l’Alitalia non si salva”.
Non ci vorrà molto a capire come andranno a finire le cose e quale sarà il conto per i contribuenti di una partita più politica che strategica. Finora del resto Alitalia è sempre stata un bacino elettorale importante per la politica romana e decisamente caro per i contribuenti. Secondo la ricostruzione dell’ufficio studi di Mediobanca, i diversi salvataggi dell’ex compagnia di bandiera sono costati 7,4 miliardi. Solo per tenere in piedi la compagnia pubblica sono stati necessari 2,9 miliardi per coprire le perdite ed evitare in più occasioni il dissesto. Non è andata meglio nell’era dell’Alitalia privatizzata. Con l’arrivo dei capitani coraggiosi, la musica non è cambiata e fra amministrazione straordinaria della bad company e nuove perdite il conto si è più che raddoppiato. L’operazione Ethiad avrebbe dovuto finalmente rompere con il passato. E, invece, dopo il no dei sindacati alla nuova ondata di tagli, il governo è tornato alla vecchia ricetta: amministrazione straordinaria e prestito ponte per un conto finale ancora da scrivere. E che potrebbe non escludere nuove misure a favore dell’ex compagnia di bandiera.
Dal Fatto Quotidiano

martedì 2 maggio 2017

Grecia, l’ultima frustata di Tsipras ai suoi poveri

di | 2 maggio 2017   Il Fatto Quotidiano


Tutti zitti, grosse novità dall’Egeo: Alexis Tsipras ottiene 7 miliardi dai creditori, ma ne deve restituire 7,4 tra un mese. Quindi taglia ancora le pensioni e aumenta le tasse. E la Troika? Ancora spaccata, con il Fmi che chiede la riduzione del debito ellenico come prerequisito per continuare a partecipare al tavolo dei creditori.
E’ lo spaccato delle ultime 48 ore in Grecia, dove non a caso il corteo dedicato al 1 maggio aveva concluso la propria giornata sotto l’hotel Hilton ad Atene, proprio dove i rappresentati del governo Syriza stavano immolando ancora una volta gli ultimi e chi proprio non può difendersi: pensionati e poveri. Solo lo scorso 25 gennaio il premier in udienza pubblica aveva promesso che non un altro euro sarebbe gravato sulle tasche del contribuente greco. Oggi ha fatto il contrario, perché dall’inizio della crisi siamo in presenza del quarto taglio alle pensioni. Non è questa una riforma, o una modernizzazione o il tentativo di abbattere il costo del lavoro per incentivare nuovi investimenti. No, questa si chiama macelleria sociale perché rientra in una serie di interventi che non toccano il grosso dell’evasione fiscale, né chi ha fatto fuggire i canadesi che cercavano l’oro in Calcidica, in un Paese dove chi sta privatizzando oggi trova un panorama assurdo, come l’impossibilità di pagare con bancomat un biglietto del treno o bigliettai che rubavano allegramente gli incassi, o professionisti che rilasciavano ricevute di un euro. Nessuno vedeva ieri e nessuno vede oggi.
C’è poco da festeggiare, anche se troppi si affannano a ragionare con il metro del male minore. Cosa avrebbe dovuto fare? Di fatto questo temporeggiare nelle trattative e la concessione della tredicesima lo scorso dicembre ai pensionati ha provocato un altro scossone nei conti disastrati: si chiamano clausole di salvaguardia e se fatte scattare potrebbero portare, udite udite, un altro aumento dell’Iva ed un altro taglio alle pensioni. Quelle basse, si intende, mentre il cumulo degli stipendi della casta è salvo, e una seria legge sui conflitti di interessi in Grecia è come la temperatura di Bolzano. Ma meglio non scriverlo, perché questo è il momento di celebrare accordi e risultati: le elezioni incombono in troppi Paesi e il 2017 è solo a metà della sua vita.
Intanto nel Paese un cronista che volesse consumare qualche paio di scarpe avrebbe molte cose, originali e diverse, da osservare e riportare. Lasciando poi al lettore la possibilità di farsi un’idea. Un chilo di mele a 2,5 euro in un mercato di una cittadina di provincia, l’hotspot delle Termopili con 500 siriani e iracheni dove con la macchina fotografica è meglio non avvicinarsi perché, mi dicono, le condizioni igienico-sanitarie sono pessime. E ancora, i furti negli appartamenti quadruplicati per via delle bande rom, gli incappucciati e i black bloc che una volta ogni tre giorni fanno guerriglia urbana per le strade ateniesi, a cui però la polizia non può replicare in maniera troppo veemente. Si tratta, infatti, degli stessi contestatori che nel 2012 occupavano piazza Syntagma sfoggiando le bandiere di Syriza. E che oggi si trovano ad aver votato un governo che li lascia con un pugno di mosche in una mano. Mentre nell’altra si moltiplicano le molotov.
Ma al Megaro Maximos, il palazzo del governo ellenico, non lo sanno: da due anni la circolazione è sbarrata da due mezzi blindati dalla polizia. Un isolamento materiale, e finanche uno scollamento ideale, da ciò che sta accadendo davvero in terra di Grecia.
twitter@FDepalo
di | 2 maggio 2017

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