Si alla fine l'hanno approvata, anche i 5 stelle (i quali hanno
dimostrato di essersi perfettamente integrati nel 'sistema'),
l'abolizione dei vitalizi... in realtà tutti sanno (proprio tutti) che
questa legge avrà vita breve e servirà solo a far dire a tutti: avete
visto? Noi l'abbiamo approvata ma i giudici la cancellano!!!
Infatti ritengo abbia ragione Francescomaria Tedesco sul Fatto Quotidiano online di oggi quando afferma: "qualora
un provvedimento giudiziario sia affetto da incompatibilità o gravi
contraddizioni tra dispositivo e motivazioni, allora si evince una volontà dei redattori di mandare quel provvedimento incontro a una fine certa.
Si tratta di una prassi che è stata persino oggetto di un tentativo di
regolamentazione, ovvero si è tentato di rendere questo atteggiamento
un ‘illecito disciplinare’ da sanzionare, posto che
l’unica sanzione a cui va incontro una sentenza suicida è quella
processuale stessa. Pare che questo escamotage abbia un’origine nobile:
durante il fascismo, le corti d’appello condannavano seguendo
desiderata politici, ma poi motivavano in modo da predisporre la
sentenza a una bocciatura da parte della Cassazione."
E
questa si chiama malafede. Milioni cittadini che sono appena sopra, al
limite e sotto il livello di povertà vengono per l'ennesima volta persi
in giro se non raggirati dal ceto politico.
si parla di progresso, di evoluzione, di civiltà ci ritroviamo invece in un nuovo medio evo dove conta chi si nasconde dietro il potere o vi si allea con esso.
venerdì 28 luglio 2017
giovedì 27 luglio 2017
una cosa da NON fare...
I redditi decrescono? Il FMI ha la, solita, ricetta già bell'è
pronta: annullare la contrattazione nazionale, che equipara per l'intero
stivale lo stpendio tabellare, a quella aziendale. Perchè non va bene?
Perchè rende ricattabili i lavoratori delle aziende più piccole e,
probabilmente, meno sindacalizzate e tutela, solo, quelle grandi e
meglio organizzate o che hanno maestranze particolarmente importanti in
settori strategici... quel che propone il FMI altro non è che una
riedizione delle disgraziatissime 'gabbie salariali' dei brutti tempi
che furono e che furono abolite solo dopo l'approvazione dello Statuto
dei lavoratori e delle lotte operaie! Eppure il suggerimento del FMI, ne
parla l'edizione online del Fatto Quotidiano,
è ben presentato: le politiche di austherity del governo; la scarsa
concorrenza; la mancanza di competitività; ecc. ecc. tutto vero, ma ...
c'è sempre un ma pechè è quel che non dice la vera ragione: se si
aboliscono i contratti nazionali una parte del paese sarà uguale alle
free tax zone del Messico e un altra sarà come alcune zone della
Germania: una manna per le imprese e un disastro per i lavoratori di
queste, per ora potenziali, zone che perderanno anche un minimo di
difesa contro lo strapotere aziendale....
Proposte alternative? Diverse e tutte valide. Una me ne viene in mente: eliminare alcune delle 97 leggi dello Stato che gravano sugli stipendi.. solo alcune e già il ptere d'acquisto aumenterebbe..
Proposte alternative? Diverse e tutte valide. Una me ne viene in mente: eliminare alcune delle 97 leggi dello Stato che gravano sugli stipendi.. solo alcune e già il ptere d'acquisto aumenterebbe..
mercoledì 26 luglio 2017
20/07/2017 di triskel182
Il caso.
Sono 373 mila gli italiani emigrati, per necessità o per pagare meno tasse L’Inps manda loro assegni molto più generosi dei contributi che hanno versato.
ROMA – I pensionati italiani all’estero? Sono
373 mila e incassano quasi un miliardo all’anno dall’Inps, sottraendo –
seppur legittimamente – imposte e consumi alla madrepatria. Per fare un
paragone, parliamo di una città grande quasi come Firenze. Sparsa per i
continenti, ma per metà in Europa. Dove gettonatissimo è ancora il
Portogallo, il paradiso fiscale delle pantere grigie: dieci anni a tasse
zero, in cambio della residenza non abituale. E dunque, a patto di
vivere almeno 183 giorni all’anno in loco, tra le meraviglie di Porto e
Lisbona e con un costo della vita assai abbordabile, i pensionati
italiani si ritrovano un assegno che lievita anche di un terzo.
Altrettanto ambite, sebbene fiscalmente meno generosi, Bulgaria,
Romania, le isole Canarie. E l’America Latina, con un rinnovato
interesse per il Costarica.
Non di soli scaltri nonnetti si tratta, però.
Lo zoccolo duro di chi risiede all’estero e lì percepisce la pensione è
fatto da emigranti che “totalizzano”, cioè sommano da un punto di vista
previdenziale, i periodi di lavoro in patria e fuori. Tutto fattibile,
secondo le regole e gli accordi bilaterali. Se non fosse – a detta del
presidente Inps Tito Boeri che ieri ha presentato una relazione in
Parlamento – per quello «iato», la differenza «tra entità e durata dei
contributi versati e possibilità di accedere alle prestazioni». Laddove
le seconde sono «molto al di là» dei primi. Nel mirino di Boeri
finiscono le prestazioni «assistenziali », che a differenza di quelle
previdenziali (la pensione calcolata in base agli anni di lavoro)
vengono erogate in presenza di contributi molto bassi o addirittura
inesistenti.
Così si scopre, grazie ai nuovi dati Inps, che
l’83% delle pensioni pagate all’estero corrisponde a una contribuzione
inferiore ai dieci anni, il 70% sotto i sei anni e più di un terzo meno
di tre. Assegni dunque estremamente bassi. Alcuni davvero micro, dieci o
venti euro al mese, incassati una volta l’anno in gennaio (per questo
il dato Inps dello scorso giugno rileva quasi 356 mila pensioni estere,
mentre quello complessivo 2016 è pari a 373 mila). Ma il punto dolente,
secondo Boeri, sta altrove. Ovvero nelle erogazioni “non contributive”.
Come integrazioni al minimo, maggiorazioni sociali e quattordicesime.
Le prime due – che scattano per rimpolpare
assegni risicati, 80 milioni di euro spesi nel 2016 per quasi 38 mila
pensionati “esteri” – non solo non sono coperte dai contributi versati,
ma rappresentano «un’uscita per lo Stato che non rientra nel circuito
economico del Paese sotto forma di consumi». O di tasse. Altro discorso
per la quattordicesima mensilità che spetta a tutti gli over 64 con un
reddito fino a 13 mila euro, alzato dal governo Renzi. In questo caso,
anche per via delle nuove norme, la spesa estera è più che raddoppiata:
da 15,4 milioni a 35,6 milioni di euro (+131%). E così i beneficiari: da
46 mila a quasi 89 mila (+93%). Il 40% dei percettori risiede in
Europa, quasi il 50% nel continente americano. Posti, secondo Boeri, «in
cui esistono già redditi minimi garantiti». Questo significa «che il
nostro Paese sta riducendo gli oneri per spesa assistenziale di altri
Paesi».
Articolo intero su La Repubblica del 20/07/2017.
martedì 25 luglio 2017
Il grande bluff chiamato Pisapia
di Andrea Scanzi | 23 luglio 2017 Il Fatto Quotidiano
Al tempo del fascismo quelli come Pisapia si chiamavano fiancheggiatori, al tempo del renzismo è probabilmente sufficiente chiamarli paraculi. La storia della “sinistra” è piena di bluff, e tra questi Renzi è in assoluto quello più grande, goffo, incapace e caricaturale. Credere pure al bluff di Pisapia mi parrebbe un po’ troppo. Sveglia, bersaniani e compagnia cantante: c’è un limite anche al ridicolo.
P.S.: Quando parlo di “Pisapia e derivati”, penso a quelli che al tempo di Bossi e Berlusconi giocavano in tivù ai Che Guevara, e ora che hanno Berlusconi come leader giocano ai Ghedini in cachemire. Gad Lerner, per dirne uno.
di Andrea Scanzi | 23 luglio 2017
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lunedì 24 luglio 2017
Brexit: ecco quanto costerà all’Italia
21 luglio 2017, di Alessandra Caparello
Quanto costerà all’Italia il divorzio della Gran Bretagna dall’Unione europea? A fare i conti è Federico Fubini dalle pagine de Il Corriere della Sera.
Mentre il governo di Londra è intento a trattare con Bruxells per l’uscita votata a maggioranza ormai più di un anno fa dagli inglesi, che si sono dichiarati favorevoli alla Brexit, gli altri paesi del Vecchio Continente devono considerare quanto perderanno con l’uscita di Londra. In primo luogo – scrive Fubini – c’è un costo politico da non sottovalutare.
Fonte: Wall Street Italia
Quanto costerà all’Italia il divorzio della Gran Bretagna dall’Unione europea? A fare i conti è Federico Fubini dalle pagine de Il Corriere della Sera.
Mentre il governo di Londra è intento a trattare con Bruxells per l’uscita votata a maggioranza ormai più di un anno fa dagli inglesi, che si sono dichiarati favorevoli alla Brexit, gli altri paesi del Vecchio Continente devono considerare quanto perderanno con l’uscita di Londra. In primo luogo – scrive Fubini – c’è un costo politico da non sottovalutare.
La perdita di un Paese di tanto potere e prestigio.Al costo politico si aggiunge quello finanziario, ossia circa 12 miliardi di euro che verrebbero meno con il divorzio di Londra dall’Unione europea.
Il bilancio della Ue vale circa 150 miliardi di euro l’anno e il governo di Londra è un contributore netto (versa più di quanto riceve) per importi fra dieci e dodici miliardi di euro. Questa somma sparirà.Chi dovrà colmare il vuoto lasciato dalla Gran Bretagna? Sicuramente gli altri paesi europei tra cui ovviamente l’Italia la cui cifra da sborsare si aggira su 1 miliardo di euro all’anno per i prossimi sette anni.
“Con il prossimo pacchetto finanziario fra il 2020 e il 2026 — lo si inizia a negoziare adesso — gli altri contributori netti dovranno colmare l’ammanco. Vanno finanziati i fondi regionali, l’agricoltura, la ricerca e politiche nuove come il controllo delle frontiere, l’aiuto allo sviluppo, la lotta al terrorismo o la difesa. Per l’Italia l’assenza di Londra aumenta i versamenti alla Ue di un miliardo all’anno per i prossimi sette anni (dunque a termine un debito più alto di quasi 0,5% di reddito nazionale, a parità di condizioni). Francia e Germania vedranno aumentare i propri contributi anche di più. Meglio dunque non chiedersi per chi suona la campana della Brexit: essa non suona solo per Londra”.
Fonte: Wall Street Italia
domenica 23 luglio 2017
Clima, poco tempo per evitare la catastrofe. E i governi scaricano i costi sulle spalle dei giovani
20/07/2017 di triskel182
Se non si riducono subito i gas serra, ci vorranno 500 trilioni di euro per catturare la CO2.
«La riduzione delle emissioni di gas serra non è sufficiente a limitare il riscaldamento globale a un livello che non metta a rischio il futuro dei giovani». E’ quanto emerge dal nuovo studio “Young people’s burden: requirement of negative CO2 emissions”, pubblicato su Earth System Dynamics , il giornale dell’European Geosciences Union (Egu), da un folto team internazionale di scienziati.Secondo i ricercatori, dobbiamo arrivare ad emissioni negative e «Misure come la riforestazione potrebbero compiere gran parte della necessaria rimozione di CO2 dall’atmosfera, ma le continue ed elevate emissioni di combustibili fossili richiederebbero costose soluzioni tecnologiche per estrarre CO2 e prevenire un riscaldamento pericoloso».
Il principale autore dello studio, James Hansen, dell’ Earth Institute della Columbia University, che in precedenza j ha lavorato al Nasa Goddard institute for space studies, spiega che «Continuando con le elevate emissioni di combustibili fossili lasceremo ai giovani una enorme e costoso problema di pulizia e accresceremo gli effetti deleteri del clima, il che dovrebbe essere di incentivo e obbligo per governi a modificare le politiche energetiche senza ulteriori ritardi».
Secondo lo studio, se continuano ad aumentare le emissioni di gas serra, i giovani di oggi potrebbero trovarsi a dover spendere fino a 5 trilioni di euro (500.000 miliardi) in tecnologie per estrare l’anidride carbonica dall’aria. Invece, se iniziasse rapidamente la fase di abbandono dell’utilizzo dei combustibili fossili, la CO2 potrebbe essere rimossa dall’atmosfera a costi relativamente bassi.
I ricercatori dicono che, se si interviene subito, non sarebbero necessarie le sperimentali e costose tecniche di Carbon capture and storage (Ccs) e che «Migliori pratiche agricole e forestali, tra cui la riforestazione e il miglioramento dei suoli, sarebbero in grado di ottenere la maggior parte dell’estrazione del CO2 necessaria per evitare le conseguenze più pericolose del riscaldamento globale».
Gli effetti del cambiamento climatico comprendono ondate di caldo più frequenti e forti, tempeste, inondazioni, siccità e l’aumento del livello del mare, che potrebbero interessare milioni di persone che vivono nelle zone costiere. Nello studio si legge che «Un aumento del livello del mare di mezzo metro a un metro entro questo secolo, che può essere inevitabile anche se le emissioni diminuiscono, avrebbe conseguenze terribili; eppure queste sarebbero niente rispetto alle catastrofi umanitarie ed economiche che accompagnerebbero l’aumento del livello del mare di diversi metri».
Hansen spiega ancora. «Dimostriamo che l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a non più di +2° C rispetto ai livelli preindustriali non è sufficiente, poiché a + 2° C sarebbe più caldo del periodo Eemiano, quando il livello del mare raggiungeva + 6 – 9 metri Rispetto a oggi». L’Eemiano finì circa 115.000 anni fa ed era un periodo caldo nella storia della Terra tra due ere glaciali.
Secondo lo studio, «Il pericolo è che una temperatura media globale a lungo termine di + 2 C – o addirittura di +1,5 ° C, l’altro limite della temperatura discusso nell’Accordo di Parigi del 2015 – potrebbe innescare un “lento” Feedback sul clima. In particolare, potrebbe portare alla fusione parziale delle calotte glaciali, il che comporterebbe un significativo aumento del livello del mare, come accaduto nell’Eemiano».
Il team di Hansen ha evidenziato che «La CO2 atmosferica dovrebbe essere ridotta a meno di 350 parti per milione (ppm) rispetto al suo attuale livello di circa 400 ppm. Nel 2016 la temperatura media globale ha raggiunto i + 1,3° C rispetto ai livelli preindustriali e aumenterà almeno di alcuni decimi di gradi in più nei prossimi decenni a causa della risposta ritardata ai passati aumenti di CO2 e di altri gas. La riduzione di CO 2 inferiore a 350 ppm porterà al picco delle temperature che più tardi diminuiranno lentamente a circa + 1° C entro questo secolo. Questo obiettivo richiede emissioni negative di CO2 , cioè l’estrazione di CO2 dall’aria, oltre ad una rapida riduzione delle emissioni da combustibili fossili».
Il team di scienziati stima che, se inizieremo a ridurre le emissioni di CO2 nel 2021 ad un tasso del 6% all’anno, entro il 2100 dovremmo estrarre circa 150 gigatonnellate di carbonio dall’atmosfera. La maggior parte di queste, circa 100 gigatonnellate, potrebbero provenire da migliori pratiche agricole e forestali. Queste misure possono essere relativamente poco costose e portano con sé ulteriori vantaggi, come il miglioramento della fertilità del suolo e i prodotti forestali.
Ma i ricercatori mettono in guardia sul rischio reale delle attuali politiche: «Tuttavia, se le emissioni di CO2 crescono ad un tasso del 2% all’anno (tra il 2000 e il 2015 sono aumentate in media del 2,6% all’anno), dovremmo estrarre ben oltre 1.000 gigatonnellate di carbonio dall’atmosfera entro il 2100. Solo con una soluzione tecnologica costosa, in grado di succhiare il carbonio dall’atmosfera».
Le tecnologie su cui si appunta il maggior interesse sono la bioenergia con la carbon capture and storage cattura e lo stoccaggio del carbonio. Gli scienziati spiegano ancora: «Le coltivazioni e le piante assorbono CO2 dall’aria mentre si sviluppano, quindi se vengono usate come combustibile e la CO2 viene catturato e stoccata in formazioni geologiche sotto roccia impermeabile, si verificano emissioni negative». Il team stima che il costo totale di questa tecnologia potrebbe arrivare fino a 500 trilioni di euro, e che «Le tecnologie di estrazione hanno grandi rischi e fattibilità incerta».
Hansen conclude: «E’ evidente che i governi stanno scaricando questo problema sulle spalle dei giovani. Questo non sarà facile o poco costoso».
Da .greenreport.it
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