mercoledì 15 gennaio 2020

Iran, come al solito il problema è il petrolio. E l’Italia in caso di guerra rischia grosso

Fonte: Il Fatto Quotidiano Ambiente & Veleni - 7 Gennaio 2020 Ugo Bardi
Come al solito, il problema è il petrolio. A prima vista non sembrerebbe che ci siano grossi rischi per l’Italia: non stiamo importando petrolio dall’Iran e, nonostante tutto il rumore degli ultimi giorni, il prezzo del petrolio rimane per ora entro limiti sopportabili, non oltre i 70 dollari al barile.
Però, ovviamente, non è solo questione dell’Iran. Nell’ipotesi peggiore, se scoppia una guerra in Medio Oriente entrano di mezzo alcuni dei principali fornitori di petrolio mondiali, incluso Iraq e Arabia Saudita. Se poi ci si ricorda che l’Iran è in grado di bloccare lo stretto di Hormuz al trasporto navale, allora è tutto il sistema che va in crisi: dallo stretto passa oltre il 20% di tutta la produzione mondiale di petrolio. Come minimo, ritorniamo sopra 100 dollari al barile, come era successo nel 2008. E questo fa enormi danni a un’economia che dipende dal petrolio, come quella italiana.
E qui siamo alla vecchia storia dei vasi di coccio e dei vasi di ferro. Comunque si voglia vedere l’azione di Donald Trump, lui sa di potersi permettere il rischio di una guerra. Negli ultimi 15 anni, gli Stati Uniti si sono ricostruiti una capacità produttiva petrolifera investendo enormi risorse nel “petrolio di scisto”, non tanto perché era conveniente dal punto di vista economico, ma con l’idea di usarlo come arma strategica. Come tale, sta funzionando benissimo. Non che gli Usa siano veramente indipendenti in termini energetici: tuttora importano più petrolio di quanto non ne esportino. Ma la differenza è piccola e, anche in caso di una crisi di fornitura petrolifera, la loro economia non rischia di andare a gambe all’aria.
Ma i vasi di coccio? Ovvero l’Italia e altri paesi europei? Certo, non è che l’Italia abbia ambizioni imperiali come gli Usa (ci aveva già provato Mussolini a ricostruire l’Impero Romano, ai suoi tempi, ma non era stata una buona idea). Si tratta però quantomeno di cercare di sopravvivere e, se si va a una guerra, le cose si mettono male per noi.
La nostra economia non potrebbe funzionare senza petrolio o con il petrolio a oltre 100 dollari al barile. La produzione italiana di petrolio non ci aiuta molto: ha raggiunto il suo picco negli anni ‘80 e da allora non è più aumentata. Oggi, produciamo meno di 100mila barili al giorno, ma ne consumiamo oltre un milione e quindi dipendiamo dalle importazioni. Per fortuna, anche i consumi sono in declino, qualcosa di buono è stato fatto in termini di energia rinnovabile e efficienza energetica, ma non abbastanza.
Ci sono amministrazioni in Italia che con grande fanfara hanno dichiarato la “emergenza climatica”. Bravi, ma se uno dichiara un’emergenza dovrebbe anche far qualcosa in proposito. E non solo non stanno facendo nulla per il clima, ma nemmeno per le altre emergenze che dobbiamo affrontare in questo pianeta sovrasfruttato, sovrappopolato e governato da pazzi furiosi. C’è un’emergenza energetica, un’emergenza di gestione rifiuti, un’emergenza del collasso delle infrastrutture, un’emergenza del degrado del territorio, un’emergenza di microplastiche, di microparticelle, di metalli pesanti e molto altro ancora.
Quella che ora ci potrebbe arrivare addosso pesantemente con la crisi in Iran è l’emergenza energetica, con il rischio di fare enormi danni all’economia italiana. Avremmo dovuto pensarci prima e costruirci una capacità di resistenza strategica. Ovviamente, qui in Italia non abbiamo scisti petroliferi come ci sono negli Usa, e anche se li avessimo sarebbero solo un cerotto temporaneo. Però abbiamo risorse energetiche in abbondanza in termini di energia solare, con l’aggiunta dell’energia geotermica, idroelettrica e eolica, per non parlare poi della possibilità di un efficientamento energetico generalizzato e dell’elettrificazione del trasporto su strada.
Se avessimo investito di più su queste risorse, potremmo gestirci meglio una nuova crisi petrolifera. Senza contare che questo investimento ci avrebbe aiutato anche ad affrontare le altre emergenze, in particolare quella climatica. Siamo ancora in tempo a cambiare rotta e investire su risorse energetiche non soggette a crisi politiche internazionali? Sarebbe stato meglio cominciare prima ma, come si suol dire, “meglio tardi che mai.”

domenica 12 gennaio 2020

Soleimani, io so da che parte stare

Fonte: Il Fatto Quotidiano  Giustizia & Impunità - 11 Gennaio 2020 Francescomaria Tedesco Filosofo della politica
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In Italia c’era chi sapeva leggere le relazioni internazionali. In questo paese c’era una volta una sinistra e questa sinistra era capace di elaborare un pensiero critico, radicale, fuori dagli schemi dell’ortodossia. Non tutta. Sto parlando anzi di una minoranza. Era la sinistra intellettuale ed eretica, certo, fatta spesso di irregolari, cani sciolti che si tenevano lontani dalla Realpolitik che il togliattismo aveva inoculato nel comunismo italiano. Una sinistra realista, tuttavia. Però non cinica, sostenuta da una tensione etica che faceva da contrappunto allo sguardo disincantato sul potere e sullo scettro grondante di lacrime e sangue, come diceva il poeta, e che invece di quello scettro si compiaceva.
Quel pensiero critico oggi è stato abbandonato perché non c’è più una sinistra, né quella ortodossa che spiegava le relazioni internazionali alla luce del marxismo-leninismo, né quella eretica. E tutt’al più spetta ai rossobruni e ai sovranisti ‘di sinistra’ scimmiottare quel lavorare di scarto, quel mettersi di traverso, quel fare sempre la mossa del cavallo che era tipica dei ‘cavalli pazzi’ della sinistra italiana. Uno scimmiottare che – così dice – non è né di destra né di sinistra (e questo è un grave danno) e che soprattutto è molto depauperato, molto indebolito sul piano teorico.
Sia chiaro: c’erano già, dentro quel pensiero eretico, i germi di ciò che sarebbe diventata la sinistra, c’erano tutte le avvisaglie che sarebbe sfociata nel rossobrunismo e nel sovranismo. Ché la critica severa all’Occidente, alle sue colpe, all’imperialismo delle armi e alla retorica colonizzatrice dei diritti avrebbe rischiato di ottenere il risultato di buttare il bambino con l’acqua sporca, liquidando tutto come volontà di conquista del “Grande Satana”.
Qualcuno ancora capace di una visione della complessità per fortuna c’è rimasto, e che gli dei ce lo conservino. Per esempio due grandi intellettuali statunitensi, Noam Chomsky e Richard Falk, che oggi scrivono una lettera preoccupata al Congresso degli Stati Uniti dove rimarcano l’illiceità dell’esecuzione di Soleimani.
Cercando si parva licet di rimanere nel solco di questa tradizione – ma evitandone i rischi e le ambiguità che si denunciavano prima – penso occorra da un lato condannare con fermezza l’azione unilaterale statunitense, svoltasi contro il diritto internazionale, e in generale riconoscere i crimini e i misfatti dell’Occidente; dall’altro lato, tuttavia, occorre tenere fede alla parte migliore dell’eredità dell’Occidente, anche contro l’Occidente stesso, ovvero anche quando è esso stesso – come è sempre accaduto – a tradire quella eredità. Per non buttare, come si diceva, il bambino con l’acqua sporca.
Allora occorre ricordare che il diritto è messa in forma della violenza. Ed è — la forma — la più grande eredità dell’Occidente. Altro che radici giudaico-cristiane! Orbene, valutare un gesto sotto il profilo sostanziale tradisce quella eredità e condanna l’Occidente a tradire se stesso e i suoi valori più alti. Non che sia la prima volta: il tradimento è antico quanto la nascita di quei principi. Ma essi sono un ideale normativo. Se vi abdichiamo, rinunciamo a difendere ciò che davvero andrebbe difeso dell’Occidente, altro che ‘identità’ e ‘culture’ intese nello sciocco senso monolitico degli essenzialisti (i quali, peraltro, non capirebbero un’acca di questo ragionamento).
Dunque l’uccisione di Soleimani ci interroga: come dobbiamo valutarla? Dobbiamo forse salutare con favore l’uccisione mirata e illegale di un uomo forse spregevole, saltando a piè pari la forma, oppure dobbiamo pensare che la forma rappresenti una garanzia che ci allontani dalla barbarie dell’esecuzione sommaria, fosse anche un’esecuzione sommaria di un (forse) criminale? Io so da che parte stare, e so come rispondere a chi — sulle orme di Michael Walzer — risponderebbe con l’argomento della ‘supreme emergency’ con la quale il teorico americano giustificò il bombardamento di Dresda.
Il giudizio su Soleimani sarebbe spettato a una corte internazionale indipendente. Ne esiste una, la Corte Penale Internazionale. Posto che essa sia indipendente, tuttavia il suo funzionamento è su base pattizia. Israele e la Cina, per esempio, non ne hanno sottoscritto lo statuto. Lo stesso hanno fatto gli Stati Uniti. Et pour cause, vien fatto di dire: per il timore di finire, da poliziotti del mondo, sul banco degli accusati.

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