venerdì 7 febbraio 2020

Le Sardine incontrano i Benetton: dimmi con chi vai e ti dirò chi sei

Fonte: Il Fatto Quotidiano Diego Fusaro Cronaca - 4 Febbraio 2020

Vi sono immagini che parlano più delle parole. E lo fanno con l’immediata potenza espressiva che è propria dell’ambito della visione. Tra queste immagini può, con diritto, essere annoverata quella che più di tutte ha circolato per la rete in questi giorni.

Essa mostra il leader delle Sardine alla corte degli United colors dei Benetton, in presenza del vate Oliviero Toscani, il fotografo ufficiale del mondialismo infelice e della sua classe di riferimento. Una magnifica foto di famiglia, che immortala padroni e ciambellani, ancelle e servizievoli manovali del potere a forma di sardine.
Una foto non certo “rubata”, come usa dire nel lessico fotografico: i protagonisti sorridono e sono in posa, fieri di rappresentare il lato buono della storia, quello dello sviluppo capitalistico, del progresso tecnico e del verbo unico politicamente corretto.
Uniti, felici e in sontuosi luoghi patrizi, a distanza di sicurezza dalle vili plebi italiche, che ancora sono dedite a volgari problemi come la casa e il lavoro: e che, per ciò stesso, con la loro barbarie connaturata non si aprono al sogno degli United colors della mondializzazione e della openness cosmopolitica dei flussi di desideri, di merci e di esseri umani mercificati. United colors che, a ben vedere, sono quelli che nascondono il “monocromatismo assoluto” (Hegel) del mercato pantoclasta e senza confini.
Curiosamente la foto ci mostra anche un altissimo muro, che separa i privilegiati della corte dei Benetton dal resto del mondo: esso simboleggia magnificamente il modus operandi dei padroni del vapore, che lottano contro tutti i muri in nome della libera circolazione, e insieme innalzano muri ogni giorno più alti per separare ermeticamente i primi dagli ultimi, gli oppressori dagli oppressi, i padroni dai servi.
La posizione assunta dai patrizi protagonisti della foto è rivelativa: una sorta di “primo stato” privilegiato e facoltoso, che, fermo nel prato verdeggiante, si gode la cornucopia di beni e opportunità che la globalizzazione offre loro nell’atto stesso con cui sottrae il necessario per esistere alla maggior parte del genere umano. Le sfide e le sfighe della globalizzazione coesistono, iniquamente divise tra servi e padroni, tra chi ha l’accesso al giardino segreto dei signori e chi ne è escluso.
Nella foto il leader ittico tiene la mano sul petto: quasi a segnalare partecipazione emotiva per quell’incontro così importante, che rivela il tanto bramato riconoscimento da parte di quelli che davvero contano, i padroni del vapore. Quelli per i quali tanto i sardinici manifestanti si erano spesi nei mesi scorsi, nel tentativo di arginare il rischio populista e, con esso, il possibile ritorno della decisione sovrana democratica contro gli automatismi tecnocratici di quei mercati speculativi che sempre devono avere ragione.
Come se non bastasse, dopo la foto è giunta anche la benedizione di George Soros, che sul Corriere della Sera ha celebrato le Sardine e il loro nuotare seguendo le correnti della open society.
Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei, si diceva un tempo. A questo motto, sagace e sempre attuale, se ne può aggiungere uno ulteriore e convergente: dimmi come ti tratta il potere e ti dirò chi sei realmente.
Avete ancora dubbi sull’identità delle Sardine? Sulla reale essenza di questi “pesci pagliaccio” che, senza lisca e spina dorsale, si muovono sempre secondo le correnti globalisticamente corrette, opponendosi a tutto ciò che alla globalizzazione neofeudale possa opporsi? Gli United colors delle Sardine sappiamo quali sono: il fucsia delle sinistre sbiadite, passate dalla parte dei padroni; e l’arcobaleno sgargiante, dietro il quale si nasconde il grigio del nichilismo oppressivo della società del mercato globale.

mercoledì 5 febbraio 2020

Primarie Usa, chi è Bernie Sanders e qual è il suo programma

Fonte: W.S.I. 4 Febbraio 2020, di Alberto Battaglia

Quattro anni dopo la dura campagna condotta contro Hillary Clinton, Bernie Sanders, 78 anni, ha ripreso la sua corsa per la Casa Bianca. Fra i maggiori candidati alle primarie del partito Democratico americano, Sanders propone il programma politico più audace in senso progressista. Sanders stesso, in un’intervista rilasciata al Washington Post nel 2015, si era autodefinito un “socialista” convinto che “la società potrebbe essere profondamente diversa”. I cavalli di battaglia di Sanders da allora non sono cambiati: più equità sociale, sanità per tutti, regolamentazioni più stringenti per Wall Street e per le banche. Come vedremo i punti chiave sono molto forti, ma il programma non fornisce molti dettagli sul come realizzare queste proposte in caso di elezione. Una cosa, però, è già certa: in caso di vittoria la gran parte degli osservatori e degli analisti prevede una forte correzione sui mercati, prevedendo una stretta sulla tassazione che comprimerà gli utili aziendali.
Sanders, la storiaPrima di essere eletto come senatore del Vermont, nel 2006, la carriera politica di Sanders era già da tempo avviata. Nato a New York nel 1941, Sanders si laureò in scienze politiche presso l’università di Chicago, passò alcuni mesi presso un kibbutz israeliano al termine degli studi, e successivamente si dedicò diversi lavori “umili”: dal falegname all’assistente sociale. Forte di queste esperienze, Sanders continua proporsi agli elettori come un uomo della “classe lavoratrice”. Trasferitosi nel Vermont nel 1968, affiancò ai suoi lavori un’attività di documentarista. Negli anni giovanili Sanders aveva da subito manifestato le proprie simpatie di sinistra unendosi all’affiliazione del Partito socialista d’America. La carriera politica vera e propria per Sanders, però, cominciò nel 1971, quando si iscrisse al Liberty Union Party, una formazione di chiara ispirazione socialista. Nel 1980 Sanders ottenne la sua prima vittoria politica diventando sindaco di Burlington, il più grande centro del Vermont e città ove attualmente risiede. Alla prima elezione comunale (vinta con soli dieci voti di scarto) sono poi seguiti altri tre mandati biennali. Terminato il mandato di sindaco nel 1989, due anni dopo Sanders fece il primo ingresso nella Camera dei rappresentanti di cui sarà una presenza ininterrotta dal ’91 al gennaio 2007. Inizia così l’ultima fase politica come senatore dei Democratici.
Il programma di SandersFacendo leva sulle crescenti diseguaglianze della società americana, Sanders si propone come il portatore di un nuovo equilibrio sociale che rimetta al centro l’equità e gli interessi della “working class”. Sul versante opposto, viene presentato un forte piano di “disciplina” in materia finanziaria. Su questo punto ecco le proposte del senatore del Vermont:
  • “Spezzare” le banche “troppo grandi per fallire” e porre fine alla dottrina troppo “importante per essere incarcerato”.
  • Ripristino della legge Glass-Steagall, che prevede la netta separazione fra le banche d’affari e le banche commerciali.
  • “Controllare la Federal Reserve e renderla un’istituzione più democratica in modo che diventi rispondente ai bisogni degli americani comuni, non solo dei miliardari di Wall Street”.
  • “Limitare la speculazione finanziaria a breve termine con un’imposta sulle transazioni finanziarie”.
Sotto il profilo fiscale, la promessa di Sanders è quella di far pagare alle classi più agiate “una quota più equa di tasse”. Nello specifico:
  • “Abolire le agevolazioni fiscali speciali sulle plusvalenze e sui dividendi a beneficio dell’1% più ricco”.
  • “Aumentare in modo sostanziale l’aliquota fiscale marginale sui redditi oltre i 10 milioni di dollari”.
  • “Chiudere le scappatoie fiscali a beneficio delle società di grandi dimensioni”.
Per gran parte delle promesse elettorali di Sanders sono chiari i principi, ma non i dettagli dell’implementazione. Ad esempio, non viene spiegato in che modo le grandi banche sarebbero costrette a ridimensionarsi per evitare lo status privilegiato del “too big to fail”; oppure, non è chiarito a quanto ammonterebbe l’aliquota sui redditi superiori ai 10 milioni di dollari.
Il programma di politica estera segue lo stesso approccio “per titoli”, mettendo in chiaro però alcuni punti in forte discontinuità con l’amministrazione Trump:
  • “Porre fine al sostegno degli Stati Uniti all’intervento a guida saudita nello Yemen, che ha creato la peggiore catastrofe umanitaria al mondo”.
  • “Aderire di nuovo all’accordo sul nucleare iraniano e parlare con l’Iran su una serie di altre questioni”.
  • “Porre fine in modo responsabile” agli interventi militari in Afghanistan, Iraq e Siria e riportare a casa le nostre truppe”.
Le chance di vittoria di Sanders
Secondo la media dei sondaggi elaborata da RealClearPolitics (aggiornata al 4 febbraio), Bernie Sanders ha consolidato il suo secondo posto, staccando l’altra candidata più a sinistra, Elizabeth Warren. Il suo consenso è attualmente al 23,7% contro il 27% di Joe Biden, ritenuto il candidato più solido, e il 15% della Warren. L’ex sindaco di New York, Michael Bloomberg è dato all’8%.

lunedì 3 febbraio 2020

Brexit, per me il discorso d’addio di Nigel Farage al Parlamento europeo è di una verità lampante

Fonte: Il Fatto Quotidiano Zonaeuro - 1 Febbraio 2020 Francesco Carraro
Il discorso d’addio, di quattro minuti appena, di Nigel Farage al Parlamento europeo – con il quale il più noto dei politici inglesi anti-euro ha salutato l’Unione – è una miniera di spunti di riflessione. E non solo, si badi bene, per i cosiddetti populisti e sovranisti, ma anche per tutti gli altri. Persino per chi ha sempre creduto, e ancora crede, alla prospettiva di una integrazione libera e democratica fra gli Stati del Vecchio Continente. Analizziamolo, allora, passaggio per passaggio.
Esordisce così: “I miei genitori aderirono a un mercato comune, non a un’unione politica, non a bandiere, inni, presidenti”. Solare verità, sia sul piano storico che sul piano della coscienza di massa. Le prime forme di cooperazione rafforzata tra gli Stati europei datano 1951 e 1957 (trattati di Parigi e di Roma) e si connotano per l’istituzione di una “comunità” europea del carbone e dell’acciaio e di una “comunità” economica europea (Cee). Si trattava di intelligenti e lungimiranti forme di “comunitarismo” interstatuale che avevano un senso; e infatti funzionavano proprio perché concepite in una logica di “Comunità”, non di “Unione”. E si muovevano su un piano “economico”, non “politico”.
Erano, in qualche modo – un “modo” equilibrato, abbastanza coinvolgente, ma non troppo soffocante – di tradurre in pratica il monito dell’economista liberale francese Frédéric Bastiat: dove non passano le merci, passano i cannoni. Non pretendevano, insomma, l’impossibile, vale a dire la fusione a freddo di nazioni troppo diverse per diventare una cosa sola. Moltissimi europei, singoli cittadini e interi popoli, hanno inizialmente aderito con entusiasmo a questo progetto proprio perché non intaccava la loro indipendenza e autonomia nazionale.
Questo spirito è stato tradito dagli eventi successivi. E il tradimento è consistito nell’aver traghettato gli europei da quel disegno (comunitario e di matrice economica) a uno tutt’affatto diverso (unionista e di matrice politica) dove si è preteso di imporre un presidente, una bandiera, un inno a persone e a nazioni che già ne avevano di propri senza desiderarne, né averne mai desiderati di nuovi.
Farage prosegue, poi, con un’annotazione sul sedicente processo democratico con cui si è arrivati a questa Unione: “Nel 2005 ho visto la Costituzione scritta da Giscard d’Estaing e da altri, l’ho vista bocciata dai francesi in un referendum e poi l’ho vista bocciata dagli olandesi in un referendum e ho visto voi in queste istituzioni ignorarli, riportarla nella forma del Trattato di Lisbona e vantarvi di averla fatta passare senza referendum”. Anche in questo caso, chi può negarlo? La marcata tendenza delle élite europee a portare avanti la missione integrazionista a dispetto delle manifestate volontà popolari non è un’opinione, ma un dato di fatto.
A questo punto, il discorso di Farage fa un salto di qualità e pone la domanda che tutti avremmo dovuto porci molti anni fa e che oggi forse, almeno per noi, suona drammaticamente tardiva: “Cosa vogliamo dall’Europa? Se vogliamo commercio, amicizia, collaborazione, reciprocità non abbiamo bisogno di una Commissione europea, della Corte europea di giustizia, di tutte queste istituzioni e di tutto questo potere”. Touché, ancora una volta. L’Unione attuale è un “termitaio” di burocrati il cui vertice pianifica i bilanci dei singoli stati di semestre in semestre; e lo fa con una ossessione patologica per le virgole e i decimali. Ancora una volta, non è ciò che gli europei, e i loro padri nobili, avevano in mente quando pensavano al futuro dei propri paesi.
A un certo punto, Farage esclama: “Noi adoriamo l’Europa, ma detestiamo l’Unione europea”. Pure in questa affermazione c’è un potente afflato di verità in grado di spazzare via un micidiale equivoco: l’idea che gli euroscettici o gli euro-critici, i populisti e i sovranisti, debbano essere tutti necessariamente dei nazionalisti ottusi e bellicosi, l’uno contro l’altro maldisposti. È vero il contrario: la gran parte di essi adora l’Europa intesa come “comunità” di Stati indipendenti e pacificamente cooperanti, ma non sopporta più questo tipo di “unione” forzata fra gli stessi.
La conclusione del discorso di Farage, per finire, è una metafora perfetta di quanto egli ha detto, nei quattro minuti del suo intervento, e di quanto è accaduto nei quarant’anni che abbiamo alle spalle. Nigel e i suoi iniziano a sventolare la bandiera del Regno Unito e, perciò, il Presidente del parlamento gli toglie la parola minacciando: “Se disobbedisce alle regole, il suo microfono viene tagliato; per favore rimuova le bandiere”. Ecco cosa è, oggi, l’Unione: una a-democratica e coatta rimozione delle identità nazionali.
Ma questa non deve per forza essere l’Europa democratica del futuro. E una delle più antiche democrazie del mondo ci sta sollecitando a trovare non tanto una liberante via d’uscita per restare da soli, ma una via totalmente diversa per rimanere insieme.
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