Fonte: Il Fatto Quotidiano Zonaeuro - 1 Febbraio 2020 Francesco Carraro
Il discorso d’addio, di quattro minuti appena, di Nigel Farage
al Parlamento europeo – con il quale il più noto dei politici inglesi
anti-euro ha salutato l’Unione – è una miniera di spunti di riflessione.
E non solo, si badi bene, per i cosiddetti populisti e sovranisti,
ma anche per tutti gli altri. Persino per chi ha sempre creduto, e
ancora crede, alla prospettiva di una integrazione libera e democratica
fra gli Stati del Vecchio Continente. Analizziamolo, allora, passaggio
per passaggio.
Esordisce così: “I miei genitori aderirono a un mercato comune,
non a un’unione politica, non a bandiere, inni, presidenti”. Solare
verità, sia sul piano storico che sul piano della coscienza di massa. Le
prime forme di cooperazione rafforzata tra gli Stati europei datano
1951 e 1957 (trattati di Parigi e di Roma) e si connotano per
l’istituzione di una “comunità” europea del carbone e dell’acciaio e di
una “comunità” economica europea (Cee). Si trattava di intelligenti e
lungimiranti forme di “comunitarismo” interstatuale che avevano un
senso; e infatti funzionavano proprio perché concepite in una logica di
“Comunità”, non di “Unione”. E si muovevano su un piano “economico”,
non “politico”.
Erano,
in qualche modo – un “modo” equilibrato, abbastanza coinvolgente, ma
non troppo soffocante – di tradurre in pratica il monito
dell’economista liberale francese Frédéric Bastiat:
dove non passano le merci, passano i cannoni. Non pretendevano,
insomma, l’impossibile, vale a dire la fusione a freddo di nazioni troppo diverse
per diventare una cosa sola. Moltissimi europei, singoli cittadini e
interi popoli, hanno inizialmente aderito con entusiasmo a questo
progetto proprio perché non intaccava la loro indipendenza e autonomia nazionale.
Questo
spirito è stato tradito dagli eventi successivi. E il tradimento è
consistito nell’aver traghettato gli europei da quel disegno
(comunitario e di matrice economica) a uno tutt’affatto diverso
(unionista e di matrice politica) dove si è preteso di imporre
un presidente, una bandiera, un inno a persone e a nazioni che già ne
avevano di propri senza desiderarne, né averne mai desiderati di nuovi.
Farage prosegue, poi, con un’annotazione sul sedicente
processo democratico con cui si è arrivati a questa Unione: “Nel 2005
ho visto la Costituzione scritta da Giscard d’Estaing e da altri, l’ho
vista bocciata dai francesi in un referendum e poi l’ho
vista bocciata dagli olandesi in un referendum e ho visto voi in
queste istituzioni ignorarli, riportarla nella forma del Trattato di Lisbona
e vantarvi di averla fatta passare senza referendum”. Anche in questo
caso, chi può negarlo? La marcata tendenza delle élite europee a portare
avanti la missione integrazionista a dispetto delle manifestate
volontà popolari non è un’opinione, ma un dato di fatto.
A questo
punto, il discorso di Farage fa un salto di qualità e pone la domanda
che tutti avremmo dovuto porci molti anni fa e che oggi forse, almeno
per noi, suona drammaticamente tardiva: “Cosa vogliamo dall’Europa? Se
vogliamo commercio, amicizia, collaborazione,
reciprocità non abbiamo bisogno di una Commissione europea, della Corte
europea di giustizia, di tutte queste istituzioni e di tutto questo
potere”. Touché, ancora una volta. L’Unione attuale è un “termitaio” di
burocrati il cui vertice pianifica i bilanci dei singoli stati di
semestre in semestre; e lo fa con una ossessione patologica
per le virgole e i decimali. Ancora una volta, non è ciò che gli
europei, e i loro padri nobili, avevano in mente quando pensavano al
futuro dei propri paesi.
A un certo punto, Farage esclama: “Noi adoriamo l’Europa, ma detestiamo l’Unione europea”. Pure in questa affermazione c’è un potente afflato di verità in grado di spazzare via un micidiale equivoco: l’idea che gli euroscettici
o gli euro-critici, i populisti e i sovranisti, debbano essere tutti
necessariamente dei nazionalisti ottusi e bellicosi, l’uno contro
l’altro maldisposti. È vero il contrario: la gran parte di essi adora
l’Europa intesa come “comunità” di Stati indipendenti e pacificamente
cooperanti, ma non sopporta più questo tipo di “unione” forzata fra gli
stessi.
La conclusione del discorso di Farage, per finire, è una
metafora perfetta di quanto egli ha detto, nei quattro minuti del suo
intervento, e di quanto è accaduto nei quarant’anni che abbiamo alle
spalle. Nigel e i suoi iniziano a sventolare la bandiera del Regno Unito
e, perciò, il Presidente del parlamento gli toglie la parola
minacciando: “Se disobbedisce alle regole, il suo microfono viene
tagliato; per favore rimuova le bandiere”. Ecco cosa è, oggi, l’Unione:
una a-democratica e coatta rimozione delle identità nazionali.
Ma questa non deve per forza essere l’Europa democratica del futuro. E una delle più antiche democrazie
del mondo ci sta sollecitando a trovare non tanto una liberante via
d’uscita per restare da soli, ma una via totalmente diversa per rimanere
insieme.
www.francescocarraro.com
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