sabato 18 luglio 2015

Lezioni greche: ideologici e no

18/07/2015 di triskel182
Alla fine di questa settimana che ha segnato uno spartiacque nella storia d’Europa, risulta tragicamente ridicola tutta questa cosa del debito greco.

Quello che principalmente chiedeva Tsipras da anni – cioè il taglio o almeno una sua robusta dilazione nel tempo – gli è stato ripetutamente negato fino a farlo capitolare. Ma adesso sia il Fondo monetario, sia la Bce, sia il governo Usa dicono all’unisono: oh cazzo, ma questo debito è così gigantesco che un’economia così debole non potrà mai ripagarlo nei tempi stabiliti; oh cazzo, ma più gli chiediamo di rispettare le scadenze più strangoliamo quell’economia già debole, quindi non ci conviene; oh cazzo, l’unica cosa possibile per riavere indietro almeno una parte dei soldi è tagliare il debito o dilazionarlo robustamente nel tempo!

Fantastico, no? Sono arrivati alle stesse conclusioni che Tsipras sosteneva inutilmente da tempo (sentito con le mie orecchie anche qui a Roma, al teatro Valle), però quando lo diceva Tsipras era un estremista di sinistra o un greco scansafatiche (a scelta) mentre adesso che è stato piegato come un filo di paglia si scopre che aveva ragione lui. L’epicentro della sua battaglia (che era questo, mica l’Iva sulle isole) era l’unica strada percorribile.

La cosa merita una riflessione non per dar ragione a Tsipras (ormai, poraccio, se ne fa poco delle ragioni) ma perché è l’altra faccia del discorso che si faceva ieri, e con il quale vi sto martirizzando gli zebedei da diversi giorni: il discorso cioè sulla dialettica tra pragmatismo e ideologia, ma anche tra realtàe utopia.

Perché ci siamo detti mille volte quanto gli utopisti di sinistra siano stati spesso troppo ideologici e abbiano pertanto preso frequenti musate dal mondo: ieri si parlava ad esempio di com’è difficile oggi in un singolo Paese europeo fare politiche diverse da quelle diverse dalla Troika, dato l’intreccio onnipotente di poteri economici, finanziari e politici che dettano le condizioni a tutti.

Ma forse sarebbe il caso di iniziare a vedere con lucidità anche l’ideologia opposta, quella che ha mosso per anni proprio la Troika: basata sul dogma del pareggio contabile, dell’austerità pubblica come unica ricetta economica, delle regolette Ue che impediscono di prendere misure di buon senso e talvolta indispensabili, come appunto la ristrutturazione del debito greco (ma anche, più in generale, la sciocchezza del fiscal compact con il suo fantasioso vincolo del 3 per cento).

A fronte di rigidità sistematiche sinottiche, la vulgata corrente vuole tuttavia che l’una sia pragmatica (quella liberista, ça va sans dire) e l’altra tutta ideologica. Ma ciò avviene per il semplice fatto che la prima è vincente, cioè che ha i muscoli per imporsi, quindi ha il potere. Un po’ come se nell’Urss di Breznev si fosse detto che i piani quinquennali non erano ideologici ma pragmatici per il semplice fatto che il regime aveva la forza di imporli nel reale.

Bene: trattasi di cazzata.

E proprio la colossale marcia indietro di queste ore sul debito greco di tutti i protagonisti vincenti di quella trattativa ne è la prova finale, se ce ne fosse stato ancora bisogno. Un’ideologia non è più pragmatica delle altre per il fatto di avere la forza di imporsi. Un’ideologia è tale perché è rigida, astratta, priva di sfumature e di buon senso, incapace di afferrare la viva complessità delle vicende umane. Perché fa prevalere la tesi teorica sulle osservazioni sperimentali. Perché per sopravvivere rifiuta la confutabilità e la falsificabilità. Perché quindi appartiene, sostanzialmente, alla metafisica.

Se dunque è ancora tale quando diventa vincente, resta comunque ideologia. Non è che diventa pragmatismo perché si impone, perché ha provvisoriamente conformato il mondo a se stessa.

Ecco: si diceva delle cesure storiche determinate dagli eventi degli ultimi dieci giorni, delle lezioni da trarne, e anche del dramma specifico di una sinistra radicale che per la prima volta “si è arresa alla realtà” così come la sinistra storica si era arresa al liberismo da decenni, fin dai tempi di Blair. Ma questa è solo una realtà imposta da una ideologia: quella finora vincente.

Se volete, al termine di questa pippa, la dico più da bar: okay, noi di sinistra l’abbiamo capito che le ideologie sono false perché rigide e astratte; quindi qualsiasi sinistra più o meno radicale del futuro dovrà essere aperta, confutabile, sperimentale, plastica, empirica etc etc.

Peccato che non l’abbiano capito i liberisti, che continuano invece a gabellare per unica realtà possibile il frutto della loro ideologia, salvo ammettere di aver fatto una cazzata solo quando l’avversario è stato umiliato e politicamente azzerato.

(Da gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it)

p.s.

sempre per non rimanere sull'ovvio.....

buon week end

mercoledì 15 luglio 2015

Crisi economica: l’insostenibile pesantezza della democrazia

Fonte: il Fatto Quotidiano del 15 luglio 2015 blog di Sergio Noto
Sarà il caldo torrido, ma c’è un’aria strana in giro. Non è solo lo scirocco che arriva dalla Grecia e che riporta solo brutte notiziespesso indecifrabili, incomprensibili e inseparabili dalla propaganda. Non è il venticello calunnioso dei giornali – non solo italiani – tutti allineati e coperti a difendere a una sola voce le stesse cause, i medesimi interessi, non si sa bene rappresentativi di chi, certo non della maggioranza della popolazione. In questa prima parte d’estate la crisi economica sta avendo un effetto-restaurazione spaventoso, che dovrebbe preoccupare un po’ tutti, non solo quelli che non patiscono le torride giornate di questi giorni e non si fanno distrarre dal sudore. Non ridete, la democrazia è in grave pericolo.

 PERICLE

La propensione dei politici per la democrazia è proporzionale alla lorodistanza dal potere, se sono ai vertici è uguale a zero. Gli economisti poi non hanno mai avuto nessuna simpatia per la democrazia, un po’ come tutti gli intellettuali, perché in fondo (nemmeno troppo) l’idea che tutti contino allo stesso modo non gli va a sangue. In più, specificamente, nella teoria economica, ad esempio, non c’è spazio per la democrazia. Presso alcuni economisti (i cosiddettiteorici del libero mercato) per precisa convinzione pre-scientifica, per altri – quelli che chiameremmo economisti sociali– per una spocchia inconfessata, che in ogni caso li porta a perseguire discriminazioni non disinteressate, a seconda degli obiettivi del momento (togliere illegittimamente a un ricco o a un povero, dal punto di vista della democrazia è parimenti un controsenso). In altre parole la democrazia non è certo di famiglia (endogena) alla teoria economica, primo perché di proposito ambisce a sottrarsi a principi extra-economici, secondo perché di fatto, come alcuni hanno dimostrato efficacemente, essa è un impaccio all’efficienza economica (Robert J. Barro) soprattutto in fasi di avanzato sviluppo.

Quindi il problema non è solo che l’attuale governo italiano sta attuando una serie di misure limitative della democrazia, dalla riforma del mercato del lavoro, alle leggi elettorali, ai provvedimenti spot a favore di questo o di quello. È una tendenza generale, su più livelli. La crisi (rottura/separazione) ha reso ancora più acuto ilcontrasto antico tra gruppi organizzati e interessi generalie le difficoltà dei primi si sono tradotte in un’intensificazione delle azioni di supporto ai loro obiettivi e quindi in una riduzione dello spazio per la tutela degli interessi diffusi. Tra le banche e i risparmiatori, tra i produttori e i consumatori, tra gli eletti e gli elettori, tra creditori e debitori vediamo quotidianamente a vantaggio di chi sono state fatte le scelte.

Né la storia si limita al fatto, che, come abbiamo visto tutti in questi ultimi mesi, le istituzioni europee, gli Stati nazionali nostri vicini marciano tutti a grandi passi nella direzione di una restaurazione potente del potere delle oligarchie, economiche, politiche, culturali. La Merkel o Cameron, l’euro forte o Obama debole, laCina con i suoi impressionanti rischi e la sua potenza economica condotta come una macchina da guerra da alcuni ‘generali’, laRussia alla ricerca del perduto prestigio internazionale che fa dimenticare ai suoi cittadini la strada della democrazia: sono tutti segni di un mondo ormai tacitamente schierato contro la democrazia e contro l’interesse dei singoli cittadini, come la punta di un processo che riguarda tutto il mondo ‘sviluppato’.

Eppure noi continuiamo a essere fiduciosi che in un futuro anche prossimo, lo sviluppo, passerà attraverso, non dico la democrazia che resta un sogno, ma certamente attraverso un’estensione della partecipazione ai benefici dello sviluppo economico, un’ampliamento del numero dei commensali. Anzi – e vogliamo dirlo ai nostri manovratori – siamo convinti che è veramente miope illudersi che, per vili fini di tutela di alcuni gruppi, la ricchezza e il benessere che viene strappato alla maggior parte dei cittadini non determinerà alla fine reazioni estremamente dannose anche per quanti oggi continuano a credere come proprio vantaggio il danno altrui. Non conviene mai, nel perseguire il proprio interesse, lasciarsi troppi cadaveri alle spalle. Questo non è un vecchio principio democristiano, è una semplice legge del buonsenso. Il benessere, la ricchezza, la qualità della vita – tutti obiettivi composti da molteplici elementi non esclusivamente materiali – si godono meglio in una società che riduca e non alimenti i contrasti.

La questione non è di poco conto e le soluzioni non sono semplici, ma già la consapevolezza che una battaglia è in corso potrebbe essere il punto di partenza per un cambiamento. La libertà è partecipazione – come diceva Gaber – ma a maggior ragione lo è la democrazia. Farsi solo gli affari propri, a meno che non si sia il Ceo di Goldman Sachs, non giova come si potrebbe sperare, né nel medio, né tantomeno nel lungo periodo. Ma questa è una banalità. Bisogna ampliare le nostre prospettive, capire che la vita è una struttura complessa, che non si risolve con scelte semplicistiche causa-effetto. E soprattutto dobbiamo comprendere che è necessario tornare a batterci ogni giorno con estrema concretezza per la democrazia. Non so quando sia incominciato in Italia il percorso della democrazia, ma certamente è ora di riprenderlo con forza, senza divisioni, prima che sia troppo tardi.

p.s.

commenti sull'ovvio?

Un accordo.. avvelenato

.. per una sera non volgiamo lo sguardo oltre adriatico, ma andiamo oltre: dove si fa la storia per davvero; storia con la "S" maiuscola una volta tanto: lasciamo stare i nani, le ballerine, kiap**** in********, i sognatori del quarto reich, gli schiavi e i candidati tali ma parliamo di un vero punto di crisi: ossia di quei nodi, questo è davvero cruciale, della geopolitica che possono, a esser ottimisti, cambiare la storia o essere forieri di tragedie, guerre e terrorismo che possono travolgere stati, imperi economie e interi continenti, per tacere della tanto, da qualcuno anche ricercata fortemente per motivi puramente economici, declamata III° guerra mondiale...... ritengo in primo luogo che si questo accordo potrebbe essere una classica svolta nella storia ma Obama si doveva decidere prima, almeno all'inizio del secondo mandato e non ora alla fine per il semplice motivo che le prossime elezioni quasi sicuramente le vinceranno i repubblicani e tutti sappiamo che per tanti motivi essi sono uno dei rami politici molto sensibili ai desiderata non solo israeliani ma pure dei cosiddetti "paesi arabi moderati... tutti sunniti" che considerano gli iraniani alla stessa stregua di apostati e nemici mortali: questo solo per l'aspetto "politico-religioso" ma c'è n'è anche un altro ossia quello geopolitico dove conta chi ce l'ha più lungo: gli iraniani sono per loro un mortale concorrente e un Iran "nuclearizzato" è una vera e prorpia iattura: una guerra poteva essere inevitabile... e non è detto che venga evitata. Vediamo:

  1. Israele si è già tirata fuori; non riconosce  l'accordo anzi parla di asse del male vittorioso..... può darsi ma chi fa gli attentati? Soprattutto sunniti come sunniti sono quelli dell'Isis. Prima, però, di poter fare qualcosa dovrà attendere due condizioni ineludibili ossia o un "incidente" che gli dia l'agio di saltare al collo dell'Iran o una eventuale vittoria del GOP americano, i repubblicani, ben sapendo che senza quell'ombrello è praticamente isolato. Nel frattempo, potete giurarci, i palestinesi saranno messi molto sotto pressione.....
  2. i cosiddetti "paesi arabi moderati" son quasi tutti sunniti e odiano più degli americani gli sciiti iraniani.. non fa ben sperare il rumoroso silenzio del più grosso di essi, l'Arabia Saudita che vede il paese sciita come una vera spina nel fianco, un concorrente dell'area e un pericoloso esempio per le varie minoranze sciite dell'area.. non aspetterà altro che un qualunque motivo, anche banale, per dare la stura e liberare i mastini della guerra......  da un punto di vista strettamente militare credo che la lotta sarebbe pari, con una leggera pendenza verso gli iraniani che hanno praticamente sconfitto Saddam (dietro il quale si nascondeva l'intero occidente), se dietro a ognuno non ci fossero mani "straniere" e "progetti dentro altri progetti (cito a memoria dal film "dune") ..

...per ora mi godo il risultato ben sapendo che è una cosa importante ma i bizantinismi della diplomazia ci sranno molteplici scappatoie e dettagli e ben sappiamo che il diavolo è proprio lì che si nasconde!
p.s.
ricordate sempre quanto sostenne Brezynski a proposito dei sovietici che invasero l'afghanistan: "mi sarei alleato anche con il diavolo pur di mandarli via"... 

lunedì 13 luglio 2015

Grecia, Sapelli: “Germania vuole uccidere la Grecia mossa da fanatismo ideologico”

Giulio Sapelli, economista e docente di Storia economica all’università Statale di Milano. Cosa guadagna la Germania da una eventuale Grexit?
“La Germania vuole ammazzare la Grecia. Se si fosse riunito il Consiglio Ue a 28 – cosa che non si è fatta sotto la pressione diplomatica francese e americana – e si fosse arrivati al voto, la Germania e i suoi vassalli l’avrebbero espulsa. Poi è arrivata la decisione di non riunione il Consiglio europeo, ma di convocare l’Eurosummit composto dai Paesi che hanno l’euro”.
Che ha chiesto ad Atene un fondo da 50 miliardi in cui far confluire gli asset greci in cambio del terzo salvataggio.
“Si è compiuto ciò che era già scritto. Sono dei fanatici che fanno dell’austerità una religione: all’austerità può credere soltanto unprofessore della Bocconi, uno che non è un economista ma è un ragioniere. Dietro questa battuta c’è una tragedia immensa: la riduzione dell’economia alla ragioneria“.
In alternativa, è rimasta sul tavolo fino all’ultimo la possibilità di una Grexit temporanea di 5 anni.
“E’ matto, non ha un senso economico. Ha solo un senso politico, di affermazione, di dominio: i tedeschi vogliono di nuovo dominare l’Europa. Helmut Schmidt diceva :’Devi abbracciare l’Europa, non sedertici sopra‘. Loro ci si siedono sopra. La questione greca – e in questi giorni si celebra l’anniversario della strage di Srebrenica – comincia dalla Bosnia, passa dalla Macedonia, va in Grecia, poi finisce a Mosca o in Turchia. Ci sono buone ragioni per pensare che i tedeschi spalancheranno le porte alla vittoria dell’Isis”.
E’ un’affermazione forte, professore.
“Questa è la vera chiave di questa tragedia. Destabilizzando la Grecia, destabilizzano i Balcani. E in Bosnia, in Kosovo in Macedonia e in Montenegro c’è l’Isis, sono Paesi in cui è evidente e diffuso il fenomeno della radicalizzazione “.
Cosa succede oggi in Grecia senza un accordo?
“Le banche resteranno chiuse e spero che tra un po’ di tempo verranno fuori le monete complementari, di cui la Bce aveva preconizzato l’uso. I greci andranno avanti per un po’ con le monete complementari, poi torneranno alla dracma ma sarà una catastrofe perché dovranno pagare i loro debiti in euro e soprattutto le banche francesi e quelle tedesche sono piene di debito greco collateralizzato, un’arma di distruzione di massa”.
Ma perché la Germania avrebbero architettato questo piano diabolico?
“I tedeschi fanno questo non per calcolo economico, ma solo perfanatismo ideologico. Sono dei fanatici. Questa situazione riflette la disgregazione dell’ordine internazionale. Tutte le medie potenze regionali aspirano ad operare “stand alone“, da sole: i tedeschi sono convinti di poter andare avanti senza gli Stati Uniti e si alleano con i cinesi, gli inglesi anche, i russi hanno scelto da tempo la via dell’isolazionismo, i francesi sono gli unici che hanno ambizioni imperiali e ciò è dimostrato dal fatto che hanno cercato di aiutare i greci. Noi abbiamo perso una grande occasione e credo che Renzi rischi moltissimo”:
Cosa rischia Renzi?
Questa roba delle intercettazioni è stato un avviso degli americani, che gli hanno detto ‘guarda che se non ti comporti bene, non fai come Hollande e non ti metti chiaramente con Atene, noi ti facciamo cadere’. Ma il nostro presidente non intercetta i messaggi che arrivano da oltreoceano, quindi sceglie di essere fedeleassolutismo teutonico. Questa è una disgrazia, perché l’Europa senza l’appoggio degli Stati Uniti non esiste, è un nano. Anche economico, nella stagnazione secolare che avanza. Avevo previsto questa tendenza al predominio dei tedeschi. E’ una cosa che inizia con la vittoria di Sedan, dal 1870 (battaglia decisiva della prima fase della guerra franco-prussiana, che portò alla capitolazione di Napoloeone III e alla fine della secondo Impero francese, ndr). I tedeschi adesso danno l’ultima mazzata alla Francia. Ma è anche una grande sconfitta della Merkel: se avesse aiutato Atene, non sarebbe più stata Cancelliere”.
Quindi Renzi crede ancora di potere esercitare un ruolo in Europa?
“Renzi non crede in nulla. Se lo credesse, avrebbe dovuto chiedere una conferenza internazionale con Stati Uniti e Cina sul debito greco”.
Forse lei conferisce a Renzi un peso internazionale che non ha.
“Il peso internazionale lo si acquisisce sfidando il cielo. Potrebbe cominciare a farlo: insomma, l’Italia ha 60 milioni di abitanti, è in una posizione di assoluta centralità al centro del Mediterraneo. Avrebbe le carte in regola per osare e chiedere di più. E’ solo un fatto di coraggio. Renzi questo coraggio non ce l’ha, quindi segna la fine della Grecia, del ruolo internazionale dell’Italia e forse anche del suo governo”.
Alla fine vincerà la Germania, quindi.
“Ha già vinto. Ma vincerà, perdendo: Merkel porta a casa una vittoria di Pirro perché sarà costretta a fare un blocco economico del Nord. All’inizio si darà vita a un euro a due velocità. E questo segnerà la fine dell’Europa unita”.
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fin qui l'articolo del Prof. Sapelli... devo dire che nella sua analisi mi ci ritrovo in pieno perchè, non sono un economista, l'impressione che se ne ricava dall'atteggiamento della Commissione, a guida tedesca, è esattamente questo ma mi chiedo: saranno i cittadini disposti ad accettare questi diktat o forse vi saranno costretti a farlo, magari con le armi del terrore, mediatico o meno, o con le armi, molto più sottili, dell'economia bottegaia? Perchè credo che il vero obiettivo non sia solo quello di piegare i recalcitranti paesi del mediterraneo ma di perpetrare un europa a due e magari tre velocità: ricordate quel che hanno i piemontesi agli stati del sud dell'italia appena conquistato, vero? Credo che sia, in grande, lo stesso progetto senza però alcuna alternativa valida come invece c'era allora del nascente socialismo.. solo arido mercto e solo bottegai: triste destino attende tutti noi.... ma in italia votiamo ancora per questi qui, quindi: chi è causa del suo mal pianga se stesso...

domenica 12 luglio 2015

Crisi Grecia, ecco gli altri maxi debiti dei Paesi Ue. Dietro Atene c’è Roma

di dal Fatto Quotidiano del 10 luglio 2015
La ristrutturazione del debito greco, che vale 320 miliardi di euro (quasi il 200% del Pil), è uno dei punti di maggiore attrito nelle trattative tra Atene e la troika. Una prima modifica dei termini di pagamento è avvenuta nel 2011 con un taglio del valore nominale di una parte dei titoli del 50% e una rimodulazione delle scadenze. Ora il governo greco vorrebbe ottenerne un’altra, forse più drastica. In questo quadro giovedì Olivier Blanchard, capo economista dimissionario del Fondo monetario internazionale, pur non facendo nomi ha messo tutti in guardia: “Dobbiamo essere pronti a vedere altri episodi del genere nella dinamica del debito”, ha affermato durante la presentazione delle previsioni economiche aggiornate dell’istituzione di Washington. A chi gli chiedeva se facesse riferimento a qualche Paese in particolare, il capo economista ha detto di non voler parlare di alcun caso specifico. Forse a Roma o a Lisbona a qualcuno hanno fischiato le orecchie, visto che quello italiano è il secondo debito più pesante rispetto al prodotto interno lordo, dopo quello di Atene.
E di ristrutturazione del debito si è parlato in passato, spesso sottovoce, anche per l’Italia, che insieme al Portogallo è forse il Paese dell’aera euro potenzialmente più a rischio. Nel 2011, con lo spread sopra i 500 punti e tassi di interesse sui titoli decennali oltre il 7%, un intervento sul debito è stato visto come qualcosa di più che una semplice ipotesi. Il nostro paese ha sulle spalle un fardello da oltre 2.190 miliardi di euro di debiti, per l’83% sotto forma di titoli di Stato, su cui paghiamo ogni anno tra i 70 e gli 80 miliardi di interessi.
(qui c'è un grafico interattivo che vi guardate sulla pagina web del giornale)
È tanto, è troppo? Dipende. Innanzitutto più che il valore assoluto conta il rapporto con il Prodotto interno lordo. Quello italiano vale oggi circa 1.616 miliardi di euro. Il rapporto tra debito e Pil è dunque al 132%. Come per molti paesi occidentali è cresciuto in questi anni di crisi anni della crisi. Era al 116% nel 2011, al 123% nel 2012, al 128% nel 2013. Il peggioramento è dovuto sia all’aumento del debito sia dalla discesa del Pil. L’Ocse, utilizzando criteri di calcolo più severi rispetto a quelli dei governi nazionali, stima che il debito italiano abbia ormai raggiunto il 156% del Pil. Cifra che il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha definito “fuori luogo”.
Tutto considerato c’è poco da festeggiare, ma non significa che le nostre finanze siano in rotta verso il disastro. I fattori in gioco non sono solo l’entità del debito e la crescita economica ma anche inflazione (più è alta più chi ha debiti è avvantaggiato), il livello degli interessi e il saldo tra entrate e uscite pubbliche. L’Italia è uno dei pochi paesi europei ad avere mantenuto per quasi tutti gli anni della crisi un avanzo primario, ossia le entrate hanno superato le spese prima che venissero pagati gli interessi sui debiti. Inoltre grazie alle politiche della Banca centrale europea, che hanno piallato tutti i rendimenti, paghiamo interessi storicamente molto bassi. Nel 2014 la media è stata appena del 3,7% e se si guarda le sole nuove emissioni ci si ferma addirittura all’1,3%.
L’inflazione, bassa se non inesistente, ci gioca invece contro. A conti fatti al momento non ci sono allarmi ma è chiaro che, soprattutto se la crescita dovesse rimanere asfittica, l’Italia è più vulnerabile di altri ai cambiamenti delle condizioni economiche e di mercato. È giusto tuttavia ricordare che il nostro Paese vanta un pedigree di debitore impeccabile. Insieme a Gran Bretagna e Francia è uno dei pochi Paesi europei a non aver mai dichiarato default o ristrutturato il suo debito nell’ultimo secolo. L’Austria, l’Ungheria e la Germania lo ha fatto ben due volte, la Russia e la Turchia tre, la Grecia lo aveva già fatto nel 1932. Storicamente gli episodi di default o ristrutturazione del debito sono stati molto più comuni di quanto non si possa pensare. Tra il 1975 ed oggi in Europa se ne sono contati 8. In America Latina addirittura 35, in Africa 21, in Asia altri 7.
In generale negli ultimi anni in Europa l’aumento del debito in rapporto al Pil è stata una regola con poche eccezioni. In base ai dati Eurostat la Francia ha visto il suo rapporto salire dall’85 al 95% tra il 2011 e il 2014. In Spagna dove le casse pubbliche si sono dovute sobbarcare il salvataggio del sistema bancario si è saliti in tre anni dal 69 al 97%. In Belgio si è passati dal 102 al 106%, in Olanda dal 61 al 69 %, in Portogallo da 111 a 130%. La Gran Bretagna ha portato il suo debito dall’81 a quasi il 90%. È aumentato, pur rimanendo su livelli contenuti, anche il debiti della Svezia e della Finlandia. In controtendenza invece la Germania, il cui debito è passato dal 77 al 74 percento del Pil pur avendo una dimensione in valori assoluti simile al nostro, circa 2mila miliardi di euro. Fuori dall’Europa è il Giappone a distinguersi per l’entità del suo debito, pari a circa il 200% del Pil, ossia oltre quasi 10mila miliardi di euro. Una situazione che non ha impedito al Paese di mobilitare investimenti pubblici a sostegno della crescita economica. Gli Stati Uniti hanno da poco varcato la soglia del 100% dopo che le ingenti risorse stanziate per aiutare la ripresa economica hanno portato il passivo dei conti pubblici sopra i 10mila miliardi.
In attesa di decisioni sulla Grecia, rimane una domanda cruciale: ristrutturare il debito è utile per il Paese che ne beneficia? La risposta non è così scontata come si potrebbe immaginare. Una delle (poche) certezze è che le mezze misure servono a poco. È quanto sostiene una delle massime esperte al mondo di crisi di debiti sovrani, l’economista Carmen Reinhart, che in un recente studio ha messo in luce come storicamente interventi radicali sul debito siano stati seguiti da una ripresa economica significativa. Dove per interventi radicali si intende drastici tagli al valore nominale dei titoli che incidono sulla carne viva di chi ha concesso i prestiti. Azioni più timide come allungamento dei tempi dei rimborsi o semplice riduzione degli interessi hanno effetti molto più modesti e di solito non forniscono una spinta decisiva all’economia. Sui possibili interventi sul debito si sprecano considerazioni e ragionamenti. Da un lato c’è chi mette in luce come la rinegoziazione dei termini dei rimborsi sia una macchia che rimane, complicando i rapporti con i mercati per lungo tempo. Dall’altro c’è chi fa notare come sia difficile che un paese si dedichi anima e corpo a un processo di riforme avendo la consapevolezza che i frutti dei sacrifici serviranno innanzitutto a pagare i creditori. La ristrutturazione di debiti sovrani è evento molto più comune di quanto possa sembrare.

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